Eloda Rossi blog

CONVENZIONE DELLE N.U. SUI CAMBIAMENTI CLIMATICI

LA CONVENZIONE QUADRO DELLE N.U. SUI CAMBIAMENTI CLIMATICI E LE INCERTEZZE DELLE PREVISIONI SUL CLIMA

Convenzione siglata a New York, alla data del 9 maggio 1992 (anno in cui la CEE emanava la Normativa Habitat che mi piace citare perché, a mio avviso, più equa e concreta riguardo gli ecosistemi).

A mio giudizio, fra tutte le Convenzioni, questa possiede un grado di approfondimento maggiore sulle tematiche ambientali. Tuttavia – e credo sia già chiaro il mio punto di vista – ritengo che manchi del fondamento scientifico sul quale sono imperniate le programmazioni (ossia, criteri e indicatori per la misurabilità della componente dei cambiamenti climatici derivati dall’azione antropica), oltre l’essere permeata di una forma di <antropomorfismo> che poco giova agli equilibri naturali, di cui l’uomo è parte paritaria alle altre. Inoltre, c’è da domandarsi ancora una volta: è possibile, secondo quanto emerge dagli studi degli scienziati, esercitare azioni di controllo sul clima? Interrogativo che ho trattato, tra l’altro, nell’Articolo La voce della Scienza (https://www.elodiarossi.it/la-voce-della-scienza/), riportando le opinioni di alcuni grandi studiosi.

Qui mi limito ad esporre, seppur brevemente, i principi su cui è fondata la Convenzione e il suo obiettivo generale, al solo scopo di fornire un quadro di riferimento efficace allo sviluppo dei miei studi (da cui derivano le mie posizioni) raccolti in diversi articoli di questo blog. Non tratterò quindi le metodologie, le determinazioni, né alcun altro contenuto, mancando – a mio avviso e come già detto – il fondamento scientifico di supporto all’intero documento.

Il Preambolo della Convenzione è ricco di spunti e di moniti. Particolarmente interessante è la disposizione secondo cui gli Stati devono adottare un’efficace normativa ambientale e (…) le norme ambientali, gli obiettivi e le priorità di gestione devono riflettere lo stato dell’ambiente e dello sviluppo al quale si applicano, e (…) le norme applicate da alcuni Paesi possono essere inadeguate e possono comportare ingiustificati costi economici e sociali nel caso di altri Paesi, in particolare nei Paesi in sviluppo. Disposizione questa che risulta adeguata se scissa dal contesto generale della Convenzione: l’adozione di una corretta politica ambientale è un dovere di ogni Stato, indipendentemente dal tema – complesso e ancora confuso – del governo climatico.

Altrettanto interessante, forse proprio perché pone implicitamente l’accento sull’inadeguatezza conoscitiva, è il punto in cui si riconosce che le iniziative necessarie per comprendere e fronteggiare i cambiamenti climatici sono più efficaci sul piano ambientale, economico e sociale, se sono basate su pertinenti considerazioni scientifiche, tecniche ed economiche e se sono costantemente riesaminate alla luce dei nuovi risultati raggiunti in questi campi. Eppure è proprio questa incertezza conoscitiva (se vi fossero certezze, perché perseguire nuovi risultati?) che poi guida l’intera Convenzione, traducendosi sorprendentemente in assioma nel proseguo della trattazione. Come si può governare ciò che non si conosce o si conosce solo in parte?

Il punto su cui, all’interno di questa breve esamina, voglio soffermarmi maggiormente è quello che espone l’obiettivo della Convenzione (Art. 2 Obiettivo). Ecco il testo:

L’obiettivo ultimo della presente Convenzione e di tutti i relativi strumenti giuridici che la Conferenza delle Parti può adottare è di stabilizzare, in conformità delle pertinenti disposizioni della Convenzione, le concentrazioni di gas ad effetto serra nell’atmosfera a un livello tale che sia esclusa qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sul sistema climatico. Tale livello deve essere raggiunto entro un periodo di tempo sufficiente per permettere agli ecosistemi di adattarsi naturalmente a cambiamenti di clima e per garantire che la produzione alimentare non sia minacciata e lo sviluppo economico possa continuare ad un ritmo sostenibile.

Dunque stabilizzare (…) le concentrazioni di gas ad effetto serra nell’atmosfera… E fin qui, nulla da opinare, visto che si tratterebbe di un ottimo proposito, anche se avrei preferito la sostituzione del verbo stabilizzare con la locuzione ridurre al massimo. Purtroppo c’è il seguito della frase, secondo cui la stabilizzazione delle concentrazioni di gas a effetto serra deve giungere …a un livello tale che sia esclusa qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sul sistema climatico. Qui si entra nel mistero, perché se è vero quanto affermato da alcuni studiosi e scienziati (Rif. Art. La voce della Scienza) che la climatologia possiede una componente enorme di imprevedibilità finanche a breve termine, ne deriverebbe l’impossibilità di misurazione delle interferenze tra clima e attività umane. Resta valido il proposito ma, forse, avrebbe avuto più consistenza se fosse stato enunciato in maniera differente. Ad esempio e a mio avviso, una possibile enunciazione avrebbe potuto essere questa: ridurre al massimo le concentrazioni di gas ad effetto serra nell’atmosfera, in maniera da contrarre qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sull’equilibrio degli ecosistemi. Personalmente dunque, avrei puntato il dito più sulle interferenze tra attività umane e inquinamento (da cui discendono alcuni dei disequilibri degli ecosistemi), che non invece tra attività umane e cambiamenti climatici (campo, lo ripeto fino alla noia, ancora molto discusso e, per ampi versi, ignoto).

Andando avanti, l’obiettivo cita …Tale livello deve essere raggiunto entro un periodo di tempo sufficiente per permettere agli ecosistemi di adattarsi naturalmente a cambiamenti di clima e per garantire che la produzione alimentare non sia minacciata e lo sviluppo economico possa continuare ad un ritmo sostenibile. L’adattamento degli ecosistemi ai cambiamenti climatici, al di là dell’interferenza umana, rappresenta un evento naturale, anche quando la composizione stessa degli ecosistemi viene a modificarsi. Le mutazioni intervenute nei Secoli ne sono una valida conferma. Ragion per cui parrebbe una forzatura – peraltro di indubbia misurazione – quella di relazionare l’adattamento degli ecosistemi alla riduzione delle concentrazioni di gas serra derivate dalle attività umane. Mancherebbero indicatori fondamentali di misurazione. Quanto le modificazioni di un ecosistema possono attribuirsi all’evoluzione naturale e quanto invece alle interferenze umane? In che misura la produzione di gas serra deriva dal cambiamento climatico (nella componente che riguarda l’evoluzione naturale del sistema Terra) e in che misura invece è imputabile all’azione umana?

Vengo al punto più dolente, a mio giudizio: perché orientare l’obiettivo ai temi del garantire la produzione alimentare e lo sviluppo economico? Non potrebbe risultare più coerente, equo e rispettoso dell’ambiente complessivo (di cui l’uomo è parte) il garantire al massimo la contrazione dei danni umani sul sistema Terra? Ne sono più che convinta, ritenendo che uno dei maggiori problemi ambientali – e, di conseguenza, legati alla distruzione degli ecosistemi – sia relazionato proprio ad un tipo di sistema alimentare umano (Rif. Articolo Città, effetto serra e allevamenti intensivi – https://www.elodiarossi.it/effetto-serra-allevamenti-intensivi-e-bisogni-effimeri-urbani/) in stretta connessione con l’economia che produce (economia sporca, perché settoriale, mai adeguatamente relazionata al derivato danno ambientale che, esso stesso, genera diseconomia). Bisognerebbe invece valutare il grave danno economico che origina questo genere di pratica; bisognerebbe comprendere e divulgare scientemente il significato di economia ambientale (con tutti gli indicatori di misurazione e di risultato disponibili) e i valori che ne sono di corollario, per capire quale entità di danno provoca la pratica degli allevamenti intensivi e, a seguire, quella di altre tecniche produttive alimentari.

Infine, l’enunciazione dell’obiettivo della Convenzione richiama il tema dello sviluppo sostenibile (poi ribadito nel corso della trattazione, come nel caso dell’Art.3, comma 2). Qui ritorna l’infondatezza del concetto di sostenibilità, come argomentato nell’Articolo L’inganno della sostenibilità (https://www.elodiarossi.it/linganno-della-sostenibilita/).

Facendo un seppur breve passo indietro, desidero richiamare due commi dell’Art. 1 della Convenzione. È l’articolo che tratta delle definizioni, sancendo la terminologia utilizzata nel corso dell’esposizione. Ecco il testo dei due commi e, a seguire ognuno, il mio commento/parere:

  1. «effetti negativi dei cambiamenti climatici»: i cambiamenti dell’ambiente fisico o della vita animale e vegetale dovuti a cambiamenti climatici, che hanno rilevanti effetti deleteri per la composizione, la capacità di recupero o la produttività di ecosistemi naturali e gestiti per il funzionamento dei sistemi socioeconomici oppure per la sanità e il benessere del genere umano;

Qui non mi dilungo molto, avendo già detto riguardo le relazioni (non misurabili scientificamente) tra cambiamenti climatici e mutazioni degli ecosistemi. Dunque varrebbe indagare con quali strumenti e criteri dovrebbero essere valutati gli effetti negativi dei cambiamenti climatici. In più, non posso non ribadire, con incrementale disappunto, l’esistenza di un’imprudente relazione indotta tra salute degli ecosistemi e il benessere dei sistemi (socio-)economici. Perché è altamente pericolosa, per la sopravvivenza del Pianeta, la strumentalizzazione degli ecosistemi a fini esclusivamente umani. Ed è pericolosa finanche per l’uomo, essendo questo parte degli ecosistemi naturali.

  1. «cambiamenti climatici»: qualsiasi cambiamento di clima attribuito direttamente o indirettamente ad attività umane, il quale altera la composizione dell’atmosfera mondiale e si aggiunge alla variabilità naturale del clima osservata in periodi di tempo comparabili;

Mi limito a far notare che parrebbe perlomeno superficiale identificare i cambiamenti climatici con qualsiasi cambiamento di clima attribuito direttamente o indirettamente ad attività umane (…) che si aggiunge alla variabilità naturale del clima. Scusandomi per la ripetizione dell’interrogativo, chiedo: con quali criteri e indicatori si può stabilire la componente di cambiamento attribuibile alle attività antropiche? Io non l’ho ancora capito.

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