Elodia Rossi

DELIRIO DA UN TRENO (RACCONTO BREVE)

E’ da un treno che ti scrivo, questa volta.

Corre veloce. Corre verso te.

Stai attenta, non è come le altre volte. Non farti illusioni. Stavolta andrò via.

Maledetta!

Avere un rapporto con te è quanto di più difficile possa capitare ad un essere umano. Sei volgare, a volte. A volte sei spietata. Irraggiungibile. Incomprensibile. Fuorviante. Deviante. Sfrontata. Quanti volti hai? Mille o uno soltanto? Dipende da come ti si guarda. Già, non c’è dubbio: il tuo lato migliore è quello meno evidente. Non perché sia davvero migliore: solo perché con esso esprimi una sincerità distruttiva e dichiari la tua identità. Mostruosa.

Inquietante. Devastante.

Se ti si guarda in faccia, di fronte e senza indagare troppo, è vero, sei bellissima. Mio Dio, quanto sei bella! Incantevole, addirittura.

Straordinaria.

Nessuna, credimi, nessun’altra è come te. E chiunque t’ha vista, lo sa. Ogni centimetro quadrato del tuo corpo, della parte più evidente del tuo corpo, è un’invenzione sublime. Un tassello d’un mosaico praticamente perfetto.

Strega. Fata.

M’hai rapito. M’hai ammaliato. Potessi tornare indietro! Potessi tornare vent’anni indietro, no, non accadrebbe mai più. Non mi farei rapire dal tuo fascino. Non mi farei coinvolgere dalle tue ingannevoli apparenze. Non mi farei ammaliare da quella parte manifesta del tuo corpo scultoreo. Né dalla tua essenza. Starei attento, ti schiverei. Starei lontano da te. Neanche per un solo attimo mi farei coinvolgere. Perché ormai ho la certezza che un solo attimo basterebbe a rapirmi, a stregarmi, a uccidermi. Tu ci sai fare. E un attimo o vent’anni ti sono sufficienti a distruggere un’esistenza.

Il modo per evitare questo è uno soltanto: non conoscerti. Starti lontano. Beato chi non ha mai avuto la possibilità d’incontrarti.

Eppure c’è tanta di quella gente che ti ha vista sui giornali, in televisione, perfino di sfuggita e vorrebbe incontrarti. Tanta gente che ha saputo di te, pensa di conoscerti. Molti sono appassionati della tua vita, affascinati dalla tua bellezza. Non sanno che l’apparente limitazione del non essersi imbattuti in te è invece una grande fortuna, una salvezza. E questo concetto lo griderò al mondo, a tutti, d’ogni razza e provenienza. Belli e brutti, giovani e vecchi, grandi e bambini. Tanto per te non c’è differenza. Chiunque ti capita a segno, colpisci.

Demonio, sei un demonio.

Eccome se ho provato a starti lontano! Non mentire. Non puoi pensare, neppure per un istante, che non sia andata così. Purtroppo però, t’avevo già conosciuta e, dal primo momento, t’avevo amata.

Ma questa volta, vedrai, ce la farò.

La tua indole narcisista non vorrebbe accordare a nessuno di sfuggirti, una volta abilmente incantato. Ma posso farcela. Devo farcela.

Non ci sono mai riuscito finora, è vero. Ti odio per questo. Ma le cose cambiano e nella vita, presto o tardi, ci si può aspettare di tutto. Questo vale anche per te. Vedrai.

Ti odio e ti amo. E non so quale dei due sentimenti sia più forte. Per la verità, non so neppure se si tratta di amore o, semplicemente, di ossessione.

Se ripenso alle lunghe giornate passate insieme, agli anni vissuti insieme, alle passeggiate lungo il fiume, alle frenetiche e divertenti serate, alle atmosfere magiche di certi momenti, alle notti estive all’aperto, alla confusione della gente che incontravamo e che bramava al desiderio di conoscerti meglio, alle stravaganti cene in tante case di lusso, alle risate nelle spartane trattorie, ai caffè nei circoli, ai brindisi nelle vinerie, agli incontri con attori e registi sui set, ai concerti, ai confronti culturali e a tanto altro ancora, allora ti adoro. Ricordi quel tramonto di primavera che ornava le passeggiate lungo il fiume? Che colori, che riflessi sull’acqua, che piacevole temperatura. Sembrava un paesaggio irreale: io e te, apparentemente soli, fortemente legati da un sentimento straordinario, non umano. Sublime, direi divino.

Se poi ripenso al dolore che ho vissuto con te, alle umiliazioni per essere uno dei tanti, alla cattiveria che mi si è presentata davanti in tanti momenti, alla disperazione che ho visto negli occhi di molti, alla confusione che hai creato nella mia mente, allo straziante modo con cui ti prendi gioco degli altri, alle tue promesse mai mantenute, alla tua ostilità nascosta da quel volto fiabesco, allora ti disprezzo. Ricorderai, spero, quella sera quando dovevo tornare a casa. Era molto tardi. Tu mi lasciasti solo, su quella maledetta strada di periferia ad aspettare un autobus che non arrivava mai. C’era poca luce, il lampione più vicino era abbastanza distante da non permettermi di vedere neppure l’orologio. Non un taxi in giro. E nelle vicinanze, ti ricordi chi c’era? Mio Dio! Ceffi da fare paura. Mi hanno derubato. Me la sono cavata col portafoglio. E mi è andata bene, non c’erano molti soldi. Se si fossero accorti di cosa avevo nel taschino, sai che festa. D’altro canto, che potevo fare? Allontanarmi? Per andare dove? Quanto tempo sarà passato, prima che arrivasse l’autobus? Due ore? E tu, intanto, te la ridevi. Sdraiata, comoda, spettatrice indomabile.

E ti ricordi come mi trattasti quell’altra volta? Quella volta che sono fuggito lontano da te, trasferendomi, fortemente deciso a tanto. Si, quella volta che ebbi la forza di cercare un nuovo amore, un universo diverso, più sincero, per tentare di vivere. Vivere. T’è bastato un attimo, un solo attimo, per farmi tornare indietro.

Smettila! Non è vero, lo sai, che avrei potuto evitare d’incontrarti. Da te avevo ancora tutte le mie cose. Cose troppo personali perché qualcuno potesse passare a prenderle al posto mio. Così non ho potuto fare altro che tornare. Mi ero messo in testa di non guardarti in faccia. Ho provato a farlo. Te lo ricordi? Sono entrato col capo reclinato. Con gli occhi socchiusi. Cercavo di non guardare neppure i miei passi. Tu, perfida, ne hai approfittato. Ho sbattuto il muso davanti a un muro e, tanto inevitabilmente quanto irrazionalmente, ho dovuto spalancare gli occhi. E tu, pronta, eri lì ad aspettarmi. Maledetta. Non ebbi il coraggio di portare via nulla e ti adulai, ancora, più forte che mai. Percepii e toccai ogni centimetro di te e, ancora, m’innamorai.

Quanto dolore tra le tue braccia! Nessuno è crudele come te.

E quanto amore! Nessuno è bello e affascinante quanto te. Sei una morsa. Una morsa d’acciaio, dalla quale è quasi impossibile liberarsi.

Paradossalmente, l’unica consolazione è che non sono solo. Tu fai così con tutti. E tutti, inevitabilmente, ci cascano.

Però non credere che queste riflessioni mi stiano portando ad abbandonare l’idea di liberarmi di te. Almeno questa forma di rispetto me la devi. Sono deciso e capace. Sono caparbio e ci proverò ancora: è quello che sto facendo. Mai sono stato così determinato.

Non mi fai paura. Almeno credo. No, non mi fai paura.

Comunque non mi va di parlarti. Preferisco scriverti da lontano, usando prudenza, perché tu non abbia alcuna possibilità di coinvolgermi e distrarmi, incantevole assassina!

Vedrai, mia cara assassina, questa è la volta buona.

Corre il mio treno. Corre. Corre per abbreviare la mia sofferenza.

Un pomeriggio di sofferenza, di grande dolore, è questo. L’ho detto, purtroppo sono costretto a tornare. Come al solito, devo tornare. Come al solito, devo raccattare le mie cose. E lo devo fare, perché non ho intenzione di lasciarti un solo ricordo di me. Nulla deve più legarci. Porterò via tutto.

Fuggirò per sempre.

Vedrai, a nulla varrà che io dovrò guardarti. Perché ci sarai. So bene che ci sarai, pronta a tentare di sconfiggermi ancora. Ma non ti osserverò, per nulla al mondo ti osserverò. Ti guarderò appena, forse, ma non ti osserverò. E c’è una grande differenza tra guardare e osservare. Ho meditato a lungo e adesso so come sconfiggere il tuo fascino.

No, mia cara, non credere che i ricordi mi mangeranno il cuore. Non pensarlo neppure per un istante. Non mi vedrai più, dopo questo ultimo viaggio, mai più.

Infida! Traditrice.

Quanta gente hai distrutto? Quanti come me hai stregato? O credi che non sappia quanti rapporti hai? In questi vent’anni, dimmi, in questi vent’anni durante i quali il mio cuore ha palpitato per te, quanti rapporti hai avuto? E quante vittime hai mietuto? Vittime, questo sono, vittime come me. Strano a dirsi: non sento per loro rincrescimento o amarezza, né disprezzo da gelosia. Sento dolore, compassione, solidarietà.

Tu confondi. A volte sembri avere la saggezza di Seneca. A volte, la cattiveria di Caligola. Altre volte, ahimè!, sei perfino scellerata. Ma sei bella. Straordinariamente bella. Maledettamente bella!

A dirla tutta e ad un’analisi approfondita, non superficiale, per certi versi sei anche apparenza. Ci sono delle parti strazianti di te: in particolare le estremità, quelle che tenti di nascondere a chi non ti conosce bene e rimane affascinato dal tuo lustro, dallo splendore che manifesti nel tuo insieme. Bisognerebbe riflettere, molto. Bisognerebbe avere il coraggio di guardarti bene, in ogni angolo del tuo corpo. Così soltanto emerge la tua immensa dicotomia tra l’essere e l’apparire. Già essere o apparire? Quanto sei e quanto appari? Mia cara, come vedi so demolirti e adesso non mi inganni più. Io ti conosco davvero, tutta.

Sono quasi arrivato. Ci metterò poco. Non ho voglia di stare da te. Farò tutto in fretta, te l’ho già detto. Con tanta fretta, vedrai. Vedrai, non avrò neppure il tempo di parlarti. Perché ti ho sempre parlato, nei miei lunghi monologhi. E la tua presunzione non ti consente di dare risposte, in nessun modo. Pensi di stare al di sopra di tutti e non ti degni di offrire nulla: accoglienza, conforto, sicurezza. Mai nulla di tutto questo.

Mettitelo bene in testa dunque, questa volta non avrò tempo e voglia di guardarti. Sarò sfuggevole. Sarò senza pietà. Ti lascerò questa lettera in un angolo.

Non provare a confondermi con i tuoi infiniti volti, ambiziosa trasformista. Non m’inganni, non puoi più ingannarmi, ormai.

Farò tutto in fretta. Prenderò le mie cose e ti lascerò. Ti lascerò subito. Dopo sarà tutto più bello, lo so. Ritornerà la pace e l’ambizione di una vita serena diventerà realtà.

Devo superare questo momento, a tutti i costi. È questione di vivere o morire. È sempre stato difficile superare questo momento, impossibile finora. Del successivo non mi preoccupo. Non ci sarà nulla di difficile, dopo. Io lo so.

Sono davvero quasi arrivato. Corre questo treno. Corre.

Tu sei lì, ad aspettarmi, pronta. Ne sono certo.

Ma non cercare di… smettila. Lasciami stare, ti prego. Lasciami andare. Io voglio vivere. Ho bisogno di vivere! Ho bisogno di una storia nuova, di una realtà nuova, di una nuova vita.

(…………………)

La testa mi fa male. Ho un dolore acuto alle tempie. Mi confonde.

Stupido. Sono uno stupido. Come posso, anche per un solo attimo, pensare di chiedere aiuto a te? A te, che non me ne darai. Non vuoi. Forse, non puoi perfino. Tu sei nata così. Sei nata per essere così. Non cambi mai. Il tempo passa, inesorabile per molti, ma non per te. Non per quella parte di te che conforma la tua grande bellezza e, insieme, una smisurata apparenza.

Mio Dio! Già ti intravedo. L’importante è che non ti osservi. No, non devo osservarti. Adesso penso che non devo neppure guardarti, perché temo che questo possa aprire le porte all’osservazione. E io non posso farlo.

Non devo.

Ci sto provando. Ma c’è qualcosa, non capisco, qualcosa che mi ostacola. Intravederti, forse, è già abbastanza per rimanere intrappolato? Come si fa? Sei bella. Mio Dio, meravigliosa!

Un fascino che non capisco, non è di questo mondo. E’ drammaticamente forte e tragicamente surreale. Sarà anche per questo tuo inconfondibile odore. Inebriante. Al punto da non comprendere se rassomiglia a un puzzo. Un puzzo che inebria, confonde, rapisce. Come l’odore intenso di qualcosa che ti appartiene, a cui sei abituato fin da piccolo e la cui mancanza potrebbe significare l’apertura al disorientamento. Un odore inconfondibile. Tuo. Esclusivamente tuo.

Non riesco a non metterti gli occhi addosso. Non ci riesco!

Aiutami, non voglio caderci ancora.

Com’è possibile che la mia ostinata caparbietà, quella caparbietà che tutti mi rinfacciano, si sgretoli al tuo cospetto? Possibile che sia tu, soltanto tu, l’elemento di fragilità del mio essere?

Non farmi questo. Comprendimi, devo liberarmi di te. Abbi pietà, per una volta.

Cosa sarà mai per una come te fare a meno d’un essere piccolo, inutile, insignificante. Cosa sarà mai per te! Oppure proprio la mia testardaggine costituisce il motivo che ti spinge a tradirmi ancora? Mi sfidi, sei crudele e vuoi dimostrare la tua immensa potenza.

Dammi la mia libertà, ti prego!

Parlo, scrivo e tu non mi ascolti. Sei una dea di cristallo, impassibile.

Non mi ascolti, non ascolti le mie preghiere, non dai spazio alle mie aspirazioni, ai miei desideri, alla mia vita. Non confermi la mia capacità di ostinazione, quella che mi ha fatto sperare, ancora una volta, di potercela fare. Di poterti affrontare.

Altrimenti, perché fai questo?

Ho appena alzato gli occhi verso te, solo per capire se stavo arrivando, e non ho più la forza di chiuderli. Dio, sei bellissima! Anche così lontana, mi incanti.

Il cuore mi sale in gola. La mente mi si annebbia.

La verità, forse l’unica verità che trascende ogni possibile ragionevolezza, che supera ogni mia ostinazione, è che t’amo e non posso farne a meno. Non c’è niente da fare. Tu sei il mio tallone d’Achille. Sei la mia morte e la mia resurrezione.

Ti vedo adesso, ti vedo bene. Ormai sono da te. E non ho armi per poterti dire addio.

So che sono ridicolo, ma adesso non voglio più andare via. Percepisco quell’attrazione che mi fa lasciare alle spalle ogni giornata oscura e mi apre alla speranza d’una vita migliore, insieme a te. Restano vivi i ricordi soavi e, per quanto mi sforzi, ora nella mia mente non c’è altro.

Sai, vederti, odorarti … Oggi, poi, a quest’ora, sotto il sole scuro alle soglie del crepuscolo. I colori, che colori! I tuoi colori.

Non ti lascerò. Non ti lascerò mai. Magica. Incantevole strega.

Io ti desidero, mia Roma.

 

Antonio è un tipo strano

Antonio è un tipo strano è un romanzo che ho scritto da qualche anno e non ho mai pubblicato. Ma intendo farlo presto.

E’ la storia di un’amicizia.

Guida l’intero romanzo la figura di un giovane cattolico (Nicolavich Mariotti) con qualche tendenza al puritanesimo, invaso da una strana personalità che si concreta in due differenti risvolti comportamentali: l’incredibile facilità di successo nel lavoro e l’apparente grottesca inettitudine ad affrontare la quotidianità. I sensi di colpa e del dovere che pervadono la sua esistenza e che, paradossalmente, lo aiutano nell’ottenimento del successo, per taluni versi propongono lo stereotipo dell’uomo di fede vissuto nella metà del Novecento. Tuttavia è anche un personaggio vivace, intelligente, risultato di una strana combinazione tra la rigida educazione ricevuta da sua madre russa e l’incessante desiderio di conoscenza. E’ appassionato e questo lo aiuta. Ma non è lui il vero protagonista.

Il vero protagonista (Antonio Bastioni), la cui essenza aleggia lungo tutto il corso della narrazione, esplode concretamente nel romanzo soltanto a un certo punto e in una veste inattesa.

E’ un uomo di grande spessore culturale e umano, niente affatto convenzionale e artefice consapevole di un cambiamento radicale delle proprie abitudini. La narrazione della sua storia induce a una lunga riflessione (senza sotterfugi filosofici) tra l’essere e l’apparire, tra vivere e pensare di vivere. Lui cambia repentinamente e lo fa in un modo certamente singolare, richiamando le scelte di un universo complesso e poco esplorato, di grande attualità, che la gran parte di noi umani identifica in un dramma sociale. Ma forse è solo apparente.

Da un finale che sembra dare spazio alla tragedia emerge, invece, un convinto impulso alla vita.

Per questo lavoro, ho condotto ricerche su campo, all’interno di un difficile mondo. Alcuni momenti della narrazione, apparentemente immaginari, rispondono a fatti realmente accaduti e adattati agli scopi del romanzo. Altri avvenimenti sono frutto di fantasia. Anche i personaggi, per quanto inventati, posseggono alcune componenti caratteriali e comportamentali tratte da individui realmente esistiti o esistenti.

Infine, per contestualizzare lo stile narrativo, ho utilizzato un linguaggio con qualche nota espressiva del recente passato.

 

Qualche piccolo brano del romanzo? Ecco:

<Antonio è un tipo strano.

Tutti dicevano: “Antonio è un tipo strano”. A me non sembrava. Un personaggio, ecco tutto. Uno dei migliori. 

In verità, oggi di Antonio non parla più nessuno. O quasi. Prima, tempo fa, Antonio era sulla bocca di molta gente. Una specie di autorità, con la A maiuscola: Autorità! Un uomo invidiato per il suo successo. Così si diceva.

Io non conoscevo, allora, Antonio.

L’ho conosciuto alcuni anni fa. Quando già era un tipo di cui qualcuno diceva “è strano”. Gli altri non ne parlavano già più.

La prima volta che lo vidi, risale ad almeno nove anni fa. Fu nella sua azienda, una perla del mondo della comunicazione. La AAB S.p.A. Era un’azienda importante, famosa, e lo è ancora.

… Fui impressionato dalla sua statura: due metri, forse. Mi colpì anche il tono della sua voce: caldo e molto penetrante. Non trovai che fosse un bell’uomo. Tuttavia, statuario, interessante. Molto interessante.

…Quattro anni più tardi, era il 1960, mi trovavo seduto ad un bar, vicino Piazza della Borsa, a Milano. Era mattina e leggevo i giornali. Lavoravo ancora nella stessa società editoriale, la cui sede non era molto distante da quella Piazza.

C’era, su uno dei giornali, come spesso accadeva, un corposo articolo sulla AAB e io lo stavo attentamente leggendo. Già da qualche tempo si diceva che la grande azienda non era più quella di una volta. Era pur sempre un colosso, è vero. Però si accusavano delle carenze, il cui riscontro era evidente dalla perdita di fatturato rispetto agli anni d’oro. I giornali tentavano di imputare gli avvenimenti alla minore domanda di certi servizi sul mercato. Affermavano che, ormai, le aziende – specialmente quelle di certe dimensioni, che rappresentavano certamente il parco clienti maggiore della AAB – si facevano la comunicazione “in casa”, creavano internamente uffici per l’attività di comunicazione e di pubbliche relazioni. Affermavano che, a parte certi grandi clienti ormai da anni consolidati, la AAB non aveva potuto acquisire, negli ultimi periodi, nuove rilevanti commesse sul mercato.

Queste considerazioni non mi convincevano fino in fondo. Non mi convinceva l’idea che il mercato della comunicazione fosse in declino. Tutt’altro. La forza della AAB era di aver aperto un settore di mercato, ancora troppo riservato, in un momento storico di grande interesse per quei servizi. L’aumentare dei mezzi di comunicazione ne era la conferma. L’intuizione di Antonio Bastioni era stata geniale. Queste mie considerazioni mi sembravano assai più convincenti.

…Il pensiero mi andò immediatamente al mitico. Antonio Bastioni. Gli articoli dei quotidiani, ormai, non parlavano più di lui. Come se una specie di censura fosse calata su quel nome e su quella figura. Eppure, nessuna censura bastava a togliere dalla mia testa quel nome e quella figura. Così, io credo, anche per moltissime altre persone.

Antonio Bastioni non poteva essere dimenticato.

Si poteva non parlare di lui. Si poteva non pronunziare il suo nome. Si poteva omettere di dire che la, nonostante tutto, ancora grande AAB era una sua creatura. Ma non si poteva dimenticare Antonio Bastioni.

Qualcuno, e soltanto qualcuno, che aveva ancora il coraggio di pronunziare il suo nome, si trovava a dire “Antonio è un tipo strano”.

Io riflettevo molto su questa affermazione.

A due tavoli di distanza era seduto un uomo dalla statura imponente, troppo evidente per non poterlo riconoscere. Antonio Bastioni. Antonio!

Mi emozionai.

Lui si alzò e venne a sedersi al mio tavolo.

La prima cosa che notai in lui fu un certo cambiamento fisico. Già, le uniche cose che me lo fecero riconoscere all’impatto furono la voce e la statura. Tutto il resto, no. Davvero.

Era appesantito. Non per dimensione, ma per aspetto. Era incurvato. Aveva una barba più lunga e incolta. Molte, molte rughe in più, sul volto. I capelli cresciuti di almeno cinque centimetri che davano la sensazione di non aver visto pettine da almeno cinque giorni.

Provai uno strano senso di malinconia che, però, fu subito sopraffatto da un’incredibile curiosità e da una decisa sensazione di piacere. Forse, anche da un egocentrico piacere. Antonio Bastioni, l’incredibile Antonio Bastioni, conosceva il mio nome. Mi conosceva.

… D’improvviso, si alzò. Disse che doveva andare. Disse che gli aveva fatto piacere rivedermi e che avrebbe avuto piacere nell’incontrarmi ancora.

Mi chiese un biglietto da visita. Glielo porsi con soddisfazione. Lui lo prese. Lo sbirciò, lo infilò nel taschino della sua giacca, mi strinse la mano e andò via dicendo che mi avrebbe cercato presto.

Lo vidi allontanarsi fino in fondo alla piazza e lo vidi sparire oltre. Osservai il suo portamento pesante e curvo. Osservai il suo abito piuttosto trasandato, forse vecchiotto. Osservai le sue scarpe, i suoi tacchi consunti, la sua trascuratezza.

Osservai meravigliato. Forse, osservai addolorato.

Se avessi incontrato un altro uomo, uno qualsiasi, con quell’aspetto e quell’abbigliamento, probabilmente non lo avrei compatito. Se mai “compatito” sia la parola adatta. Lo avrei considerato uno qualunque, per l’appunto. Uno non troppo curato, ma uno qualunque. Nel caso in questione, non si trattava di uno qualunque. In un altro momento, qualche tempo prima, Antonio Bastioni non sarebbe mai uscito in quelle condizioni. In un altro momento, sarebbe stato fermato per strada da molta gente. Qualcuno gli avrebbe perfino chiesto un autografo. Allora, invece, nonostante vi fosse molta gente in giro, nessuno sembrava più curarsi di lui. Neppure lui stesso.

E la gente, io credo, non lo riconosceva.

La sua Milano non lo riconosceva più.>

Un affettuoso grazie al mio professore di lettere del liceo, Antonio Signore, uomo di grande levatura culturale, per l’apprezzamento dimostrato verso questo mio lavoro.

ACQUA

Quando il sole sorge, (…) L’importante è che cominci a correre.”

Anonimo ‘900

20 ottobre 1995

Lettera ad un individuo, uno a caso, ricco sfondato.

Una giornata a caso della vita di uno qualunque, uno a caso, che arranca per vivere.

<Mi sveglio, è l’alba.

Oggi piove. Piove su qualunque cosa io faccia. Inesorabilmente piove.

Ho mal di schiena e un diffuso, sordo dolore alla pancia: già, il mio problema di salute. Chi se ne frega. Se dovessi starci appresso, avrei ben poco tempo per inventarmi la vita. E infatti, è proprio questo che cerco di fare: inventarmi la vita.

Mi alzo, mi lavo, mi vesto, vado in cucina e mi preparo un caffè ben carico. Metto la caffettiera sul fornello e, poco dopo, scoppia! Troppo carico? Un pezzo da una parte, un pezzo dall’altra. Il filtro, sbattendomi sulla fronte, finisce in terra e il caffè è dappertutto. La cucina è, ora, ben ornata di macchie scure. Un’espressione d’arte contemporanea?

Scatto d’ira, ho un bernoccolo in fronte. Butto all’aria anche l’ultimo pezzo della caffettiera, il fondo, l’unico rimasto sul fornello. Non ho tempo per prepararmi un altro caffè. Il mio treno parte tra non molto e devo assolutamente raggiungere Roma per un appuntamento in banca. Chissà se con la tua benedizione mi concederanno un piccolo finanziamento? Visto che la tua benedizione m’è costata cara in termini di lavoro fatto al tuo posto, chissà?

Esco di casa; c’è il sole. Entro nella mia anzianotta vettura color bronzo e, ovviamente, questa non parte. O meglio, fatica non poco a mettersi in moto. L’adrenalina sale, la schiena mi fa male, la pancia pure. Devo andar veloce – pura illusione per la mia povera auto – se voglio prendere il treno. Arrivo alla stazione, cerco un parcheggio e – ti pare! – il più vicino dista almeno un chilometro dai binari. Scendo di corsa e di corsa vado verso la biglietteria. Il treno è in ritardo: almeno quaranta minuti. Ma che posso sperare da un diretto del cavolo, non potendo permettermi uno di quei treni veloci e costosi? Maledizione! Corro verso un telefono pubblico e cerco di avvisarti, ma non ci riesco: il tuo cellulare, l’unico di cui ho il numero, è spento. Nevrosi al massimo! Non mi piace portare ritardo.

Finalmente salgo sul treno, arrivo a Roma e, guarda caso, piove a dirotto. E a che vale pensare che a Napoli c’era il sole? Ora non ho un ombrello e devo raggiungere la banca, questa è la realtà. Fradicio come non mai, arrivo all’appuntamento fuori l’agenzia e tu non ci sei. Sarà andato via non vedendomi arrivare?, mi viene spontaneo chiedermi. Macché: non sei ancora arrivato, ma io questo non lo so.

E intanto piove e io continuo a bagnarmi. Grondo acqua da tutte le parti. Le mie scarpe sono zuppe come i miei capelli, come il mio giaccone, come la mia cartella, come il mio tutto. A questo punto non vale la pena neppure cercare un riparo; vale la pena continuare a farmi la doccia, tanto è lo stesso. Certo, se avessi avuto una macchina come una di quelle che hai tu, un autista e un segretario servizievole con l’ombrello, sai chi se ne sarebbe fregato della pioggia, del treno, del parcheggio, eccetera. Va be’!

Dopo un quarto d’ora di doccia davanti la porta d’ingresso della banca, mi convinco che devo telefonare per cercare di rintracciarti, per capire cosa possa essere accaduto e quanto pregiudizievole possa essere stato il mio non colpevole ritardo. Non ho gran simpatia per i cellulari, però mi accorgo di quanto sarebbe comodo possederne uno in un momento come questo. Ma è del tutto inutile che io ci pensi. Cerco una cabina telefonica ma quando ne cerchi una, specie a Roma, non la trovi facilmente o almeno non la trovi funzionante. Poi, con la mia dichiarata fortuna! Quando rintraccio, dopo vari tentativi, la cabina funzionante ecco che all’interno c’è un uomo che parla, parla, parla. Tanto, tanto da non volersi acquietare mai. E a nulla serve che io mi affanni a sventolare la mia carta telefonica col preciso intento di farmi vedere, per dichiarare insofferente fretta e disappunto verso quell’atteggiamento a dir poco maleducato e menefreghista. Finalmente il tizio esce, si badi bene, senza neppure scusarsi dell’attesa che mi ha causato, per giunta sotto la pioggia. Entro in cabina, introduco la scheda nel telefono e, porca miseria!, ci sono solo quattrocento lire di autonomia. Non saprei proprio quanto dista il rivenditore più vicino. Come faccio a chiamare un cellulare con quattrocento lire? Ok, messaggio lampo: io sono qui, sono arrivato, ecco tutto. Tu sei in ritardo, questo ora sono riuscito a capirlo. Ti aspetto e quando, finalmente, arrivi ben asciutto con la tua Maserati (a me l’acqua piovana ha lavato perfino l’anima), ore tredici, entriamo in banca. Se non altro la pioggia ha dato sollievo al mio bernoccolo.

A questo punto, ridere o piangere? La banca non permette operazioni, non c’è corrente. Un guasto, questo è il problema. Ma è un guasto che riguarda soltanto il palazzo dell’agenzia. Dunque servirà più tempo per la riparazione. Se si fosse trattato dell’intero quartiere, i tecnici sarebbero arrivati in tempi più rapidi. Così invece, toccherà aspettare. E quanto? Una buona cosa: dal momento in cui ho messo piede in banca, non piove più. Attendiamo mezz’ora fino alla chiusura del mattino, ma l’elettricità non è ancora in funzione. E’ tempo di uscire. Le porte stanno per essere chiuse e bisognerà tornare all’apertura pomeridiana, ossia alle quindici.

Ironia della sorte, nel mettere piede fuori, ritorna insidiosa la pioggia. E’ come se ci fosse una nuvola nera che mi perseguita, proprio qui, piantata sulla mia testa. E a che è valso, poco prima, essermi asciugato, o meglio tamponato dell’eccesso – si fa per dire – d’acqua, con dei pacchi interi di fazzoletti di carta che sono finiti a colmare i porta-rifiuti dell’agenzia? Va be’, tanto ormai sono assuefatto a quest’insidia. Devo vagare fino alle quindici e poi, dopo essermi assicurato che l’energia elettrica sia tornata attiva, dovrò avvisarti telefonicamente: questi sono gli accordi a me poco favorevoli, naturalmente. L’indifferenza dei potenti richiede anche la servitù. E’ una specie di regola. Ma il tempo è galantuomo e, un giorno o l’altro, mi prenderò una rivincita a mio modo (che illusione!).

Intanto, i miei ricoveri sono tettoie, aggetti di abitazioni, cornici e ingressi di palazzi, qua e la, posti lungo il mio disordinato tragitto. Non mi pesa, ci sono abituato. Poi, oggi sono nervoso e non ci penso!

Ore quindici: sono di nuovo in banca. La corrente elettrica è attiva, il guasto è stato riparato. Ora però manchi tu che, come d’accordo, aspetti che io ti avvisi. Ricomincio. Ritorno in cabina telefonica: quella di prima. Dalle tredici alle quindici i negozi sono chiusi e io sono senza carta telefonica. Bisogna avere la mente lucida per ricordarsi tutto e oggi non è proprio uno di quei giorni. Utilizzo gli spiccioli che mi trovo in tasca e lancio un nuovo messaggio lampo. Ritorno in banca e aspetto. Poco dopo, tu arrivi più asciutto che mai. Facciamo la nostra operazione, che mi ha scorticato l’anima per il tempo che mi ha sottratto, e ci salutiamo. Non è andata come speravo, naturalmente.

Guarda, guarda, non piove. Esco e mi dirigo verso la metropolitana. Non faccio che quattro passi e un tuono feroce annuncia una nuova scarica d’acqua. Non ho certo dovuto attendere per questo. Puntuale, l’unica cosa veramente puntuale della giornata è la pioggia. Altra doccia.

Non so cosa fare. Non ho un accompagnatore con l’ombrello e, in questo momento, non ho neppure un ombrello. Non ho un’auto con l’autista e non ho neppure un’auto che mi permetta di percorrere tranquillamente duecentocinquanta chilometri senza il rischio di perdere un’intera giornata o di essere lasciato a piedi sull’autostrada. Non ho un autista. Non ho un segretario con quattro cellulari – come il tuo – per avvisare dei ritardi (mai premeditati) o per comunicare il mio arrivo. E probabilmente se l’avessi, avrei anche la tua buona dose d’indifferenza che mi porterebbe ad attendere che siano gli altri – quelli che fanno la doccia gratis – a chiamare! In più, le cabine telefoniche, merce per gente di strada, non funzionano quasi mai.

Ho solo buoni piedi, tanta pioggia che mi bagna (non si capisce se piovo più io oppure il cielo) e una testa nella quale si addensano le mie idee, le mie conoscenze e le mie competenze. Perfino le mie aspirazioni. E sai che ti dico? Non ho nulla, è vero; ma non sono meno intelligente di te. Al diavolo, non mi sento assolutamente meno intelligente di te. In ogni caso, non stare lì a preoccuparti di quello che sto dicendo, considerato che ho una certa stima della mia intelligenza. E’ come dire che stimo anche te, non ti pare? Non dimenticare che le differenze tra due individui si misurano evitando le uguaglianze.

Sai qual è la vera differenza tra noi due, al di la dei valori? E’ che, maledetta sorte, sul mio capo piove, piove sempre, inesorabilmente piove. Sul tuo, invece, c’è il sereno e, all’occorrenza, un bel tetto che ti ripara. E non sempre queste cose si conquistano. Altrimenti, cosa sarebbe la sorte?

Ah, dimenticavo: è sera, ormai. Il risultato di questa giornata? Brividi di freddo, un termometro sotto la lingua, un gran mal di gola e un deciso mal di testa che si sommano ai dolori di schiena e di pancia>.

Ora chiudo gli occhi e dormo. Domani è un altro giorno e VEDREMO.

Il Grande Processo

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Reale e immaginario a confronto.

E’ la storia di una donna giovane, vittima e colpevole di un passato difficile.

All’interno di una Roma mutevole, subisce alcuni presagi che le annunciano l’imminenza di un processo, di cui non conosce né la ragione, né l’accusa, né i tempi. Ma il processo arriva e la protagonista percepisce l’attimo in cui ha inizio. Così diventa accusa e difesa di sé stessa, in una continua confusione tra quotidianità e sogni, che le fa perdere la percezione della separazione tra reale e immaginario.

Il grande processo si consuma tra ricordi ed emozioni: amori, ossessioni e tradimenti riemergono e definiscono un percorso articolato e imprevedibile. All’interno di questo calvario, scandito da continui momenti di suspense, lei vive un alternarsi pericoloso di sensi di colpa e desideri d’espiazione, fino al drammatico epilogo.

(Un ricordo affettuoso va al maestro Giorgio Albertazzi

che apprezzò questo mio lavoro e mi donò la colta prefazione che riporto a seguire)

 

Prefazione di Giorgio Albertazzi 

Sul romanzo di Elodia Rossi:  “Il grande processo”

Un bel romanzo, che romanzo in senso stretto non è perché si tratta piuttosto di un poema in prosa, con poche connotazioni romanzesche nel senso vagamente dispregiativo che questa definizione assume al principio del secolo XVIII, da cui discende poi il “romantico”. Il poema di Elodia Rossi è un viaggio verso l’anima, l’anima come archetipo della vita. Perché la vita viene all’uomo (il maschio, secondo Jung) attraverso l’anima, sebbene egli pensi che gli venga attraverso l’intelletto. Eppure questo è uno dei temi se non addirittura il tema di fondo del libro della Rossi. “Il profondo limite dell’uomo è credere che la verità sia nel razionale”. Questo assioma sintetizza bene perfino con una punta di sarcasmo il “senso” di tutto il racconto.

Alla protagonista l’autrice non dà un nome ( viene in mente il Pirandello dell’Enrico IV, che non dà un nome al suo protagonista forse perché protagonista dell’Enrico IV è la follia e la sua simulazione: “come vero”, dice Enrico IV, “soltanto così non è più una burla la verità”). La verità dunque è la sentenza del processo che la protagonista intenta a sè stessa e che il “sogno” che si combina incessantemente con la realtà, le intenta.

Veniamo alla pagina: un viaggio si è detto, le cui tappe o sezioni si snodano in capitoli brevi, ritmici, dove ha un senso anche lo spazio bianco della pagina, come una sospensione. Perchè lo stile è jazz, con improvvisi arresti e cesure ritmiche. E improvvise accelerazioni, in cui l’impeto (stavo per scrivere l’improvvisazione) sembra prendere la mano all’autrice e la frase si fa incalzante per cedere a surplasse mozzafiato. Ne è una prova la grande sequenza della sfida mortale fra i due cugini rivali (Francesco e Giacomo) che cavalcano le onde di Sabaudia sui loro surf come su cavalli da torneo medioevale. Una sequenza cinematografica di grande fattura dove la Rossi governa la materia narrativa con maestria, senza direi, lasciarsi coinvolgere se non spiritualmente.

E’ la scena che vede la morte dell’amato, mite Francesco, padre del figlio che la protagonista porta in seno e che di lì a poco tutta invasata dal suo delirio di “amore universale” tradito e martoriato, perderà.  “Non ho pensato a te, così aggrappato alla mia esistenza, così piccolo e indifeso”.  E lo incontra il piccolo perduto, lo ritrova o lo sogna, lo fa rivivere in un’ombra o in un minuscolo cucciolo di gatto, una creatura buttata via nella spazzatura che grida la sua solitudine, lo prende lo nutre, lo scalda. Invano. Il gattino muore. Le ultime venti pagine del romanzo sono attraversate da una parola ripetuta e reiterata: razionale e irrazionale. Sono due parole, ma la radice è una sola. Sembra questo il dilemma dell’autrice. Lo è, in effetti. Ha perciò ragione Jung quando dice che la vita, la vera vita arriva alla donna, di cui è anche vittima, arriva alla donna attraverso l’intelletto (l’animus) malgrado essa viva per così dire, abitualmente, con l’Eros.

La protagonista impara così nel dolore d’amore, a capire la morte. “Imparai a capire la morte. Imparai ad amare la morte. La mia morte”. Tre volte ripetuta la parola, stilema che spesso l’autrice adotta, reiterandolo ritmicamente. E si convince che qualunque cosa abbia a che fare con lei, sia destinata a finire. Da qui, ma non soltanto, il senso di colpa che la ossessiona, fino dall’inizio del suo viaggio, senso da cui discende il sentimento del “grande processo” che sente incombere sui suoi giorni. In realtà il processo è la visita spettrale del “guardiano della soglia”. E’ cioè l’interrogazione coscienziale, la sua presa di coscienza: ora potrà morire senza cessare di esistere. Il risveglio fisico e spirituale, ma dovremmo dire etico, la trova intontita. Ha dormito realmente pochi attimi, durante i quali il grande viaggio e il grande processo sono accaduti. Sono le ultime pagine dove il ritmo diventa sincopato, la prosa si scioglie in ballata. E’ sola. Il bambino cui aveva offerto il gelato (altra sequenza memorabile per tenerezza e pathos, in realtà non c’è, non c’è mai stato. ” Non c’è. Non c’è. Non c’è. Dove sei? Dove sei?…Il cuore batte, batte”.

La pazzia che sembra investirla come un torrente furioso, in realtà è liberazione, è forse accrescimento della vita, forse è confidenza nella morte possibile e risolta. Intelligenza e ardore. Testimonianza del dolore e dell’amore. Ora potrà vivere con amore e dolore, ma con levità e con grazia.

Un bel libro.

Una stimolante lettura.

Roma dei Desideri

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È la storia di una giovane ragazza caparbia, ambiziosa e ribelle che compie scelte tanto radicali quanto esplosive. Proviene da un’umile famiglia del sud. E’ molto bella e straordinariamente curiosa.

Elabora, fin da bambina, un sogno di vita. Lo alimenta nel tempo e poi lo attua. Qui ha sviluppo il romanzo, tra aspettative e delusioni, gioie e dolori, momenti di grande ironia e altri di sprofondo sconcerto. Ma lei contrappone le sue aspettative a tutto ciò che la circonda. Va dritta per la sua strada, senza un attimo di esitazione. Ostacoli vari, inaspettate congiunture, numerose difficoltà: nulla sembrerebbe fermarla.

Una forma di strana rivendicazione culturale, che assume caratterizzazioni svariate e inconsapevoli giustificazioni, nel corso di un decennio di vita la porterà a una profonda analisi. Pochi attimi intensi le saranno sufficienti a ripercorrere ogni scelta. Nulla cambierà nel suo carattere. Tutto cambierà nella sua storia.

 

Caparbietà

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Tre storie diverse, tre diversi ideali di vita, tre individui accomunati soltanto dal desiderio di esprimere la propria autonomia caratteriale.

Così la caparbietà si dipana in forme multiple e sfumature inaspettate.

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