Elodia Rossi

IL PROTOCOLLO DI KYOTO

Tanto per tornare sul tema di quella che io sospetto essere una distorsione collettiva e planetaria sul surriscaldamento globale, sintetizzo i contenuti del Protocollo di Kyoto.

Il Protocollo di Kyoto, ratificato dall’Italia nel 2002 con la Legge 120, è direttamente collegato alla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite ed è entrato in vigore il 16 febbraio del 2005 (novanta giorni dopo l’adesione della preordinata quota parte di Paesi).

I contenuti si riferiscono al controllo delle emissioni di sei gas a effetto serra, come dispone la Convenzione Quadro all’articolo 2 e con le modalità indicate nell’articolo 3. I gas serra segnalati per il controllo sono: il biossido di carbonio (CO2), il metano (CH4), il protossido di azoto (N2O), gli idrofluorocarburi (HFC), i perfluorocarburi (PFC), l’esafluoro di zolfo (SF6).

In sintesi estrema, il rispetto del Protocollo prevede che gli Stati firmatari si siano impegnati a ridurre le emissioni di gas a effetto serra di almeno il 5% rispetto ai livelli del 1990 nel periodo 2008-2012. Ulteriore impegno degli Stati membri dell’Unione è stato quello di ridurre collettivamente le loro emissioni dell’8% tra il 2008 e il 2012.

Per il periodo anteriore al 2008, poi, le parti si sono impegnate a compiere progressi e a fornirne le prove entro il 2005.

In successivi articoli vedremo se ciò è accaduto. E lo vedremo con metodo, utilizzando indicatori di risultato.

Proseguo con una sintetica carrellata dei contenuti rilevanti di ogni articolo.

L’articolo 1 del Protocollo di Kyoto riguarda le definizioni. Segnalo la n. 3 che definisce il Gruppo Intergovernativo di Esperti sul Cambiamento Climatico, facendolo coincidere con il Gruppo Intergovernativo di Esperti sul Cambiamento Climatico costituito congiuntamente dalla Organizzazione Meteorologica Mondiale ed il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, nel 1988.

Segnalo inoltre che la definizione numero 4 richiama il Protocollo di Montreal del 1987. A questo punto bisogna ricordare che Il 15 ottobre 2016 in Ruanda, in occasione della ventottesima Riunione delle Parti, i 197 Paesi firmatari del Protocollo di Montreal hanno approvato un emendamento mirato all’eliminazione progressiva della produzione e dell’utilizzo degli idrofluorocarburi (HFC). L’uso degli HFC era stato introdotto, a seguito dell’adozione del protocollo di Montréal nel 1987, in sostituzione dei clorofluorocarburi, principali responsabili della distruzione dello strato di ozono. Successivamente però si è giunti alla determinazione secondo cui gli HFC, pur non essendo sostanze ozono-lesive, sono potenti gas serra che incidono negativamente sull’ambiente, raggiungendo un danno migliaia di volte maggiore rispetto all’anidride carbonica. Non è questo inquietante? Perché si firma un Protocollo internazionale che fonda su basi evidentemente incerte?

L’articolo 2 elenca le misure e le politiche che ogni Paese (o gruppo di Paesi) dovrebbe applicare per mitigare l’effetto serra. Si ritrovano qui temi come le energie rinnovabili, l’agricoltura cosiddetta sostenibile, la gestione forestale, il rimboschimento, oltre ad aspetti riguardanti temi economici e gestione di servizi (rifiuti, trasporti, eccetera). Ciò, guarda caso, al fine di combattere i cambiamenti climatici. Naturalmente, nessun riferimento esplicito (direi neppure implicito) agli allevamenti intensivi.

L’articolo 3, con riferimento agli allegati A (contenente l’elenco dei gas e effetto serra) e B (contenente i limiti quantitativi non superabili derivati dagli impegni assunti da ogni Paese) del Protocollo, dispone, come precedentemente accennato, che gli Stati firmatari riducano le emissioni di almeno il 5% rispetto ai livelli del 1990 nel periodo 2008-2012 e gli Stati membri dell’Unione le riducano collettivamente dell’8% tra il 2008 e il 2012. Dispone inoltre il momento di verifica delle azioni al 2005. Seguono poi disposizioni di carattere economico-amministrativo-gestionale sulle quali sorvolo.

L’articolo 4 tratta il tema dell’adempienza dei Paesi, in dipendenza dei risultati da conseguire e regola alcuni degli accordi tra le parti.

L’articolo 5 dispone, tra l’altro, che ogni Parte … realizzerà, non più tardi di un anno prima dell’inizio del primo periodo di adempimento, un sistema nazionale per la stima delle emissioni antropiche dalle fonti e dall’assorbimento dei pozzi di tutti i gas a effetto serra non inclusi nel Protocollo di Montreal. La Conferenza delle Parti agente come riunione delle Parti del presente Protocollo deciderà, nella sua prima sessione, le linee guida di tali sistemi nazionali…

Indica inoltre le modalità con cui devono realizzarsi i sistemi di stima, fatta salva l’accettazione da parte del Gruppo Intergovernativo di Esperti sul Cambiamento Climatico.

L’articolo 6 e il 7 trattano delle modalità con cui adempiere agli impegni dettati dall’articolo 3, soprattutto in merito all’acquisizione e la cessione di unità di riduzione tra Paesi, oltre che del ruolo della Conferenza delle Parti.

L’articolo 8 tratta il sistema del controllo dell’operato dei Paesi, da effettuarsi tramite un gruppo di esperti coordinati dal Segretariato, soprattutto secondo un approccio gestionale-amministrativo: verifica della compilazione annuale degl’inventari, revisione delle comunicazioni nazionali, eccetera. Approfondisce inoltre il ruolo della Conferenza delle Parti, introducendo altri soggetti (Organo Sussidiario di Attuazione, Organo Sussidiario del Consiglio Scientifico e Tecnologico).

L’articolo 9 mette il punto sull’esame periodico del Protocollo alla luce delle migliori informazioni scientifiche disponibili e degli studi di valutazione sul cambiamento climatico ed il loro impatto come pure delle pertinenti informazioni tecniche, sociali ed economiche.

L’articolo 10 indica la necessità di formulare e aggiornare regolarmente i programmi nazionali che i Paesi sono chiamati a redigere. Sottolinea che tali programmi dovrebbero riguardare, tra l’altro, i settori energetico, dei trasporti e dell’industria come pure l’agricoltura, la silvicoltura e la gestione dei rifiuti. Introduce poi i temi delle tecnologie di adattamento e dei metodi di pianificazione territoriale, quali elementi in grado di produrre un più snello adattamento ai cambiamenti climatici. Sostiene l’idea della cooperazione tra Paesi per la diffusione di tecniche e tecnologie innovative, per l’avanzamento condiviso della ricerca scientifica (mirata, in modo particolare, alla promozione di sistemi di osservazione e alla costituzione di archivi di dati, oltre che per l’esecuzione di programmi educativi e formativi sia sul piano istituzionale che su quello generale).

L’articolo 11 dispone le modalità di attuazione riguardanti l’articolo 10 e il 4, facendo peraltro riferimento a l’entità o le entità incaricate di assicurare il meccanismo finanziario della Convenzione, i paesi sviluppati Parti della Convenzione e le altre Parti sviluppate incluse nell’Allegato II della Convenzione. Dipana poi alcune disposizioni in merito alle modalità d’azione di questa o queste entità e in merito a scambi di risorse economiche tra Paesi. Francamente fumoso appare il tema della o delle entità. Certamente introduce, di contro, un elemento che avrebbe portato, di lì a venire, alla costituzione di ulteriori comitati o similari.

L’articolo 12 istituisce quello che viene chiamato meccanismo per uno sviluppo pulito. Ovviamente si tratta di altro comitato (o similare). Al di là della terminologia piuttosto vaga, al meccanismo vengono dati compiti specifici, tra cui l’essere soggetto all’autorità e alle direttive della Conferenza delle Parti agente come riunione delle Parti del Protocollo e alla supervisione di un comitato esecutivo. Vengono poi introdotti altri enti operativi, sempre designati dalla Conferenza delle parti. Abbastanza contorto nell’articolazione dei compiti, ma chiaro nel definire ruoli di spessore.

Gli articoli 13, 16, 17 e 18 stabiliscono il ruolo della Conferenza delle Parti, quale organo supremo della Convenzione, le sue modalità d’azione, oltre il rapporto tra essa e gli osservatori, quali soggetti deputati dagli Stati ad essere rappresentati.

L’articolo 14 stabilisce il ruolo del Segretariato, in riferimento all’articolo 8, mentre l’articolo 19 ratifica il 14.

L’articolo 15, quello dell’Organo Sussidiario del Consiglio Scientifico e Tecnologico e dell’organo Sussidiario di Attuazione, in riferimento agli articoli 9 e 10.

L’articolo 20 si concentra sui ruoli e sui compiti delle Parti, introducendo il ruolo di una differente figura (o comitato): il Depositario.

L’articolo 21 consiste in disposizioni varie e di rito, sia riguardo gli Allegati al Protocollo, sia riguardo eventuali Emendamenti.

Gli articolo 22-28, conclusivi, concernono disposizioni varie: entrate in vigore, depostiti, tempistiche, eccetera.

E questo è quanto.

Già, parrebbe una considerazione finale piuttosto strana, ma non è tale se si relaziona questo articolo ai precedenti (e a quelli che verranno) contenuti nella stessa sezione (geografia/ambiente) di questo blog. Il mio obiettivo è ricercare elementi di aleatorietà dei grandi trattati sull’ambiente e, in particolare, sui cambiamenti climatici. Ritengo di averne trovati già molti, fin dall’inconsistenza (di cui ho più volte parlato) del fondamento scientifico che, come insegnano menti eccelse, scientifico non è.

(La foto riportata in alto è del 2014, da me scattata da una finestra della sede delle Nazioni Unite a New York)

CONVENZIONE DELLE N.U. SUI CAMBIAMENTI CLIMATICI

LA CONVENZIONE QUADRO DELLE N.U. SUI CAMBIAMENTI CLIMATICI E LE INCERTEZZE DELLE PREVISIONI SUL CLIMA

Convenzione siglata a New York, alla data del 9 maggio 1992 (anno in cui la CEE emanava la Normativa Habitat che mi piace citare perché, a mio avviso, più equa e concreta riguardo gli ecosistemi).

A mio giudizio, fra tutte le Convenzioni, questa possiede un grado di approfondimento maggiore sulle tematiche ambientali. Tuttavia – e credo sia già chiaro il mio punto di vista – ritengo che manchi del fondamento scientifico sul quale sono imperniate le programmazioni (ossia, criteri e indicatori per la misurabilità della componente dei cambiamenti climatici derivati dall’azione antropica), oltre l’essere permeata di una forma di <antropomorfismo> che poco giova agli equilibri naturali, di cui l’uomo è parte paritaria alle altre. Inoltre, c’è da domandarsi ancora una volta: è possibile, secondo quanto emerge dagli studi degli scienziati, esercitare azioni di controllo sul clima? Interrogativo che ho trattato, tra l’altro, nell’Articolo La voce della Scienza (https://www.elodiarossi.it/la-voce-della-scienza/), riportando le opinioni di alcuni grandi studiosi.

Qui mi limito ad esporre, seppur brevemente, i principi su cui è fondata la Convenzione e il suo obiettivo generale, al solo scopo di fornire un quadro di riferimento efficace allo sviluppo dei miei studi (da cui derivano le mie posizioni) raccolti in diversi articoli di questo blog. Non tratterò quindi le metodologie, le determinazioni, né alcun altro contenuto, mancando – a mio avviso e come già detto – il fondamento scientifico di supporto all’intero documento.

Il Preambolo della Convenzione è ricco di spunti e di moniti. Particolarmente interessante è la disposizione secondo cui gli Stati devono adottare un’efficace normativa ambientale e (…) le norme ambientali, gli obiettivi e le priorità di gestione devono riflettere lo stato dell’ambiente e dello sviluppo al quale si applicano, e (…) le norme applicate da alcuni Paesi possono essere inadeguate e possono comportare ingiustificati costi economici e sociali nel caso di altri Paesi, in particolare nei Paesi in sviluppo. Disposizione questa che risulta adeguata se scissa dal contesto generale della Convenzione: l’adozione di una corretta politica ambientale è un dovere di ogni Stato, indipendentemente dal tema – complesso e ancora confuso – del governo climatico.

Altrettanto interessante, forse proprio perché pone implicitamente l’accento sull’inadeguatezza conoscitiva, è il punto in cui si riconosce che le iniziative necessarie per comprendere e fronteggiare i cambiamenti climatici sono più efficaci sul piano ambientale, economico e sociale, se sono basate su pertinenti considerazioni scientifiche, tecniche ed economiche e se sono costantemente riesaminate alla luce dei nuovi risultati raggiunti in questi campi. Eppure è proprio questa incertezza conoscitiva (se vi fossero certezze, perché perseguire nuovi risultati?) che poi guida l’intera Convenzione, traducendosi sorprendentemente in assioma nel proseguo della trattazione. Come si può governare ciò che non si conosce o si conosce solo in parte?

Il punto su cui, all’interno di questa breve esamina, voglio soffermarmi maggiormente è quello che espone l’obiettivo della Convenzione (Art. 2 Obiettivo). Ecco il testo:

L’obiettivo ultimo della presente Convenzione e di tutti i relativi strumenti giuridici che la Conferenza delle Parti può adottare è di stabilizzare, in conformità delle pertinenti disposizioni della Convenzione, le concentrazioni di gas ad effetto serra nell’atmosfera a un livello tale che sia esclusa qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sul sistema climatico. Tale livello deve essere raggiunto entro un periodo di tempo sufficiente per permettere agli ecosistemi di adattarsi naturalmente a cambiamenti di clima e per garantire che la produzione alimentare non sia minacciata e lo sviluppo economico possa continuare ad un ritmo sostenibile.

Dunque stabilizzare (…) le concentrazioni di gas ad effetto serra nell’atmosfera… E fin qui, nulla da opinare, visto che si tratterebbe di un ottimo proposito, anche se avrei preferito la sostituzione del verbo stabilizzare con la locuzione ridurre al massimo. Purtroppo c’è il seguito della frase, secondo cui la stabilizzazione delle concentrazioni di gas a effetto serra deve giungere …a un livello tale che sia esclusa qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sul sistema climatico. Qui si entra nel mistero, perché se è vero quanto affermato da alcuni studiosi e scienziati (Rif. Art. La voce della Scienza) che la climatologia possiede una componente enorme di imprevedibilità finanche a breve termine, ne deriverebbe l’impossibilità di misurazione delle interferenze tra clima e attività umane. Resta valido il proposito ma, forse, avrebbe avuto più consistenza se fosse stato enunciato in maniera differente. Ad esempio e a mio avviso, una possibile enunciazione avrebbe potuto essere questa: ridurre al massimo le concentrazioni di gas ad effetto serra nell’atmosfera, in maniera da contrarre qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sull’equilibrio degli ecosistemi. Personalmente dunque, avrei puntato il dito più sulle interferenze tra attività umane e inquinamento (da cui discendono alcuni dei disequilibri degli ecosistemi), che non invece tra attività umane e cambiamenti climatici (campo, lo ripeto fino alla noia, ancora molto discusso e, per ampi versi, ignoto).

Andando avanti, l’obiettivo cita …Tale livello deve essere raggiunto entro un periodo di tempo sufficiente per permettere agli ecosistemi di adattarsi naturalmente a cambiamenti di clima e per garantire che la produzione alimentare non sia minacciata e lo sviluppo economico possa continuare ad un ritmo sostenibile. L’adattamento degli ecosistemi ai cambiamenti climatici, al di là dell’interferenza umana, rappresenta un evento naturale, anche quando la composizione stessa degli ecosistemi viene a modificarsi. Le mutazioni intervenute nei Secoli ne sono una valida conferma. Ragion per cui parrebbe una forzatura – peraltro di indubbia misurazione – quella di relazionare l’adattamento degli ecosistemi alla riduzione delle concentrazioni di gas serra derivate dalle attività umane. Mancherebbero indicatori fondamentali di misurazione. Quanto le modificazioni di un ecosistema possono attribuirsi all’evoluzione naturale e quanto invece alle interferenze umane? In che misura la produzione di gas serra deriva dal cambiamento climatico (nella componente che riguarda l’evoluzione naturale del sistema Terra) e in che misura invece è imputabile all’azione umana?

Vengo al punto più dolente, a mio giudizio: perché orientare l’obiettivo ai temi del garantire la produzione alimentare e lo sviluppo economico? Non potrebbe risultare più coerente, equo e rispettoso dell’ambiente complessivo (di cui l’uomo è parte) il garantire al massimo la contrazione dei danni umani sul sistema Terra? Ne sono più che convinta, ritenendo che uno dei maggiori problemi ambientali – e, di conseguenza, legati alla distruzione degli ecosistemi – sia relazionato proprio ad un tipo di sistema alimentare umano (Rif. Articolo Città, effetto serra e allevamenti intensivi – https://www.elodiarossi.it/effetto-serra-allevamenti-intensivi-e-bisogni-effimeri-urbani/) in stretta connessione con l’economia che produce (economia sporca, perché settoriale, mai adeguatamente relazionata al derivato danno ambientale che, esso stesso, genera diseconomia). Bisognerebbe invece valutare il grave danno economico che origina questo genere di pratica; bisognerebbe comprendere e divulgare scientemente il significato di economia ambientale (con tutti gli indicatori di misurazione e di risultato disponibili) e i valori che ne sono di corollario, per capire quale entità di danno provoca la pratica degli allevamenti intensivi e, a seguire, quella di altre tecniche produttive alimentari.

Infine, l’enunciazione dell’obiettivo della Convenzione richiama il tema dello sviluppo sostenibile (poi ribadito nel corso della trattazione, come nel caso dell’Art.3, comma 2). Qui ritorna l’infondatezza del concetto di sostenibilità, come argomentato nell’Articolo L’inganno della sostenibilità (https://www.elodiarossi.it/linganno-della-sostenibilita/).

Facendo un seppur breve passo indietro, desidero richiamare due commi dell’Art. 1 della Convenzione. È l’articolo che tratta delle definizioni, sancendo la terminologia utilizzata nel corso dell’esposizione. Ecco il testo dei due commi e, a seguire ognuno, il mio commento/parere:

  1. «effetti negativi dei cambiamenti climatici»: i cambiamenti dell’ambiente fisico o della vita animale e vegetale dovuti a cambiamenti climatici, che hanno rilevanti effetti deleteri per la composizione, la capacità di recupero o la produttività di ecosistemi naturali e gestiti per il funzionamento dei sistemi socioeconomici oppure per la sanità e il benessere del genere umano;

Qui non mi dilungo molto, avendo già detto riguardo le relazioni (non misurabili scientificamente) tra cambiamenti climatici e mutazioni degli ecosistemi. Dunque varrebbe indagare con quali strumenti e criteri dovrebbero essere valutati gli effetti negativi dei cambiamenti climatici. In più, non posso non ribadire, con incrementale disappunto, l’esistenza di un’imprudente relazione indotta tra salute degli ecosistemi e il benessere dei sistemi (socio-)economici. Perché è altamente pericolosa, per la sopravvivenza del Pianeta, la strumentalizzazione degli ecosistemi a fini esclusivamente umani. Ed è pericolosa finanche per l’uomo, essendo questo parte degli ecosistemi naturali.

  1. «cambiamenti climatici»: qualsiasi cambiamento di clima attribuito direttamente o indirettamente ad attività umane, il quale altera la composizione dell’atmosfera mondiale e si aggiunge alla variabilità naturale del clima osservata in periodi di tempo comparabili;

Mi limito a far notare che parrebbe perlomeno superficiale identificare i cambiamenti climatici con qualsiasi cambiamento di clima attribuito direttamente o indirettamente ad attività umane (…) che si aggiunge alla variabilità naturale del clima. Scusandomi per la ripetizione dell’interrogativo, chiedo: con quali criteri e indicatori si può stabilire la componente di cambiamento attribuibile alle attività antropiche? Io non l’ho ancora capito.

La voce della scienza

un incendio doloso

I temi dei cambiamenti climatici e del surriscaldamento globale vengono oggi frequentemente relazionati a quello dell’inquinamento, come fossero inscindibilmente correlati: comunemente gli uni vengono interpretati come derivazioni dell’altro.

E troppo spesso si emanano documenti ufficiali – tanto per citarne uno, l’Accordo di Parigi – che si pongono l’obiettivo di agire per determinare la riduzione del surriscaldamento con ipotetiche lotte (mai troppo chiare) per il governo del clima.

Già ho accennato alla posizione del Professore Emerito Antonino Zichichi, uomo che ha dedicato la vita alla creazione di funzioni matematiche in grado di interpretare la fisica delle particelle e i sistemi terrestri, anche seguendo la scia delle scoperte di Einstein e di Newton. Ciononostante è proprio il professor Zichichi a chiarire l’impossibilità di determinazione di un’equazione sul clima, date le infinite variabili in gioco. Come ho già detto (Rif. Art. Verità e Confusione): troppi parametri liberi, fino al punto che occorrerebbero ben tre equazioni differenziali non lineari accoppiate. Vale a dire che esiste un tale livello di improvvisazione (fattori esterni non governabili, come i raggi cosmici) che non permette la costruzione di alcuna formula matematica esatta. In altri termini, l’impossibilità di razionalizzazione matematica di un qualsiasi fattore, corrisponde all’impossibilità del relativo governo, ivi incluse le componenti di previsione a medio-lungo termine. È pur vero che numerosi altri studiosi  sostengono la tesi secondo cui la climatologia risponde a modellistiche multiple ma, per quanto abbia studiato e ricercato, non ho individuato alcun modello unico, complessivo, autosufficiente. In questa direzione, per dovere di analisi, cito un lavoro dell’IPPC (Intergovernmental Panel on Climate Change), contenuto nel Quinto Rapporto sul Clima e intitolato Climate Model Development and Tuning, che espone e articola parametri di numerose equazioni diverse che insieme concorrono a definire le varie componenti del sistema climatico. E se gli studiosi dell’IPPC sono in perenne disputa con Zichichi, resta viva la constatazione secondo cui si tratta di numerose componenti, ma non di un’equazione complessiva e risolutiva. Quanto possa offrire una modellistica multipla in termini di interpretazione dei fenomeni, non so dirlo: mi mancano sufficienti basi conoscitive. Non mi resta che limitarmi a rappresentare le differenti opinioni e commentare solo laddove le mie competenze riescono ad arrivare.

Posso invece esprimere qualche giudizio sul comportamento umano riguardo l’approccio ai temi scientifici e non. E difatti noto che quando ci si trova dinanzi a studi, ricerche, esamine di differente natura, generalmente la voce della scienza viene ascoltata. A questa si consegna la funzione di dirigere verso ogni tipo di approfondimento, finanche – lasciatemelo dire – quando ci si trova a trattare argomenti che, per loro essenza, non possono essere contratti all’interno dei campi scientifici. Con il termine scienza dovrebbe richiamarsi ogni disciplina che può essere incontestabilmente tradotta in linguaggio matematico (verità oggettiva, rigore metodologico), ossia riconducibile a formule esatte, e che si fondi su fattori inequivocabili, non su casistiche e percentuali (come avviene, per esempio, per la medicina occidentale, comunemente interpretata scienza suprema). Tant’è che quando si trattano temi medici si richiama erroneamente la scienza esatta e vi si dà credito assoluto, senza contare l’unicità di ogni individuo e le profonde differenze che governano la fisiologia e la vita di ogni essere. Né in questo modo le si consegna il giusto valore, visto che proprio per l’eterogeneità a cui si rivolge è una disciplina estremamente complessa. Consiglio la lettura del libro di Giorgio Cosmacini, La medicina non è una scienza esatta, il quale ha avuto finalmente il coraggio di esternare ciò che ognuno, con quella dose di critico buon senso, avrebbe potuto capire.

Al contrario, quando si trattano temi afferenti al contenitore supremo dell’irrefutabilità, sembrerebbe che la scienza sia messa da parte, mentre si assiste di fatto alla traduzione delle più svariate opinioni. Assurdità o strumentalizzazione?

Così accade per la climatologia, ad oggi considerata non scienza esatta dalla vera scienza (o perlomeno non definitivamente ricondotta all’ineccepibilità, essendo materia di approfondimento scientifico in corso), verso cui l’opinionismo diventa legge. Tanto (e come detto) da generare documenti programmatici che coinvolgono le più elevate sfere dei governi mondiali e, quel che è peggio, creano nuove e intoccabili poltrone di effimero potere. Tema vasto, al quale dedicherò numerosi articoli, analizzando – uno per volta – i 29 punti del magistralmente e strumentalmente elogiato Accordo di Parigi.

Ora torno qualche anno indietro. È il 2012 e Zichichi espone pubblicamente i concetti che riporto di seguito, utilizzando le testuali parole del professore, come tratte da un’intervista concessa al quotidiano Il Giornale.

Il motore climatico è in gran parte regolato dalla CO2 prodotta dalla natura, quella CO2 che nutre le piante ed evita che la Terra sia un luogo gelido e inospitale. Quella prodotta dagli esseri umani è una minima parte, eppure molti scienziati dicono che è quella minima parte a produrre gravi fenomeni perturbativi. Ma ogni volta che chiedo loro di esporre dei modelli matematici adeguati che sostengano la teoria (e comunque oltre ai modelli servirebbero degli esperimenti) non sono in grado di farlo. Serve un gruppo di matematici che controlli i modelli esistenti e dia dei responsi di attendibilità.

Tra l’altro molto spesso i teorici dell’ecologia, che criticano l’eccessiva produzione di CO2, sono gli stessi che si oppongono a testa bassa al nucleare.

Focalizzando il tema del surriscaldamento globale, voglio riportare anche le analisi del Premio Nobel Carlo Rubbia (esposte pubblicamente nell’anno 2014, in una conferenza al  Ministero dell’Ambiente). Egli afferma i concetti che seguono (tradotti in una sintesi non testuale).

<<Il clima della Terra è sempre cambiato. Oggi si pensa, probabilmente in maniera falsa, che controllando le emissioni di CO2 – Anidride Carbonica, il clima della Terra possa non subire variazioni. Non è vero.

Va esaminato il trend di variazioni che la Terra ha subito nel corso dell’ultimo milione di anni. In questo non banale lasso di tempo, la Terra è stata dominata da periodi di glaciazione con temperatura media pari a 10 gradi sotto lo zero, fatta eccezione per brevissimi periodi durante i quali si sono avute temperature del tutto simili a quelle di oggi. L’ultimo di questi contratti periodi si è verificato 10.000 anni fa, ossia quando si sono impostate le basi dell’odierna civilizzazione con l’uso agricolo dei suoli e lo sviluppo delle aree maggiormente urbanizzate.

Variazione nella variazione, nel corso degli ultimi due Millenni, la temperatura terrestre è mutata profondamente, generando notevoli oscillazioni. In epoca romana era decisamente più alta di adesso. Nel periodo basso-medievale si è verificata una modesta glaciazione, mentre intorno al calare del Primo Millennio d.C. si è assistito ad un aumento tale da ricondurre la temperatura ai valori dell’epoca romana. Poi, tra il 1.550 e il 1.600 è intervenuta una nuova mini-glaciazione.

Perfino nel corso degli ultimi cento anni si sono registrate variazioni notevoli delle temperature, intervenute ben prima delle rilevazioni a effetto serra (ad esempio, si ricorda la mutazione intervenuta nel corso degli anni ’40). Certamente l’intervento umano ha determinato alcuni recenti cambiamenti, dovuti anche alla moltiplicazione dei valori di popolamento dei territori e, di conseguenza, al consumo di energia esponenzialmente più alto (11 volte maggiore di 70 anni fa).

Dal 2000 al 2014, la temperatura della Terra non è aumentata, piuttosto è diminuita di 0,2 gradi. Negli ultimi 15 anni non c’è stato nessun cambiamento climatico dimensionalmente rilevante. Dunque non si è di fronte a un’esplosione della temperatura: questa è aumentata fino al 2000 e da quel momento risulta essere pressoché costante (con regressione, come detto, di 0,2 gradi). Non è banalizzabile, dunque, il comportamento apparentemente schizofrenico del Pianeta, né possono essere governate le variazioni climatiche>>.

Vado avanti negli anni e arrivo al 2017, quando Zichichi rilascia una nuova intervista al quotidiano Il Mattino. Queste le sue parole:

L’inquinamento esiste, è dannoso, e chiama in causa l’operato dell’uomo. Ma attribuire alla responsabilità umana il surriscaldamento globale è un’enormità senza alcun fondamento: puro inquinamento culturale.

L’azione dell’uomo incide sul clima per non più del dieci per cento. Al novanta per cento, il cambiamento climatico è governato da fenomeni naturali dei quali, ad oggi, gli scienziati non conoscono e non possono conoscere le possibili evoluzioni future.

In nome di quale ragione si pretende di descrivere i futuri scenari della Terra e le terapie per salvarla, se ancora i meccanismi che sorreggono il motore climatico sono inconoscibili? Divinazioni!

Perché molti scienziati concordano sul riscaldamento globale dovuto all’attività umana? Perché hanno costruito modelli matematici buoni alla bisogna. Ricorrono a troppi parametri liberi, arbitrari. Alterano i calcoli con delle supposizioni per fare in modo che i risultati diano loro ragione. Ma il metodo scientifico è un’altra cosa.

Da queste dichiarazioni della scienza io esco trafelata, anche inquieta, ma certamente più consapevole. Tanto che ripercorrerò ogni articolo precedentemente scritto per rettificarlo, evitando di appartenere, seppur finora inconsapevolmente, a quella coltre di distratti ambientalisti (come sempre, la massa fa danni) o teorici dell’ecologia (come dice Zichichi), le cui azioni spesso mi ripugnano. Perché voglio essere sì ambientalista al massimo grado, ma con consapevolezza e ragione, con coscienza e valori, cercando di apportare – con i mezzi culturali di cui dispongo – il miglior contributo che la Natura mi consente alla difesa dell’ambiente e degli ecosistemi. E voglio farlo concentrando ancora l’attenzione sui danni che l’uomo esercita contro la Natura, sulle azioni spudorate nella generazione di disastri inquinanti e nella perpetuazione delle devastazioni della vita animale. Perché questi generi di distruzioni non di certo posseggono minor valore se relativamente scissi dal surriscaldamento.

Con questo stesso spirito voglio affrontare la prima citata analisi del delirante Accordo di Parigi (divinazioni, come dice Zichichi), senza esclusione di richiami all’altrettanto illusorio Our Common Future.

un passo avanti

Chiedo scusa a chi dimostra interesse per le tematiche che tratto sui temi ambientali, ma è necessario, come ho spiegato nel precedente articolo di questa sezione (urbanistica – geografia/ambiente), riordinare gli studi e porre i risultati al posto giusto.

Ho continuato a studiare e sto studiando ancora. Non smetterò mai.

Confesso che mi creano un certo imbarazzo le discordanti teorie sul riscaldamento globale. E seppure – con senso di doverosa riconoscenza verso chi ha studiato questa tematica in modo approfondito e con basi culturali dedicate, come per gli insigniti Nobel Rubbia e Zichichi – un qualche elemento di possibile analisi che mi conduce a richiamare la responsabilità umana negli avvenimenti di oggi mi si ripropone alla mente. E devo capire fino in fondo.

Non è opinabile che la terra abbia subito, nel corso dei Millenni, numerose variazioni/oscillazioni climatiche (in un successivo articolo cercherò di razionalizzare questa affermazione attraverso una seppur sintetica ricostruzione storico/geografica). Quello che però mi preme approfondire, cercando di essere il più possibile ancorata a certezze scientifiche, riguarda la sfera delle cause che, nelle varie oscillazioni, sono eventualmente intervenute a generare le mutazioni. E voglio pormi queste domande: è possibile che la causa (o una delle cause) sia oggi la devastante azione dell’uomo sulla Natura? Quanto oggi sono collegate le fenomenologie dei cambiamenti climatici con quelle dell’inquinamento? È plausibile considerare che vi siano interferenze? I gas serra che ruolo hanno?

Per rispondere a tutto questo proverò a relazionare dati mondiali ufficiali e relativi a differenti rilevazioni (per esempio quelli riguardanti le risorse non rinnovabili) con le azioni umane (per esempio di massiccio utilizzo).

Non posseggo la presunzione di contrappormi alle analisi di scienziati, le cui risultanze restano – per quel che mi riguarda – un dato di fatto. E se è pur vero che la sciocchezza della Terra che gira intorno al Sole era sostenuta dalla scienza del tempo, è altrettanto vero che per confutare questioni così delicate (mi riferisco ai cambiamenti climatici) bisognerebbe vantare decenni di studi intensi sull’argomento e la giusta professionalità scientifica. Ciò con buona pace di tutti quelli che si esprimono al riguardo perseguendo le più disparate teorie, così nutrendo l’infernale girone dei dannati del web (basta fare una sommaria ricerca per rendersene conto). E mi si conceda, con altrettanta buona pace di quei docenti universitari (e non) italiani che non si pongono alcun quesito e continuano imperterriti a trasmettere nozionistiche conoscenze agli ignari studenti (si pensi al tema dello sviluppo sostenibile, di cui ho parlato in molti articoli precedenti). Ma le cattedre universitarie non dovrebbero essere, come un tempo, luoghi privilegiati per indagare e perseguire le verità? Lasciamo stare e confidiamo ancora in quei pochi che l’hanno capito e, con coscienziosa difficoltà, esercitano il proprio ruolo.

La mia modesta ambizione di partenza è semplicemente quella di esaminare, schematizzare, approfondire per quanto riuscirò a fare, le asserzioni più autorevoli.

D’altro canto, semmai i cambiamenti climatici non avessero relazioni con i drammi da inquinamento, questo di certo non migliorerebbe gli scenari derivati dall’azione umana a scapito dell’ambiente e della sopravvivenza degli ecosistemi. E allora perché non guardare in faccia alla realtà, ponendo ogni fattore al giusto posto?

Intenderei quindi procedere analizzando anzitutto le affermazioni degli scienziati, per poi addentrarmi in valutazioni quantitative e qualitative sulla base di dati certi. Credo che in questo modo, senza alcun inutile screditamento della voce della scienza, si possano giungere comunque a valutare, per piccoli ma sostanziali passi, l’entità del danno che l’uomo infligge costantemente agli ecosistemi e le modalità con cui questo avviene.

Nell’attesa, mi preme dover comunicare all’infernale girone dei dannati del web che esiste uno studio molto interessante, pubblicato su Nature Communications, firmato dagli importanti ricercatori del Niels Bohr dell’Università di Copenhaghen e di quella della Cina del Sud. Ne parlerò; intanto anticipo che in esso non si scorge alcuna contraddizione con le conclusioni a cui sono giunti i nostri illustri Nobel, orgoglio tutto italiano.

verità e confusione

Dal Rapporto Brundtland all’Accordo di Parigi, dall’informazione (o disinformazione) massiccia alla scienza nascosta.

Ho parlato, in molti articoli, dei problemi planetari e dei danni ambientali. Ho cercato di analizzare eventi, fatti, situazioni, ma soprattutto dati ufficiali e poco noti. Ho messo del mio, ossia ho esaminato tutto con occhio critico e assolutamente imparziale.

Poi, per un certo tempo, sui temi ambientali sono stata in silenzio. Dal 16 ottobre dello scorso anno, direi, quando ho pubblicato l’articolo Erosione del suolo: cause e rimedi.

Ho riflettuto molto e volutamente. C’era da approfondire. C’era ancora da capire: cosa non tornava? Cosa non mi era chiara? Allora ho studiato, molto. Ho letto, molto. E soprattutto, ho letto le opinioni scientifiche di alcune menti eccelse: da quelle di Newton a quelle di Zichichi, da quelle di Rubbia a quelle della Hack e di altri ancora.

Esserne uscita sorpresa è dir poco.

Dunque è tempo di ricominciare a scrivere.

Di fronte a tante rivelazioni scientifiche, verrebbe da dire che la maggior parte delle informazioni stampate o via rete dovrebbero essere distrutte. Verrebbe da dire che la quasi totalità delle informazioni che partono dalle cattedre universitarie di geografia dovrebbero essere censurate e, con esse, i relativi portavoce.

E lo vedremo, viene sancita – ancora una volta, ben oltre quanto io stessa abbia affermato – l’illusorietà del Rapporto Brundtland. Una favola, utopica e ingannevole.

Ad esempio, dinanzi all’equazione matematica che sintetizza l’equilibrio del mondo e ne descrive l’evoluzione, crolla ogni possibilità di generare un’equazione riferita al clima. Troppi parametri liberi, fino al punto che occorrerebbero ben tre equazioni differenziali non lineari accoppiate. Vale a dire che esiste un tale livello di improvvisazione (fattori esterni non governabili, come i raggi cosmici) che non permette la costruzione di alcuna formula matematica esatta.

Invece, l’equazione del mondo – tradotta in grafica – ci dice perfino che tra un battito cardiaco e l’altro di ognuno di noi (come dice Zichichi) accade una tale infinità di cose da sbalordire. Cose che richiamano le forze universali, i movimenti planetari, gli equilibri delle galassie e altro ancora. Cose che determinano grandi modificazioni derivate perfino da minuscoli cambiamenti orbitali. Dinanzi a tanto, con coscienza e umiltà, dovremmo capire di essere nulla singolarmente. E dovremmo capire l’inganno della proclamazione di uno sviluppo sostenibile … che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri, la favola dell’Our common future.

Il tema poi del riscaldamento globale assume sfaccettature evolutive che lo discostano essenzialmente dai problemi ambientali e – probabilmente – perfino l’evoluzione climatologica deve essere scissa dall’inquinamento. Il primo è dovuto a processi naturali, il secondo ai disastri umani. E anche qui si apre uno scenario scientifico che richiama molta prudenza nell’associare i fenomeni. Cosa che invece viene comunemente fatta. Anche io ho pensato spesso – e ho scritto a riguardo in alcuni precedenti articoli – che le forze inquinanti fossero strettamente legate al riscaldamento globale.

Ricercare significa anche riesaminare ed eventualmente rivedere la propria conoscenza. È quello che sto facendo.

Per quanto abbia finora approfondito, alcuni elementi restano però fermi e avvalorati dalla scienza. Tra questi: i danni ambientali da inquinamento (con l’enorme responsabilità degli allevamenti intensivi, della deforestazione, della crescita urbana, eccetera) e la truffa degli strumenti di cattura delle energie cosiddette alternative. Dedicherò altri articoli all’approfondimento di questi drammi, consegnandomi alle parole degli scienziati veri.

Come potrei, a questo punto e a gran voce, non ribadire l’infondatezza dell’Accordo di Parigi? Scriverò anche su questo, più approfonditamente di quanto già fatto e supportata dagli studi delle grandi menti.

L’equazione “clima” non esiste. Il riscaldamento della crosta terrestre ha avuto oscillazioni continue nel corso dei Secoli. Potenti della Terra, credete di saper fronteggiare l’Universo?

The big Urban Trouble

Questo articolo in lingua inglese è una sintesi dei concetti e dei dati che ho riportato nei miei recenti scritti sul più grande dei temi ambientali: le sorti del Pianeta e le responsabilità degli ambienti urbani. Desidero pubblicarlo allo scopo di permettere, a tutti coloro che non parlano l’italiano, di entrare concretamente (e senza l’utilizzo del traduttore automatico) nel tema. Credo fermamente nell’importanza di una presa di coscienza collettiva.

The world city reflects the deception of sustainability. Urban areas consume 75% of the planet’s resources, while occupying an area of less than 5% of emerged land (149,000,000 km). More than 7.516 billion people live here. This value is in exponential growth, since this year – so far – there are more than 72 million children born and less than 30 million people died. The overall world population is distributed over 10% of the emerged lands, ie 14,900,000 km.

By crossing and joining several data, it is reasonable to assert that:

Less than 1% of emerged lands (a quota attributable to highly urbanized areas) is home to 4 billion individuals, with a dramatic and oscillating population density depending on the type of area. Here, among other things, is where slums develop, hosting 1 billion people.

Approximately 4% of emerged lands (the share attributable to the urbanized areas) accommodates 2 billion people,

On the remaining 5% (less-urbanized areas) are hosted 1.5 billion individuals.

The megalopoles, dizzyingly increasing in number (in 2014 the UN estimated that they would be 29 by 2025, but nowadays they are already 37) even exceeded the concept Gottmann had given them. The polynuclear structure seems to no longer exist and agricultural areas – interconnection bearings – are now disappeared in most cases.

These monsters – constantly monitored by the UN Habitat Global Urban Observatory Network (GUO Net) – almost never offer acceptable living conditions. Beyond cases where urban rationalization – derived from effective planning (as in New York) – produces a more fluid form of living, these places attract and generate problems of all kinds.

In short, the city grows to a standstill and the urban needs – both real and ephemeral – follow the pace. Our inability to cope with such demand raises delirium and the outcomes are enormous environmental damage, low standards of life quality (which calls for insecurity, abandonment, traffic, widespread overload, criminality, misery, etc.) to war and early death.

More and more the city is becoming a place of dying living instead of living.

The glitter of night lights, the availability of entertainment venues, the spread of supply services, and all the other apparent benefits are straw fires, and too often they are the cause of great discomfort.

The city is not ready for the change that today’s society has quickly imposed, defining a devastating trajectory. The architectures are inadequate and the political/administrative absurd presumption to internationalize all urban areas is like a knife in the back of global equilibrium. Meanwhile, China is pushing further and, by following a political imperialist thought, launches a plan to build the world’s largest megalopolis: Jing-Jin-Ji, designed to accommodate more than 130 million people. A world domination plan.

Which message? Which answer? What future? What actions to take?

The failure of the Brundtland Report that in 1987 through the WCED (World Commission on Environment and Development) coordinated by Gro Harlem Brundtland proclaimed a concept of sustainability in which “sustainable development is the kind of development that meets the needs of the present without compromising the ability of future generations to meet their own needs” is indisputable despite the good intentions of their premises.

The process of change in which resource exploitation, investment orientation, technology development and institutional changes are made consistent with future needs as well as with the current, as imagined in the Report, has no foundation at all. Suffice to reflect on the limits of some resources. Since 1987, pollutant sources have increased dramatically, as well as intensive breeding (the main cause of the greenhouse effect) has multiplied, and PM10 (and other weeds) emissions have grown. And then land erosion, desertification and the consequent extinction of animal species (one should consider the fundamental importance of the ecosystem balance), and more. And then the exponential growth of conurbations that, as said, absorb 75% of planetary resources. And more, the iniquitous breakdown of wealth that, given the values now reached, seems to slap on the face of the same Brundtland Report, where it expects that by adopting some measures, a more consistent distribution would be achieved, even at national levels.

In short, Our common future: even so the Report is known. But the disasters in which Earth is immersed do not even allow us to glimpse a long-term future, let alone how provocative and lying it may be to talk about a “common” expectation.

However, one point of the Report must be praised: having introduced the importance of everyone’s participation in the processes of change. For this reason, the true propulsion to mitigate the total damage is to be sought in the generation of a collective consciousness that can only be derived from a proper knowledge.

Grazie all’amico e professionista Fabio Autore per la traduzione.

Erosione del Suolo: cause e rimedi

Due anni fa, alla fine del 2015, l’Inghilterra (per voce dell’Università di Sheffield) sagacemente sottopone uno studio al Congresso sul clima di Parigi. Si tratta del Congresso che dà vita all’Accordo sul clima (rif. Articolo L’altra faccia dell’Accordo di Parigi).

È uno studio importante, serio nelle premesse (a mio giudizio, incompleto nell’individuazione delle cause e dei rimedi), circostanziato sulla problematica dell’erosione del suolo. Dopo tanto, mi chiedo come mai anche questo tema non sia stato neppure citato all’interno dell’Accordo, visto che si tratta di una tragedia planetaria e non soltanto britannica.

Ecco il dato riportato nello studio: in quarant’anni l’erosione ha distrutto un terzo dei terreni coltivabili e il fenomeno è in aumento.

Ecco le cause individuate: ripetute arature con continui movimenti del suolo (causa della dispersione delle sostanze organiche nell’atmosfera e conseguente indebolimento del terreno, con l’abbassamento della capacità di trattenere le acque e la conseguente riduzione delle crescite di piante), inquinamento, uso eccessivo della quantità di terra arata.

Ecco le soluzioni proposte nello studio: uso di fertilizzanti naturali, impiego di piante con minore bisogno di fertilizzanti, rotazione delle colture e conseguente riduzione delle arature (soluzione piuttosto complessa, visto che la produzione agricola è destinata ad aumentare del 50% in breve tempo, dato il previsto aumento vertiginoso della popolazione mondiale), parziale conversione dei terreni a pascolo (pari al 30% di quelli coltivabili).

Per quanto la proposta inglese sia stata sagace nell’incitare ad affrontare temi concreti, chiedo un attimo di riflessione. Perché basta un attimo per capire che manca la relazione con la più grande delle cause e, di conseguenza, manca la più concreta delle soluzioni.

Quali?

La principale causa, a mio giudizio (tratta dall’intersecazione dei dati ufficiali): gli allevamenti intensivi.

La principale soluzione, a mio giudizio: l’annientamento degli allevamenti intensivi, ovviamente, oltre la derivata contrazione dei bisogni effimeri urbani.

Perché affermo questo?

Chi ha letto il mio articolo Città, danno ambietale e allevamenti intensivi probabilmente già avrà capito a cosa mi riferisco.

Riprendo alcuni concetti: il 25% della superficie terrestre è occupata da allevamenti intensivi (dato in vertiginosa crescita); un terzo delle risorse idriche planetarie viene impiegato per gli allevamenti intensivi e il 70% dei cereali prodotti è destinato a questo drammatico e dannoso meccanismo alimentare. Esorto alla lettura del Meet Atlas redatto dalla Fondazione tedesca Heinrich Boll, per capire quali dimensioni abbia raggiunto il consumo di carne nel mondo e quali conseguenze si stanno subendo (devo dire, giustamente).

Nel solo anno 2016 sono stati prodotti 2.569 milioni di tonnellate di cereali (Fonte: FAO), di cui ben 1.798,3 sono stati riservati agli allevamenti intensivi. La coltivazione dei cereali richiede l’impiego del 46% (circa 750 milioni di ettari) di tutta la terra coltivabile. Ciò significa che il 32,2% della terra coltivata è asservita ai bisogni degli allevamenti intensivi. E significa che ben 525 milioni di ettari hanno la medesima destinazione.

In termini differenti, senza gli allevamenti intensivi la disponibilità di suolo agricolo aumenterebbe della componente pari al 25% delle terre emerse (quota dovuta all’occupazione degli stabilimenti) + 32,2% della terra coltivata (componente dovuta alle produzioni di cereali destinate agli allevamenti). Vale a dire che avremmo 37.250 + 5.250 = 42.500 migliaia di chilometri (circa il 30% della superficie terrestre) in più per vivere secondo Natura, abbattendo anche massicciamente l’inquinamento delle falde idriche.

Senza contare l’incidenza del consumo di acqua. L’ho detto: un solo chilo di carne bovina necessita dell’impiego di 15.000 litri. Vado oltre: la produzione annuale di carne ha superato i 300 milioni di tonnellate. Vale a dire che il relativo consumo di acqua si aggira intorno ai 4,5 miliardi di litri annui. Ne vogliamo parlare ancora? Non basta?

Abbiamo vissuto un’estate con una carenza d’acqua enorme, dalle grandi città ai piccoli paesi. Ed è ancora così. La capacità della terra, già compromessa, di trattenerne l’acqua piovana è poca o quasi nulla.

Fatto sta che la carenza d’acqua è diventato uno dei temi scottanti della contemporaneità.

Perché? Perché ai livelli di governo nessuno interseca dati reali e trae somme concrete? Nessuno trasferisce massicciamente le amare verità su quello che è il più grande dramma planetario, la cui risoluzione condurrebbe alla salvezza della terra.

Mi chiedo se i potenti si soffermino mai sulla vita dei loro stessi figli. Possibile che gli interessi economici siano più importanti?

Noi uomini, e solo noi, siamo macchine di distruzione di massa.

Infine, una curiosità: il rapporto inglese afferma che si sta procedendo verso la produzione di suolo adatto solo a edificare. Dovremmo essere contenti, noi architetti? Non scherziamo.

L’altra faccia dell’Accordo di Parigi

Qualche giorno fa, per strada, un uomo mi ha proposto l’acquisto di una copia di un giornale d’impronta religioso-profetica. Mi ha detto: Trump non ha firmato l’Accordo di Parigi, dunque il mondo sta per finire. Gli ho risposto: Ha letto l’Accordo? Mi ha detto di sì, ma quando gli ho chiesto quali erano, a suo vedere, i punti fondamentali in grado di salvare il mondo, non ha saputo dirmi nulla.

Ecco.

Ho letto e riletto molte volte l’Accordo di Parigi (o Accordo sul clima). Con molta franchezza, al di là delle posizioni di Trump – la cui politica non rientra nelle mie capacità di valutazione, se fossi stata un decisore, non so se l’avrei siglato.

foto di Gerd Altmann (pixbay)

Senza girarci troppo intorno, lo trovo carente, incompleto, più mirato a generare (come al solito) spazi e posizioni d’onore nel contesto internazionale che a definire linee chiare di impegno concreto degli Stati rispetto al più grande e preoccupante tema della contemporaneità: la sopravvivenza del Pianeta.

Nato il 12 dicembre del 2015 a Parigi, segue il Protocollo di Kyoto del 1997 al quale, nonostante tutte le possibili critiche, bisogna riconoscere una dose di maggiore concretezza nel definire obiettivi, metodi e metodologie d’azione.

Si compone di una premessa (o preambolo) e 29 articoli, la gran parte dei quali mirati a stabilire un ordine di rapporto tra i Paesi aderenti, con priorità sostanzialmente di tipo istituzionale, di controllo, di programmazione degli incontri, eccetera (è il caso degli Articoli 1, 14 – 29 e, per alcuni versi, il 3 e il 13).

L’Accordo distingue tra Paesi più avanzati, generatori di maggiori problemi, e Paesi meno avanzati o in via di sviluppo, maggiormente minacciati. Tutto ciò evitando di dire che i Paesi in via di sviluppo non sono solo minacciati, ma sono spesso generatori di altrettanti problemi ambientali: al di là delle responsabilità indigene, basti considerare le recenti deforestazioni in Africa.

Nel preambolo riprende il concetto di equità tra generazioni in tema di sostenibilità. Concetto che ritengo menzognero e strumentale, come ho già disquisito nell’articolo L’inganno della Sostenibilità (https://www.elodiarossi.it/linganno-della-sostenibilita/).

L’Art. 2 sembra avere un accento tanto imperativo quanto superficiale nel sostenere la necessità di mantenimento della temperatura media globale al di sotto dei 2 gradi centigradi. Intanto bisognerebbe capire cosa s’intende per temperatura media, visto che possibili sostanziali variazioni tra luoghi avrebbero gravissime ripercussioni sul pianeta e, quindi, su quella che lo stesso Accordo definisce resilienza climatica.

L’Art. 4 cade nell’onirico: bisogna ridurre le emissioni nel più breve tempo possibile, così da raggiungere un equilibrio entro il 2050. Bene, e come? Ogni Stato deve sviluppare le proprie strategie, linee comuni argomentate non ve ne sono (incredibile) se non per pochi sommari cenni in successivi articoli. Ciò che si ritiene invece importante è la comunicazione istituzionale dei dati (quali?), la raccolta di essi da parte della cosiddetta COP (Conferenza delle Parti) alla quale è demandato anche il compito di fare il punto della situazione a partire dal 2023 e con cadenza quinquennale (art. 14 e seguenti). Mi preme fare riferimento, a questo punto, al mio articolo Città, effetto serra e allevamenti intensivi (https://www.elodiarossi.it/effetto-serra-allevamenti-intensivi-e-bisogni-effimeri-urbani/), tanto per non tornare sull’increscioso e preoccupante tema dei tempi ormai a disposizione.

L’Art. 5 incita gli Stati al potenziamento dei pozzi di carbonio e delle riserve di gas serra. Qui, finalmente, si tratta l’importanza della salvaguardia delle foreste, anche se incredibilmente si dispongono incentivi economici di risultato (come se si dovesse raggiungere un traguardo attraverso un premio monetario e non per necessità di sopravvivenza globale). Non un solo cenno alle cause della deforestazione: non un cenno al dramma degli allevamenti intensivi, non uno alla spasmodica conurbazione. Eppure sono queste le vere cause.

Ma è l’Art. 7 che stabilisce l’obiettivo globale dell’Accordo: incrementare la capacità adattativa e rafforzare le resilienza per ridurre la vulnerabilità al cambiamento climatico, richiamando ancora una volta il concetto di Sviluppo Sostenibile (ancora inganno) e quello della cooperazione tra Paesi. Confesso che questo obiettivo mi fa venire i brividi. Difatti parrebbe ribaltare il problema: non più sradicare le cause del disagio planetario, piuttosto rafforzare la capacità di adattamento. Mi rifiuto di commentare.

L’Art. 8 esorta i Paesi sviluppati a fornire risorse finanziarie a quelli meno sviluppati, ai fini dell’applicazione dell’accordo. La gestione, in brevi linee, delle risorse finanziarie è materia dell’’Art. 9.

Eccoci all’Art. 10, uno dei più sorprendenti. Qui viene incoraggiata fortemente la gestione dello sviluppo tecnologico, come fosse la soluzione per la riduzione dei gas inquinanti (senza alcun riferimento al come). Mi concedo il richiamo a un altro mio articolo Architettura e ambiente: energie rinnovabili (https://www.elodiarossi.it/architettura-e-ambiente-energie-rinnovabili/), tanto per approfondire il tema di alcuni disastri ambientali dovuti alle tecnologie. Perché non affrontare questo argomento chiarendo (concretamente e non astrattamente) quale contributo potrebbe giungere da una corretta applicazione dei traguardi della tecnologia, se scissi dai troppi interessi economici anche a livello statale?

Finalmente – e ripeto, finalmente – l’Art. 11 e il 12 annunciano la necessità dell’educazione, della formazione e della consapevolezza pubblica. L’annuncio è breve, però, visto che gli articoli si dilungano sulla costruzione di competenze organizzate (dunque specialisti). Eppure qui è il vero nodo della questione: sollevare le coscienza di tutti, attraverso la conoscenza, perché tutti possano contribuire – lontani dal consumismo sfrenato, lontani dalle menzogne di un mercato distruttivo, lontani dall’idea di prevaricazione sulle altre specie, lontani dal concetto di un mondo fondato sull’egemonia dell’economia monetaria – alla salvezza del Pianeta.

Nell’Art. 12 si fa cenno anche al tema dell’accesso pubblico alle informazioni. Non si indica però alcun metodo affinché questo miraggio si trasformi in realtà. Né a che genere di informazioni ci si riferisca. Anche questo argomento mi indigna. Per reperire informazioni sulle condizioni ambientali della Terra, personalmente ho dovuto fare lunghe e attente ricerche, ho dovuto impiegare molto tempo (e continuerò a farlo). Eppure si tratta di dati che provengono proprio da fonti istituzionali (in primo luogo le Nazioni Unite), da me utilizzati in molti articoli di questo blog. Perché le Istituzioni che sviluppano questi generi di dati senza attivare campagne di comunicazione e informazione diffusa, poi sottoscrivono un tale accordo? E perché, dopo la sottoscrizione, non si impegnano nella diffusione?

Mi chiedo quali siano le effettive volontà dei redattori. Mi chiedo come mai non vengano citati dati e argomenti che farebbero la differenza. Mi chiedo come mai non si parla dei veri grandi problemi (un esempio prioritario è quello degli allevamenti intensivi, un altro è la spasmodica crescita urbana: ma l’ho già detto) e non si diano indicazioni concrete, realistiche, convincenti, per fronteggiarli. Mi chiedo come mai non si ponga l’accento soprattutto e diffusamente (determinando le giuste strategie) sul primo strumento di salvezza che è la conoscenza, l’informazione di massa, il coinvolgimento massiccio delle popolazioni a qualsiasi livello d’istruzione: perché qui è il vero nodo. Mi chiedo infine quali interessi ci siano da salvaguardare.

Insomma, perché io cittadina dovrei sentirmi rincuorata da questo genere di Accordo?

Città, danno ambientale e allevamenti intensivi

La città, l’ho detto e ripetuto, assorbe il 75% delle risorse planetarie (p.e. Rif. artt. L’inganno della Sostenibilità e L’immenso dramma urbano). Il mostro urbano, in inarrestabile crescita, sta traghettando verso un futuro doloroso. Ed è un dato inconfutabile che questo inquietante traguardo sia dovuto a una sola delle specie: l’uomo.

La città non è pronta al cambiamento che la società odierna ha velocemente imposto, definendo una traiettoria a dir poco devastante. La presunzione politico/amministrativa di internazionalizzare ogni ambito urbano è un coltello nel fianco dell’equilibrio globale. Intanto la Cina si spinge ancora oltre e, derivazione d’un pensiero politico di stampo imperiale, avvia un piano per la costruzione della megalopoli Jing-Jin-Ji, pensata per accogliere oltre 130 milioni di abitanti. Un piano di dominazione del mondo.

In questo momento, ore 16.51 del 19 luglio 2017, nel mondo ben 1.645.284.850 persone sono in forte sovrappeso, altre 628.797.889 sono obese (Fonte WHO – World Health Organization, programma Obesity and overweight), mentre 637.337.162 sono denutrite (Fonte FAO, programma The state of food insecurity in the world). I primi due dati sono in forte aumento, l’ultimo è in lieve decremento.

Sono fenomeni rintracciabili quasi esclusivamente in ambienti urbani, a differenza di aree meno urbanizzate dove la forbice tra miseria e opulenza va a ridursi.

Le esigenze largamente effimere delle aree urbane richiamano sprechi devastanti di risorse. Tra questi, il consumo smodato di carne che, secondo la FAO è destinato a crescere del 73% entro il 2050, nonostante i moniti dell’OMS sul pericolo derivato e sulle relazioni accertate tra consumo di carne e sviluppo del cancro. Di pari passo viaggia ovviamente l’incremento degli allevamenti intensivi che, già oggi, occupano il 25% della superficie terrestre. Dati allarmanti, questi. Come allarmante è la consapevolezza che l’uomo non si renda conto dell’insostenibilità della strada che percorre il proprio avanzare verso la distruzione.

Pressappoco alla stessa ora di oggi, ben 6.023.305.990 milioni di litri di acqua sono stati consumati dall’inizio dell’anno (Fonti: Global Water Outlook to 2025 – International Food Policy Research Institute – IFPRI e International Water Management Institute – IWMI), mentre 602.563.607 persone non hanno accesso all’acqua potabile (Fonte: World Health Organization – WHO, programma Water Sanitation and Health -WSH).

Per la produzione di un kg di carne bovina, negli allevamenti intensivi, sono necessari 15.000 litri di acqua (un kg di vegetali richiede l’impiego medio di 1.000 litri). Un terzo delle risorse idriche planetarie viene impiegato per gli allevamenti intensivi e il 70% dei cereali prodotti è destinato a questo drammatico e dannoso meccanismo alimentare, con ripercussioni enormi sui più deboli e poveri.

La FAO informa sulla produzione di ammoniaca delle deiezioni liquide derivate dagli allevamenti intensivi che inquinano le falde acquifere e dai vaccini, dagli ormoni e dagli antibiotici che, utilizzati massicciamente per garantire la seppur breve sopravvivenza agli animali in condizioni di stress insopportabile, si riversano nel ciclo ambientale, organico e dei rifiuti. Gas che provocano imprevedibili ripercussioni sugli ecosistemi naturali.

Quali conseguenze? Eccone alcune:  innalzamento del livello del mare, massiccia deforestazione per fini di pascolo (e di edilizia) con alterazione dei processi di fotosintesi, insano consumo del suolo, desertificazione di vaste aree (il 20% della superficie terrestre è desertificata in conseguenza degli allevamenti), dissesti ambientali, acidificazione degli oceani.

Il metano deriva dalla fermentazione dovuta ai processi digestivi degli animali (il numero di capi artificialmente prodotto, con pesante alterazione delle nascite naturali, e la concentrazione in alcuni ambienti, generalmente insani per l’impossibilità di mantenimenti di igiene adeguata) e dall’evaporazione delle deiezioni, la trasformazione degli escrementi produce protossido di azoto, la filiera della carne richiede combustioni altamente inquinanti. Gli allevamenti intensivi per la produzione di carne rappresentano la più pericolosa delle pratiche umane. E perché non considerare anche l’enorme e devastante contributo che questa pratica offre alla deforestazione per via della sua espansione?

Il Dossier Livestock’s long shadow (per dirla in italiano: l’ombra oscura degli allevamenti intensivi) della FAO, risalente addirittura al 2006 sostiene, tra l’altro, la necessità della drastica riduzione degli allevamenti intensivi e il consumo di prodotti di origine animale.

E tutto questo senza aver neppure sfiorato il tema della sofferenza di esseri sensienti, sulla qual cosa pure ci sarebbe da dire. Anzi, ci sarebbe da dire molto, molto di più.

Basterebbe un po’ di buon senso, una presa di coscienza verso la consapevolezza di cui ho spesso accennato: la vita sul Pianeta è regolata da leggi naturali che non possono essere trascurate. La città chiede troppo, l’effimero governa e il danno è incontenibile.

Mi sono sempre detta: qualcuno, qualche collega progetterà pure questi luoghi di distruzione e sofferenza. Varrebbe la pena rifletterci su’, evitando di contribuire al massacro.

L’immenso dramma urbano

La città mondiale è lo specchio dell’inganno della sostenibilità (Rif. art. L’inganno della Sostenibilità). Come ho già detto, gli ambiti urbani consumano il 75% delle risorse del Pianeta, pur occupando una superficie inferiore al 5% di quella delle terre emerse (Rif. Articoli della serie Spasi e Luoghi dell’Architettura).

In valori assoluti, su circa 149.000 migliaia di km, estensione delle terre emerse, vivono oltre 7,516 miliardi di persone (valore in esponenziale crescita, visto che solo quest’anno – e finora – sono nati oltre 72 milioni di bambini e sono morti poco meni di 30 milioni di individui). La popolazione mondiale complessiva è distribuita sul 10% delle terre emerse, ossia su 14.900 migliaia di km. 4 miliardi di persone vivono nelle aree altamente urbanizzate, altri 2 miliardi circa vivono in quelle mediamente urbanizzate. Solo 1,5 miliardi di individui sono distribuiti nelle aree meno urbanizzate.

Appare ragionevole, intersecando i numerosi dati che ho riportato in vari articoli, asserire che:

  • meno dell’1% della superficie delle terre emerse (quota attribuibile alle aree altamente urbanizzate) accoglie 4 miliardi di individui, con una densità abitativa drammatica e oscillante in dipendenza della tipologia di area. Qui ha sede lo sviluppo delle baraccopoli che, come ho già detto (Rif. Art. 4 – Spazi e Luoghi dell’Architettura), ospitano 1 miliardo di persone,
  • circa il 4% della superficie delle terre emerse (quota attribuibile alle aree mediamente urbanizzate) accoglie altri 2 miliardi di persone,
  • sul restante 5% (aree poco urbanizzate) sono distribuiti 1,5 miliardi di individui.

Chiarisco che quando parlo di aree altamente urbanizzate non mi riferisco solo alle 21 maggiori megalopoli (fenomeno inquietante, che da solo accoglie il 20% della popolazione mondiale – Fonte ONU, ovvero 1,5 miliardi di persone), ma a tutti quegli ambiti che presentano un tasso di urbanizzazione molto alto. Quando parlo di aree mediamente urbanizzate, mi riferisco alle città medie città. Gli agglomerati minori – borghi, paesi, piccole città, eccetera – costituiscono l’ultima categoria.

Tokyo – Foto di David Mark
Fonte Pixabay

Le megalopoli, in vertiginoso aumento anche del numero (nel 2014 l’ONU stimava che sarebbero diventate 29 nel 2025, e invece già oggi se ne contano 37), hanno superato perfino il concetto che ne aveva dato Gottmann. La struttura polinucleare sembra non esistere più e le aree agricole – cuscinetti d’interconnessione – sono ormai sparite nella maggioranza dei casi.

Questi mostri – costantemente monitorati dal Global Urban Observatory Network (GUO Net) di UN Habitat – quasi mai offrono condizioni di vita accettabili. Al di là di casi in cui la razionalizzazione urbana, derivata da un’efficace pianificazione (come per New York), se non altro produce una forma di vivibilità più fluida, questi luoghi attraggono e generano insieme problemi di ogni natura.

Giusto per avere idea del fenomeno, benché approssimativa, le 21 maggiori megalopoli accolgono più di 350 milioni di individui e occupano una superficie totale di circa 120.000 kmq. Ne deriva una densità media di 2.916 ab/kmq. Valore molto vicino a quello di Roma, pur non essendo questa nel guinness dei primati. Ma qual è la vera distribuzione degli abitanti delle megalopoli? Come valutarne le concentrazioni in porzioni di territorio maggiormente compromesse? Può considerarsi accettabile, per esempio, che Mumbai possegga una densità superiore ai 30.000 ab/kmq e Lagos superi i 16.000? Un dato è certo: densità urbana e povertà sono fortemente relazionate.

Insomma, la città cresce a dismisura e i fabbisogni urbani – reali ed effimeri – seguono il passo. L’incapacità umana di contrarne la domanda genera il delirio di cui ho più volte detto e le ripercussioni sono rintracciabili nell’enorme danno ambientale, nell’invivibilità (che richiama insicurezza, abbandono, traffico, sovraccarico diffuso, criminalità, miseria, insopportabile amplificazione del divario ricchezza/povertà, eccetera), fino alla guerra e alla morte precoce.

Sempre più la città si sta trasformando da luogo del vivere in luogo del morire.

Lo scintillio delle luci notturne, la disponibilità di luoghi per lo svago, la diffusione di servizi di approvvigionamento e tutti gli altri apparenti benefici sono fuochi di paglia e, troppo spesso, sono essi stessi causa del grave disagio, perché richiedono un insostenibile impiego di risorse.

La città non è pronta al cambiamento che la società odierna ha velocemente imposto, definendo una traiettoria a dir poco devastante. Le architetture non sono adeguate e la presunzione politico/amministrativa di internazionalizzare ogni ambito urbano è un coltello nel fianco dell’equilibrio globale. Intanto la Cina si spinge ancora oltre e, derivazione d’un pensiero politico di stampo imperiale, avvia un piano per la costruzione della megalopoli più grande del mondo: Jing-Jin-Ji, pensata per accogliere oltre 130 milioni di abitanti. Un piano di dominazione del mondo.

Quale messaggio? Quale risposta? Quale futuro? Quali azioni intraprendere?

Procedo per passi. Ho promesso che avrei analizzato, uno a uno, i più importanti moventi del crollo delle città per poi, con prudenza, arrivare a definire le azioni che – dal mio punto di vista – potrebbero condurre a metodi di riqualificazione urbana. Inizierò col parlare di allevamenti intensivi e del derivato effetto serra. Perché è anche questo un problema urbano, visto che la domanda più ingente giunge da qui.

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