Elodia Rossi

Siamo tutti più poveri

Se è vero che la ricchezza umana non è nel denaro, come io credo, ma nella conoscenza, nella capacità di elaborare pensieri, nel saper conquistare la sola libertà che possediamo – quella interiore – e nel saperla esternare con sapienza, beh, allora siamo tutti più poveri.

Un breve pensiero il mio, visto che notizie sull’uomo che ci ha lasciati il 24 aprile scorso se ne trovano in abbondanza sui quotidiani e nel web.

Aveva 97 anni. Per quanto appaiano molti, non sono abbastanza per una mente che ha inciso (e inciderà) sul pensiero filosofico e morale dello scorso Secolo, di quello attuale e di quelli che verranno. Lucido pensatore, appassionato nell’indagare – tra l’altro – i meccanismi che regolano la vita e le relazioni tra questa e lo spazio/tempo, Aldo Masullo ha contribuito ad aprire le menti attraverso quella vivacità della coscienza di cui è padre, a orientare gli orizzonti del pensiero verso un universo spesso disatteso, invece strutturato nel vivere quotidiano.

E tutto questo va ben oltre la sua esperienza e i suoi orientamenti di politico, le sue onorificenze e la gloria che si è conquistato all’interno dei contesti decisionali. Sostenitore della diversità di idee, da cui discende la dialettica, tutto questo si deve invece alla sua intensa attività di filosofo, penetrante differenti campi e mirante appunto a introdurre il senso vero della coscienza nelle scelte. Mi viene in mente la tenacia con cui aveva affrontato la contrapposizione all’abortito PRG che intendeva rivoluzionare Napoli con l’abbattimento di quella struttura urbana che ne caratterizza una storia delicata e complessa: i quartieri spagnoli. Dovuto è il richiamo alla collaborazione con un altro insigne pensatore, Gerardo Marotta, fondatore dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, anch’egli venuto a mancare.

Come potrei dimenticare quando, giovane studentessa di architettura alla Federico II di Napoli, non trascuravo di seguire le lezioni di Filosofia morale di Masullo, presso la vicina sede della sua Facoltà? E c’è stata una relazione, guidata dall’altrettanta enorme sapienza di un altro grande uomo recentemente scomparso e a me infinitamente caro: Corrado Beguinot (https://www.elodiarossi.it/corrado-beguinot-il-mio-maestro/). Seguirono i tempi in cui s’indagava, all’interno di un gruppo di ricerca internazionale sugli studi urbani (cui orgogliosamente appartenevo), sulle relazioni tra spazio-tempo-velocità e capacità percettiva in differenti contesti architettonici. Mi si apriva un mondo nuovo e la mia attenzione all’architettura affrontava orizzonti affascinanti e più intensi. Orizzonti che hanno guidato e guidano ancora le mie scelte e non solo architettoniche. C’è una morale in questo: l’architettura diviene un veicolo. Ma è una storia lunga, alla quale ho fatto cenno in alcuni articoli precedenti (per esempio: https://www.elodiarossi.it/le-dimensioni-dellarchitettura/https://www.elodiarossi.it/v-le-dimensioni-dellarchitettura/).

Grazie Corrado Beguinot. Grazie Gerardo Marotta. E grazie Aldo Masullo.

Senza di voi, quest’Italia già martoriata a me appare genuflessa.

Senza voi, siamo tutti più poveri.

Il dolore delle Vele di Scampia

È un urlo di dolore quello che lanciano le Vele di Scampia. Un urlo che segue una lunga sofferenza, fatta di abbandono, tradimento, incomprensione, trascuratezza, incuranza. Oggi non hanno colore, sono giganti addolorati che piangono e chiedono aiuto. Eppure sono lì, ancora in piedi, nonostante tutto. Non tutte però, visto che ormai se ne contano soltanto quattro sulle sette iniziali. Tre sono state abbattute tra il 1997 e il 2003, già in condizione di forte degrado a soli vent’anni o poco più dalla loro solenne nascita.

Opere maestose, studiate abilmente per accogliere residenze sociali, diventate immediatamente un simbolo per gli architetti e per tutti coloro che hanno il senso dell’estetica. Francesco Di Salvo, il progettista, aveva saputo guardare ben oltre la produzione architettonica che aveva caratterizzato gli anni sessanta (momento in cui iniziò l’edificazione), offrendo un contributo straordinario di innovazione – perfino futuristica – al decennio successivo: gli anni settanta, quando le vele s’ersero in tutto il loro splendore. Di Salvo ebbe appena il tempo di vederle compiute (nel 1975), per donarle all’universo delle forme magistrali e poi morire nel 1977, poco più che sessantenne.

Mai avrebbe pensato che si sarebbero susseguiti anni di incuria amministrativa, lunghi periodi di trascuratezza, che sarebbe sopraggiunto l’impeto degli occupanti abusivi ai tempi del dopo terremoto, che l’incapacità dei deputati al governo urbano non avrebbe consentito di vedere oltre e riconoscere in quelle opere il grande merito di essere state progressiste, di aver largamente anticipato un orientamento architettonico che, destinato a durare, emana ancora la sua espressività.

Le vele di Scampia sono state emulate (talvolta perfino copiate, permettetemi il termine), nella loro essenza formale, da numerosi progettisti di lì a venire e non soltanto italiani. Ho in mente molti di questi casi e, senza voler manifestare apertamente quelli che considero usurpazioni evidenti, faccio timido cenno ad alcune manifestazioni recentissime di edifici-giardino, opere di grandi studi di architettura, i cui impianti sembrano ricalcare non poco quelli delle Vele.

Hanno ispirato film, libri e perfino poesie. Ora il Comune di Napoli ha deciso di procedere all’abbattimento di altre tre. Ne rimarrebbe una soltanto, da destinare a uso pubblico/sociale (centro di accoglienza).

Ventisette milioni di euro (così si dice) stanziati per l’abbattimento e via, dunque, a un programma di riqualificazione con mutazione della destinazione d’uso per la sola Vela che resterà in piedi. Perché?

Perché non consegnare i ventisette milioni all’avvio di un programma di riqualificazione complessiva delle Vele e del quartiere che le ospita? Saranno pur pochi, ma potrebbero bastare per la messa in sicurezza e per le prime operazioni di completamento. Potrebbero bastare, se si lavorasse con criterio, magari affidando appalti per settori (e non l’appalto complessivo) a ditte locali di modeste dimensioni, favorendo l’economia e salvando l’architettura. Perché è di architettura che si sta trattando: architettura lucida, esemplare, tronfia di criteri progettuali incontestabili.

Perché lo stesso Ente che non ha avuto la capacità di evitare il degrado, senza scrupolo oggi s’erge a giudice supremo che ne sentenzia la morte?

Dov’è il Ministero dei Beni Culturali? Come può consentire un tale scempio e non sostenere, al contrario, un programma intelligente di valorizzazione di un bene che, come pochi, ha positivamente influenzato gli anni a venire.

L’architetto Luigi De Falco ha lanciato una petizione attraverso Change.org: Salviamo le Vele di Scampia dalla demolizione. Io ho firmato. Salviamole.

ACQUA

Quando il sole sorge, (…) L’importante è che cominci a correre.”

Anonimo ‘900

20 ottobre 1995

Lettera ad un individuo, uno a caso, ricco sfondato.

Una giornata a caso della vita di uno qualunque, uno a caso, che arranca per vivere.

<Mi sveglio, è l’alba.

Oggi piove. Piove su qualunque cosa io faccia. Inesorabilmente piove.

Ho mal di schiena e un diffuso, sordo dolore alla pancia: già, il mio problema di salute. Chi se ne frega. Se dovessi starci appresso, avrei ben poco tempo per inventarmi la vita. E infatti, è proprio questo che cerco di fare: inventarmi la vita.

Mi alzo, mi lavo, mi vesto, vado in cucina e mi preparo un caffè ben carico. Metto la caffettiera sul fornello e, poco dopo, scoppia! Troppo carico? Un pezzo da una parte, un pezzo dall’altra. Il filtro, sbattendomi sulla fronte, finisce in terra e il caffè è dappertutto. La cucina è, ora, ben ornata di macchie scure. Un’espressione d’arte contemporanea?

Scatto d’ira, ho un bernoccolo in fronte. Butto all’aria anche l’ultimo pezzo della caffettiera, il fondo, l’unico rimasto sul fornello. Non ho tempo per prepararmi un altro caffè. Il mio treno parte tra non molto e devo assolutamente raggiungere Roma per un appuntamento in banca. Chissà se con la tua benedizione mi concederanno un piccolo finanziamento? Visto che la tua benedizione m’è costata cara in termini di lavoro fatto al tuo posto, chissà?

Esco di casa; c’è il sole. Entro nella mia anzianotta vettura color bronzo e, ovviamente, questa non parte. O meglio, fatica non poco a mettersi in moto. L’adrenalina sale, la schiena mi fa male, la pancia pure. Devo andar veloce – pura illusione per la mia povera auto – se voglio prendere il treno. Arrivo alla stazione, cerco un parcheggio e – ti pare! – il più vicino dista almeno un chilometro dai binari. Scendo di corsa e di corsa vado verso la biglietteria. Il treno è in ritardo: almeno quaranta minuti. Ma che posso sperare da un diretto del cavolo, non potendo permettermi uno di quei treni veloci e costosi? Maledizione! Corro verso un telefono pubblico e cerco di avvisarti, ma non ci riesco: il tuo cellulare, l’unico di cui ho il numero, è spento. Nevrosi al massimo! Non mi piace portare ritardo.

Finalmente salgo sul treno, arrivo a Roma e, guarda caso, piove a dirotto. E a che vale pensare che a Napoli c’era il sole? Ora non ho un ombrello e devo raggiungere la banca, questa è la realtà. Fradicio come non mai, arrivo all’appuntamento fuori l’agenzia e tu non ci sei. Sarà andato via non vedendomi arrivare?, mi viene spontaneo chiedermi. Macché: non sei ancora arrivato, ma io questo non lo so.

E intanto piove e io continuo a bagnarmi. Grondo acqua da tutte le parti. Le mie scarpe sono zuppe come i miei capelli, come il mio giaccone, come la mia cartella, come il mio tutto. A questo punto non vale la pena neppure cercare un riparo; vale la pena continuare a farmi la doccia, tanto è lo stesso. Certo, se avessi avuto una macchina come una di quelle che hai tu, un autista e un segretario servizievole con l’ombrello, sai chi se ne sarebbe fregato della pioggia, del treno, del parcheggio, eccetera. Va be’!

Dopo un quarto d’ora di doccia davanti la porta d’ingresso della banca, mi convinco che devo telefonare per cercare di rintracciarti, per capire cosa possa essere accaduto e quanto pregiudizievole possa essere stato il mio non colpevole ritardo. Non ho gran simpatia per i cellulari, però mi accorgo di quanto sarebbe comodo possederne uno in un momento come questo. Ma è del tutto inutile che io ci pensi. Cerco una cabina telefonica ma quando ne cerchi una, specie a Roma, non la trovi facilmente o almeno non la trovi funzionante. Poi, con la mia dichiarata fortuna! Quando rintraccio, dopo vari tentativi, la cabina funzionante ecco che all’interno c’è un uomo che parla, parla, parla. Tanto, tanto da non volersi acquietare mai. E a nulla serve che io mi affanni a sventolare la mia carta telefonica col preciso intento di farmi vedere, per dichiarare insofferente fretta e disappunto verso quell’atteggiamento a dir poco maleducato e menefreghista. Finalmente il tizio esce, si badi bene, senza neppure scusarsi dell’attesa che mi ha causato, per giunta sotto la pioggia. Entro in cabina, introduco la scheda nel telefono e, porca miseria!, ci sono solo quattrocento lire di autonomia. Non saprei proprio quanto dista il rivenditore più vicino. Come faccio a chiamare un cellulare con quattrocento lire? Ok, messaggio lampo: io sono qui, sono arrivato, ecco tutto. Tu sei in ritardo, questo ora sono riuscito a capirlo. Ti aspetto e quando, finalmente, arrivi ben asciutto con la tua Maserati (a me l’acqua piovana ha lavato perfino l’anima), ore tredici, entriamo in banca. Se non altro la pioggia ha dato sollievo al mio bernoccolo.

A questo punto, ridere o piangere? La banca non permette operazioni, non c’è corrente. Un guasto, questo è il problema. Ma è un guasto che riguarda soltanto il palazzo dell’agenzia. Dunque servirà più tempo per la riparazione. Se si fosse trattato dell’intero quartiere, i tecnici sarebbero arrivati in tempi più rapidi. Così invece, toccherà aspettare. E quanto? Una buona cosa: dal momento in cui ho messo piede in banca, non piove più. Attendiamo mezz’ora fino alla chiusura del mattino, ma l’elettricità non è ancora in funzione. E’ tempo di uscire. Le porte stanno per essere chiuse e bisognerà tornare all’apertura pomeridiana, ossia alle quindici.

Ironia della sorte, nel mettere piede fuori, ritorna insidiosa la pioggia. E’ come se ci fosse una nuvola nera che mi perseguita, proprio qui, piantata sulla mia testa. E a che è valso, poco prima, essermi asciugato, o meglio tamponato dell’eccesso – si fa per dire – d’acqua, con dei pacchi interi di fazzoletti di carta che sono finiti a colmare i porta-rifiuti dell’agenzia? Va be’, tanto ormai sono assuefatto a quest’insidia. Devo vagare fino alle quindici e poi, dopo essermi assicurato che l’energia elettrica sia tornata attiva, dovrò avvisarti telefonicamente: questi sono gli accordi a me poco favorevoli, naturalmente. L’indifferenza dei potenti richiede anche la servitù. E’ una specie di regola. Ma il tempo è galantuomo e, un giorno o l’altro, mi prenderò una rivincita a mio modo (che illusione!).

Intanto, i miei ricoveri sono tettoie, aggetti di abitazioni, cornici e ingressi di palazzi, qua e la, posti lungo il mio disordinato tragitto. Non mi pesa, ci sono abituato. Poi, oggi sono nervoso e non ci penso!

Ore quindici: sono di nuovo in banca. La corrente elettrica è attiva, il guasto è stato riparato. Ora però manchi tu che, come d’accordo, aspetti che io ti avvisi. Ricomincio. Ritorno in cabina telefonica: quella di prima. Dalle tredici alle quindici i negozi sono chiusi e io sono senza carta telefonica. Bisogna avere la mente lucida per ricordarsi tutto e oggi non è proprio uno di quei giorni. Utilizzo gli spiccioli che mi trovo in tasca e lancio un nuovo messaggio lampo. Ritorno in banca e aspetto. Poco dopo, tu arrivi più asciutto che mai. Facciamo la nostra operazione, che mi ha scorticato l’anima per il tempo che mi ha sottratto, e ci salutiamo. Non è andata come speravo, naturalmente.

Guarda, guarda, non piove. Esco e mi dirigo verso la metropolitana. Non faccio che quattro passi e un tuono feroce annuncia una nuova scarica d’acqua. Non ho certo dovuto attendere per questo. Puntuale, l’unica cosa veramente puntuale della giornata è la pioggia. Altra doccia.

Non so cosa fare. Non ho un accompagnatore con l’ombrello e, in questo momento, non ho neppure un ombrello. Non ho un’auto con l’autista e non ho neppure un’auto che mi permetta di percorrere tranquillamente duecentocinquanta chilometri senza il rischio di perdere un’intera giornata o di essere lasciato a piedi sull’autostrada. Non ho un autista. Non ho un segretario con quattro cellulari – come il tuo – per avvisare dei ritardi (mai premeditati) o per comunicare il mio arrivo. E probabilmente se l’avessi, avrei anche la tua buona dose d’indifferenza che mi porterebbe ad attendere che siano gli altri – quelli che fanno la doccia gratis – a chiamare! In più, le cabine telefoniche, merce per gente di strada, non funzionano quasi mai.

Ho solo buoni piedi, tanta pioggia che mi bagna (non si capisce se piovo più io oppure il cielo) e una testa nella quale si addensano le mie idee, le mie conoscenze e le mie competenze. Perfino le mie aspirazioni. E sai che ti dico? Non ho nulla, è vero; ma non sono meno intelligente di te. Al diavolo, non mi sento assolutamente meno intelligente di te. In ogni caso, non stare lì a preoccuparti di quello che sto dicendo, considerato che ho una certa stima della mia intelligenza. E’ come dire che stimo anche te, non ti pare? Non dimenticare che le differenze tra due individui si misurano evitando le uguaglianze.

Sai qual è la vera differenza tra noi due, al di la dei valori? E’ che, maledetta sorte, sul mio capo piove, piove sempre, inesorabilmente piove. Sul tuo, invece, c’è il sereno e, all’occorrenza, un bel tetto che ti ripara. E non sempre queste cose si conquistano. Altrimenti, cosa sarebbe la sorte?

Ah, dimenticavo: è sera, ormai. Il risultato di questa giornata? Brividi di freddo, un termometro sotto la lingua, un gran mal di gola e un deciso mal di testa che si sommano ai dolori di schiena e di pancia>.

Ora chiudo gli occhi e dormo. Domani è un altro giorno e VEDREMO.

Corrado Beguinot, il mio maestro

Qualche giorno fa, il 6 gennaio 2018, il professore Corrado Beguinot si è spento.

Lascia un’eredità enorme di saperi e pensieri dedicati al suo principale obiettivo di vita lavorativa: dare un contributo deciso, forte, consapevole, al governo dello sviluppo urbano.

Il professore Beguinot non è stato soltanto un grande architetto e urbanista. E’ stato un innovatore, un anticipatore, con una tale capacità d’intuizione che è patrimonio solo delle menti eccelse.

Lucido pensatore, affrontava i temi della città cablata quando ancora nessuno ne aveva percepito il senso. Né mai i decisori, a cui erano destinati tanti e tali studi tradotti in pubblicazioni, hanno avuto la capacità di comprenderne il significato vero, quel significato che avrebbe di certo contribuito a frenare l’impeto delle spasmodiche e irrazionali conurbazioni.

Ma il professore Beguinot non si è mai arreso. Consapevole della violenza disastrosa del processo di crescita urbana e dell’incapacità di governo ai differenti livelli, ancora prima che s’intuisse la problematica dei disordini interrazziali, lui già affrontava i temi della civile convivenza, affinché la pluralità etnica fosse vista come una risorsa e non come un problema. Non società multietniche, diceva, ma società inter-etniche.

Con questo spirito e obiettivo è arrivato nelle massime sedi del potere istituzionale, alle Nazioni Unite, mettendo in moto una macchina produttiva di grande spessore culturale e coinvolgendo menti interdisciplinari, allo scopo di affrontare il problema da ogni punto di vista.

Con lui sono stata alle Assemblee Generali dell’ONU (e ai vari eventi promossi in collaborazione con le Agenzie delle Nazioni Unite) perché la voce della Delegazione Italiana – da lui, Presidente della Fondazione di Studi Urbanistici Aldo Della Rocca, capeggiata – fosse ascoltata; con lui ho scritto volumi sul tema, con lui ho lavorato a lungo, fino alla fine.

Questa è una foto recente, che feci a casa sua nel corso di una sosta lavorativa. La trovo piacevole, lui ride. E’ un bel ricordo.

Ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare intensamente il professore, il mio professore, per oltre trent’anni. Ho lavorato con lui fin da quando, alla fine degli anni Ottanta, era Presidente del Consorzio MIXER (I.R.I.). Potrei dunque parlare delle sue qualità professionali scrivendo pagine su pagine e senza stancarmi. Ma ho letto tanti articoli pubblicati in questi giorni: il web è pieno, pieni ne sono i giornali.

C’è però un aspetto della sua vita che non tutti hanno avuto il privilegio di conoscere: la sua infinita disponibilità umana. E io sento il dovere, oggi più che mai, di sottolineare quanto questo aspetto sia stato importante nella mia storia professionale e quotidiana.

Il professore Corrado Beguinot è stato (ed è) per me un padre, un consigliere, un grande e insostituibile amico. Mi lascia molti impagabili insegnamenti: un metodo di lavoro che mi ha sempre aiutata, un modo di scrivere senza compromessi, la consapevolezza di affrontare l’obiettivo – qualunque esso sia – con grande determinazione, la responsabilità di una meta comune. Ma non di meno l’esortazione di tendere all’umiltà, non professionale ma di animo.

E ora purtroppo mi lascia anche una forte malinconia.

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