Elodia Rossi

La Città di Celentano

Giovani, laureati di fresco, speranzosi e spensierati, il mio amico Alfredo e io viaggiavamo spesso insieme per raggiungere Latina in automobile. Lui, avvocato, finiva in Tribunale; io al lavoro in uno studio di architettura.

Erano viaggi allegri, dove si cantava. Lui intonato, io niente affatto. Ma che importa: era divertente. E si cantavano soprattutto le canzoni di Celentano (la voce di Alfredo era molto simile). E, tra l’altro, immancabilmente si cantavano Il ragazzo della via Gluck e L’albero di trenta piani, forse inconsapevolmente fieri di vivere in un paese con una posizione geografica e climatica invidiabile.

Recentemente, se ben ricordo era il 6 gennaio (giorno del suo ottantesimo compleanno), Celentano si è esibito in TV con un concerto davvero molto bello: un artista straordinario, con una voce straordinaria, con canzoni bellissime. Non più lunghe pause (come accadeva in passato), forse meno molleggiato, tuttavia dinamico  nell’alternare i brani e colmo di matura professionalità. Per me è stato un piacevole tuffo nei felici trascorsi.

Ma non è di questo che voglio parlare, quanto invece dell’intuizione dell’artista riguardo il futuro urbano.

Siamo nel 1966 quando Celentano canta per la prima volta Il ragazzo della via Gluck. Siamo soltanto nel 1966 e lui narra la storia di un ragazzo che si trasferisce dalla via Gluck, un tempo strada di campagna, in città. Sempre col cuore pieno del suo luogo d’origine, il ragazzo fa strada e decide di tornare in via Gluck per ricomprare la sua vecchia casa. Ma:

Torna e non trova gli amici che aveva. Solo case su case, catrame e cemento.

Là dove c’era l’erba ora c’è una città. E quella casa In mezzo al verde ormai, dove sarà?

Ed è il 1972 quando Celentano lancia L’albero di trenta Piani. Nel brano, rivolgendosi a una donna, l’accusa amaramente di averlo costretto a vivere in città:

Per la tua mania di vivere in una città, guarda bene come ci ha conciati la metropoli…

Tutti grigi come grattacieli con la faccia di cera… È la legge di questa atmosfera, che sfuggire non puoi fino a quando tu vivi in città.

E di qui bucoliche narrazioni di una salutare vita in campagna, tra gli alberi e il canto delle allodole, contrastate dal grigiore urbano, dove i motori delle macchine già ci cantano la marcia funebre. E poi il cielo oscurato dai fumi delle fabbriche, e poi la nevrosi, e poi il soffocamento. Tutto mentre si sta alzando un nuovo edificio di trenta piani, perché il Comune vuole una città moderna.

Intanto, nel 1969, sarcasticamente Giorgio Gaber lancia la sua Com’è bella la città: una città piena di luci, di vetrine, di magazzini, di macchine. E dunque Vieni, vieni in città. Che stai a fare in campagna, se vuoi farti una vita

Arriva poi il 1977 e Pino Daniele presenta il suo pezzo Napul’è. Un omaggio alla sua terra bella e dolorosa, è vero, ma anche una lucida espressività di tanti problemi urbani.

Eppure quegli anni sono davvero lontani – non tanto in tempo quanto in possibilità di prevederli – dagli immensi drammi della città contemporanea.

Dunque e a conti fatti, questi grandi artisti italiani non sono forse stati degli anticipatori straordinari?

Erosione del Suolo: cause e rimedi

Due anni fa, alla fine del 2015, l’Inghilterra (per voce dell’Università di Sheffield) sagacemente sottopone uno studio al Congresso sul clima di Parigi. Si tratta del Congresso che dà vita all’Accordo sul clima (rif. Articolo L’altra faccia dell’Accordo di Parigi).

È uno studio importante, serio nelle premesse (a mio giudizio, incompleto nell’individuazione delle cause e dei rimedi), circostanziato sulla problematica dell’erosione del suolo. Dopo tanto, mi chiedo come mai anche questo tema non sia stato neppure citato all’interno dell’Accordo, visto che si tratta di una tragedia planetaria e non soltanto britannica.

Ecco il dato riportato nello studio: in quarant’anni l’erosione ha distrutto un terzo dei terreni coltivabili e il fenomeno è in aumento.

Ecco le cause individuate: ripetute arature con continui movimenti del suolo (causa della dispersione delle sostanze organiche nell’atmosfera e conseguente indebolimento del terreno, con l’abbassamento della capacità di trattenere le acque e la conseguente riduzione delle crescite di piante), inquinamento, uso eccessivo della quantità di terra arata.

Ecco le soluzioni proposte nello studio: uso di fertilizzanti naturali, impiego di piante con minore bisogno di fertilizzanti, rotazione delle colture e conseguente riduzione delle arature (soluzione piuttosto complessa, visto che la produzione agricola è destinata ad aumentare del 50% in breve tempo, dato il previsto aumento vertiginoso della popolazione mondiale), parziale conversione dei terreni a pascolo (pari al 30% di quelli coltivabili).

Per quanto la proposta inglese sia stata sagace nell’incitare ad affrontare temi concreti, chiedo un attimo di riflessione. Perché basta un attimo per capire che manca la relazione con la più grande delle cause e, di conseguenza, manca la più concreta delle soluzioni.

Quali?

La principale causa, a mio giudizio (tratta dall’intersecazione dei dati ufficiali): gli allevamenti intensivi.

La principale soluzione, a mio giudizio: l’annientamento degli allevamenti intensivi, ovviamente, oltre la derivata contrazione dei bisogni effimeri urbani.

Perché affermo questo?

Chi ha letto il mio articolo Città, danno ambietale e allevamenti intensivi probabilmente già avrà capito a cosa mi riferisco.

Riprendo alcuni concetti: il 25% della superficie terrestre è occupata da allevamenti intensivi (dato in vertiginosa crescita); un terzo delle risorse idriche planetarie viene impiegato per gli allevamenti intensivi e il 70% dei cereali prodotti è destinato a questo drammatico e dannoso meccanismo alimentare. Esorto alla lettura del Meet Atlas redatto dalla Fondazione tedesca Heinrich Boll, per capire quali dimensioni abbia raggiunto il consumo di carne nel mondo e quali conseguenze si stanno subendo (devo dire, giustamente).

Nel solo anno 2016 sono stati prodotti 2.569 milioni di tonnellate di cereali (Fonte: FAO), di cui ben 1.798,3 sono stati riservati agli allevamenti intensivi. La coltivazione dei cereali richiede l’impiego del 46% (circa 750 milioni di ettari) di tutta la terra coltivabile. Ciò significa che il 32,2% della terra coltivata è asservita ai bisogni degli allevamenti intensivi. E significa che ben 525 milioni di ettari hanno la medesima destinazione.

In termini differenti, senza gli allevamenti intensivi la disponibilità di suolo agricolo aumenterebbe della componente pari al 25% delle terre emerse (quota dovuta all’occupazione degli stabilimenti) + 32,2% della terra coltivata (componente dovuta alle produzioni di cereali destinate agli allevamenti). Vale a dire che avremmo 37.250 + 5.250 = 42.500 migliaia di chilometri (circa il 30% della superficie terrestre) in più per vivere secondo Natura, abbattendo anche massicciamente l’inquinamento delle falde idriche.

Senza contare l’incidenza del consumo di acqua. L’ho detto: un solo chilo di carne bovina necessita dell’impiego di 15.000 litri. Vado oltre: la produzione annuale di carne ha superato i 300 milioni di tonnellate. Vale a dire che il relativo consumo di acqua si aggira intorno ai 4,5 miliardi di litri annui. Ne vogliamo parlare ancora? Non basta?

Abbiamo vissuto un’estate con una carenza d’acqua enorme, dalle grandi città ai piccoli paesi. Ed è ancora così. La capacità della terra, già compromessa, di trattenerne l’acqua piovana è poca o quasi nulla.

Fatto sta che la carenza d’acqua è diventato uno dei temi scottanti della contemporaneità.

Perché? Perché ai livelli di governo nessuno interseca dati reali e trae somme concrete? Nessuno trasferisce massicciamente le amare verità su quello che è il più grande dramma planetario, la cui risoluzione condurrebbe alla salvezza della terra.

Mi chiedo se i potenti si soffermino mai sulla vita dei loro stessi figli. Possibile che gli interessi economici siano più importanti?

Noi uomini, e solo noi, siamo macchine di distruzione di massa.

Infine, una curiosità: il rapporto inglese afferma che si sta procedendo verso la produzione di suolo adatto solo a edificare. Dovremmo essere contenti, noi architetti? Non scherziamo.

Città, danno ambientale e allevamenti intensivi

La città, l’ho detto e ripetuto, assorbe il 75% delle risorse planetarie (p.e. Rif. artt. L’inganno della Sostenibilità e L’immenso dramma urbano). Il mostro urbano, in inarrestabile crescita, sta traghettando verso un futuro doloroso. Ed è un dato inconfutabile che questo inquietante traguardo sia dovuto a una sola delle specie: l’uomo.

La città non è pronta al cambiamento che la società odierna ha velocemente imposto, definendo una traiettoria a dir poco devastante. La presunzione politico/amministrativa di internazionalizzare ogni ambito urbano è un coltello nel fianco dell’equilibrio globale. Intanto la Cina si spinge ancora oltre e, derivazione d’un pensiero politico di stampo imperiale, avvia un piano per la costruzione della megalopoli Jing-Jin-Ji, pensata per accogliere oltre 130 milioni di abitanti. Un piano di dominazione del mondo.

In questo momento, ore 16.51 del 19 luglio 2017, nel mondo ben 1.645.284.850 persone sono in forte sovrappeso, altre 628.797.889 sono obese (Fonte WHO – World Health Organization, programma Obesity and overweight), mentre 637.337.162 sono denutrite (Fonte FAO, programma The state of food insecurity in the world). I primi due dati sono in forte aumento, l’ultimo è in lieve decremento.

Sono fenomeni rintracciabili quasi esclusivamente in ambienti urbani, a differenza di aree meno urbanizzate dove la forbice tra miseria e opulenza va a ridursi.

Le esigenze largamente effimere delle aree urbane richiamano sprechi devastanti di risorse. Tra questi, il consumo smodato di carne che, secondo la FAO è destinato a crescere del 73% entro il 2050, nonostante i moniti dell’OMS sul pericolo derivato e sulle relazioni accertate tra consumo di carne e sviluppo del cancro. Di pari passo viaggia ovviamente l’incremento degli allevamenti intensivi che, già oggi, occupano il 25% della superficie terrestre. Dati allarmanti, questi. Come allarmante è la consapevolezza che l’uomo non si renda conto dell’insostenibilità della strada che percorre il proprio avanzare verso la distruzione.

Pressappoco alla stessa ora di oggi, ben 6.023.305.990 milioni di litri di acqua sono stati consumati dall’inizio dell’anno (Fonti: Global Water Outlook to 2025 – International Food Policy Research Institute – IFPRI e International Water Management Institute – IWMI), mentre 602.563.607 persone non hanno accesso all’acqua potabile (Fonte: World Health Organization – WHO, programma Water Sanitation and Health -WSH).

Per la produzione di un kg di carne bovina, negli allevamenti intensivi, sono necessari 15.000 litri di acqua (un kg di vegetali richiede l’impiego medio di 1.000 litri). Un terzo delle risorse idriche planetarie viene impiegato per gli allevamenti intensivi e il 70% dei cereali prodotti è destinato a questo drammatico e dannoso meccanismo alimentare, con ripercussioni enormi sui più deboli e poveri.

La FAO informa sulla produzione di ammoniaca delle deiezioni liquide derivate dagli allevamenti intensivi che inquinano le falde acquifere e dai vaccini, dagli ormoni e dagli antibiotici che, utilizzati massicciamente per garantire la seppur breve sopravvivenza agli animali in condizioni di stress insopportabile, si riversano nel ciclo ambientale, organico e dei rifiuti. Gas che provocano imprevedibili ripercussioni sugli ecosistemi naturali.

Quali conseguenze? Eccone alcune:  innalzamento del livello del mare, massiccia deforestazione per fini di pascolo (e di edilizia) con alterazione dei processi di fotosintesi, insano consumo del suolo, desertificazione di vaste aree (il 20% della superficie terrestre è desertificata in conseguenza degli allevamenti), dissesti ambientali, acidificazione degli oceani.

Il metano deriva dalla fermentazione dovuta ai processi digestivi degli animali (il numero di capi artificialmente prodotto, con pesante alterazione delle nascite naturali, e la concentrazione in alcuni ambienti, generalmente insani per l’impossibilità di mantenimenti di igiene adeguata) e dall’evaporazione delle deiezioni, la trasformazione degli escrementi produce protossido di azoto, la filiera della carne richiede combustioni altamente inquinanti. Gli allevamenti intensivi per la produzione di carne rappresentano la più pericolosa delle pratiche umane. E perché non considerare anche l’enorme e devastante contributo che questa pratica offre alla deforestazione per via della sua espansione?

Il Dossier Livestock’s long shadow (per dirla in italiano: l’ombra oscura degli allevamenti intensivi) della FAO, risalente addirittura al 2006 sostiene, tra l’altro, la necessità della drastica riduzione degli allevamenti intensivi e il consumo di prodotti di origine animale.

E tutto questo senza aver neppure sfiorato il tema della sofferenza di esseri sensienti, sulla qual cosa pure ci sarebbe da dire. Anzi, ci sarebbe da dire molto, molto di più.

Basterebbe un po’ di buon senso, una presa di coscienza verso la consapevolezza di cui ho spesso accennato: la vita sul Pianeta è regolata da leggi naturali che non possono essere trascurate. La città chiede troppo, l’effimero governa e il danno è incontenibile.

Mi sono sempre detta: qualcuno, qualche collega progetterà pure questi luoghi di distruzione e sofferenza. Varrebbe la pena rifletterci su’, evitando di contribuire al massacro.

L’immenso dramma urbano

La città mondiale è lo specchio dell’inganno della sostenibilità (Rif. art. L’inganno della Sostenibilità). Come ho già detto, gli ambiti urbani consumano il 75% delle risorse del Pianeta, pur occupando una superficie inferiore al 5% di quella delle terre emerse (Rif. Articoli della serie Spasi e Luoghi dell’Architettura).

In valori assoluti, su circa 149.000 migliaia di km, estensione delle terre emerse, vivono oltre 7,516 miliardi di persone (valore in esponenziale crescita, visto che solo quest’anno – e finora – sono nati oltre 72 milioni di bambini e sono morti poco meni di 30 milioni di individui). La popolazione mondiale complessiva è distribuita sul 10% delle terre emerse, ossia su 14.900 migliaia di km. 4 miliardi di persone vivono nelle aree altamente urbanizzate, altri 2 miliardi circa vivono in quelle mediamente urbanizzate. Solo 1,5 miliardi di individui sono distribuiti nelle aree meno urbanizzate.

Appare ragionevole, intersecando i numerosi dati che ho riportato in vari articoli, asserire che:

  • meno dell’1% della superficie delle terre emerse (quota attribuibile alle aree altamente urbanizzate) accoglie 4 miliardi di individui, con una densità abitativa drammatica e oscillante in dipendenza della tipologia di area. Qui ha sede lo sviluppo delle baraccopoli che, come ho già detto (Rif. Art. 4 – Spazi e Luoghi dell’Architettura), ospitano 1 miliardo di persone,
  • circa il 4% della superficie delle terre emerse (quota attribuibile alle aree mediamente urbanizzate) accoglie altri 2 miliardi di persone,
  • sul restante 5% (aree poco urbanizzate) sono distribuiti 1,5 miliardi di individui.

Chiarisco che quando parlo di aree altamente urbanizzate non mi riferisco solo alle 21 maggiori megalopoli (fenomeno inquietante, che da solo accoglie il 20% della popolazione mondiale – Fonte ONU, ovvero 1,5 miliardi di persone), ma a tutti quegli ambiti che presentano un tasso di urbanizzazione molto alto. Quando parlo di aree mediamente urbanizzate, mi riferisco alle città medie città. Gli agglomerati minori – borghi, paesi, piccole città, eccetera – costituiscono l’ultima categoria.

Tokyo – Foto di David Mark
Fonte Pixabay

Le megalopoli, in vertiginoso aumento anche del numero (nel 2014 l’ONU stimava che sarebbero diventate 29 nel 2025, e invece già oggi se ne contano 37), hanno superato perfino il concetto che ne aveva dato Gottmann. La struttura polinucleare sembra non esistere più e le aree agricole – cuscinetti d’interconnessione – sono ormai sparite nella maggioranza dei casi.

Questi mostri – costantemente monitorati dal Global Urban Observatory Network (GUO Net) di UN Habitat – quasi mai offrono condizioni di vita accettabili. Al di là di casi in cui la razionalizzazione urbana, derivata da un’efficace pianificazione (come per New York), se non altro produce una forma di vivibilità più fluida, questi luoghi attraggono e generano insieme problemi di ogni natura.

Giusto per avere idea del fenomeno, benché approssimativa, le 21 maggiori megalopoli accolgono più di 350 milioni di individui e occupano una superficie totale di circa 120.000 kmq. Ne deriva una densità media di 2.916 ab/kmq. Valore molto vicino a quello di Roma, pur non essendo questa nel guinness dei primati. Ma qual è la vera distribuzione degli abitanti delle megalopoli? Come valutarne le concentrazioni in porzioni di territorio maggiormente compromesse? Può considerarsi accettabile, per esempio, che Mumbai possegga una densità superiore ai 30.000 ab/kmq e Lagos superi i 16.000? Un dato è certo: densità urbana e povertà sono fortemente relazionate.

Insomma, la città cresce a dismisura e i fabbisogni urbani – reali ed effimeri – seguono il passo. L’incapacità umana di contrarne la domanda genera il delirio di cui ho più volte detto e le ripercussioni sono rintracciabili nell’enorme danno ambientale, nell’invivibilità (che richiama insicurezza, abbandono, traffico, sovraccarico diffuso, criminalità, miseria, insopportabile amplificazione del divario ricchezza/povertà, eccetera), fino alla guerra e alla morte precoce.

Sempre più la città si sta trasformando da luogo del vivere in luogo del morire.

Lo scintillio delle luci notturne, la disponibilità di luoghi per lo svago, la diffusione di servizi di approvvigionamento e tutti gli altri apparenti benefici sono fuochi di paglia e, troppo spesso, sono essi stessi causa del grave disagio, perché richiedono un insostenibile impiego di risorse.

La città non è pronta al cambiamento che la società odierna ha velocemente imposto, definendo una traiettoria a dir poco devastante. Le architetture non sono adeguate e la presunzione politico/amministrativa di internazionalizzare ogni ambito urbano è un coltello nel fianco dell’equilibrio globale. Intanto la Cina si spinge ancora oltre e, derivazione d’un pensiero politico di stampo imperiale, avvia un piano per la costruzione della megalopoli più grande del mondo: Jing-Jin-Ji, pensata per accogliere oltre 130 milioni di abitanti. Un piano di dominazione del mondo.

Quale messaggio? Quale risposta? Quale futuro? Quali azioni intraprendere?

Procedo per passi. Ho promesso che avrei analizzato, uno a uno, i più importanti moventi del crollo delle città per poi, con prudenza, arrivare a definire le azioni che – dal mio punto di vista – potrebbero condurre a metodi di riqualificazione urbana. Inizierò col parlare di allevamenti intensivi e del derivato effetto serra. Perché è anche questo un problema urbano, visto che la domanda più ingente giunge da qui.

N. 4 – Spazi e Luoghi dell’Architettura

Nei precedenti tre articoli ho spiegato, in sintesi, le ragioni che stanno determinando il veloce aumento dimensionale delle megalopoli. Ho accennato ad alcune ricadute del fenomeno, in termini di organizzazione (e disordine) delle aree urbane sovraffollate.

Ora voglio parlare di uno dei fenomeni che, a mio avviso, è espressione del più incisivo degrado fisico/funzionale di alcune delle megalopoli mondiali: le baraccopoli. Una ripercussione che rischia di dilagare in maniera abnorme, entrando a far parte – in breve tempo – della quasi totalità delle grandi urbanizzazioni planetarie.

Viviamo in un periodo storico caratterizzato da una crisi economica mondiale, forse la peggiore della storia, oltre che da dilaganti fenomeni di mal gestita immigrazione. Tutto questo fa i conti con le mutate esigenze delle società, in irrefrenabile e perdente corsa verso le continue innovazioni dell’ICT. La gestione controllata di questi ultimi elementi richiederebbe investimenti enormi, dal campo formativo a quello dell’adeguamento urbano, non certamente affrontabili con le scarse e spesso mal amministrate risorse disponibili.

La povertà aumenta vertiginosamente, il carico urbano altrettanto, gli spostamenti fisici – a dispetto delle aspettative – si moltiplicano a dismisura, mentre gli spazi di accoglienza vanno a contrarsi e le città esplodono.

La città, ormai immaginario luogo privilegiato della vita collettiva e lavorativa, ha costi di sopravvivenza ben superiori a quelli dei centri minori. La speranza di un futuro migliore, ambizione di ogni individuo, porta la gran parte della gente a spostarsi nelle aree urbane. Il divario economico tra possibilità personali e richieste derivanti dalla vita in città (in termini di mercato immobiliare, servizi, approvvigionamenti basilari alla sopravvivenza) è enorme. La gente meno fortunata è costretta ad abitare in aree degradate, dove gli spazi sono angusti, i servizi inesistenti, le dimore fatiscenti e illegali; dove la criminalità raggiunge livelli insopportabili, la vita civile è pressoché annientata, priva di regole e perfino di buonsenso. Arrangiarsi è la parola d’ordine. Queste sono le baraccopoli (o slum, o favelas, o bidonvilles, eccetera).

Inutile che mi dilunghi sulle modalità costruttive e formali di questi luoghi dell’indigenza. Basti dare un’occhiata alla foto riportata al link https://www.poverties.org/blog/urban-poverty-in-india. E non è tra le peggiori baraccopoli.

UN-Habitat le definisce aree densamente popolate e caratterizzate da abitazioni al di sotto degli standard minimi e da miseria. Sono luoghi del terrore che si stanno espandendo, si moltiplicano e – con un po’ di acume – possono individuarsi timidi ma pericolosi fenomeni anche nelle città finora apparentemente salve.

I dati di UN-Habitat (tratti da the challenge of slumsglobal report on human settlements del 2013) sono terrificanti: le baraccopoli sono 250.000 e ospitano 1 miliardo di persone. E se per i Paesi cosiddetti sviluppati l’incidenza della popolazione che le abita è del 6%, in quelli in via di sviluppo l’incidenza sale addirittura al 43%. Parrebbe esiguo il dato del 6%. Ma tale non è se si rapporta a precedenti valori, sempre derivati dagli studi dell’Agenzia ONU, sensibilmente minori. Il fenomeno è in aumento, il trend non mente e UN-Habitat lancia il grido dall’arme: in assenza di giuste misure, in soli trent’anni la popolazione delle baraccopoli potrebbe raddoppiare, raggiungendo più di un quarto della complessiva e un mezzo di quella urbana. Gli slum di Afghanistan, Etiopia, Ciad, Nepal ospitano circa il 90% della popolazione relativa. Mumbai, Dacca, Città del Messico, il Cairo, Lagos posseggono le baraccopoli più popolose al mondo.

Cosa può fare l’architettura? Molto direi, se supportata da un buon sistema politico e da una presa di coscienza collettiva.

L’idea della smobilitazione di questi luoghi, sperimentazione effettuata in alcune realtà con disastrose ripercussioni, non è la strada vincente. Garantire nuovi alloggi e condizioni di vita meno insostenibili agli abitanti è pressoché impossibile: costi e dimensioni sono i principali elementi ostacolanti. L’azione deve essere interna, partendo dal basso, riqualificando pian piano l’edificato, dotando questi luoghi – il più rapidamente possibile – di servizi essenziali (come il sistema fognario) destinati anche a contrarre lo sviluppo di smodati tassi di inquinamento. Bisogna mirare, con coscienziosa modestia, con prudenza e metodo, al conseguimento di soluzioni complessive formali e funzionali in grado di garantire condizioni di vita accettabili. E bisogna evitare, con adeguate politiche abitative, lo sviluppo ulteriore degli aggregati. Sarebbe già abbastanza.

N. 3 – Spazi e Luoghi dell’Architettura

Eccomi al terzo articolo su Spazi e Luoghi dell’Architettura.

I nefasti dati riportati nell’articolo precedente – sui temi della deforestazione, del consumo del suolo agricolo e dell’inquinamento – lasciano facilmente capire quale situazione di disagio sta vivendo l’intero Pianeta. Una situazione che è diretta derivazione dal modo con cui l’abitare umano si sta sviluppando.

Il correlato tema dell’ingigantimento esponenziale delle aree più urbanizzate ne è sì la causa, ma soltanto in relazione al modo con cui questo fenomeno sta dilagando. I fabbisogni delle conurbazioni sono enormi e si stima che in esse venga eroso il 75% delle risorse del Pianeta.

Certamente, secondo un’ipotesi ormai non più percorribile, la distribuzione razionale e pressoché equa dei luoghi delle funzioni umane sulle terre emerse, sarebbe la soluzione migliore, capace di generare un privilegiato rapporto tra edificato e ambiente naturale, con derivazioni efficaci in termini di abbattimento dei tassi di inquinamento. Il verde, ricordiamolo, è il polmone dell’Universo.

Tuttavia, le megalopoli aumentano di dimensione e si moltiplicano. Qualsiasi città cresce velocemente, mentre si spopolano sempre più le campagne. Ma perché? Facile dirlo. Nel contesto di una società decisamente mutata (da quella agricola a quella dell’ICT, fino alla globalizzazione con le relative incidenze), la concentrazione delle funzioni vitali – sedi lavorative, sedi abitative, sedi ludiche, sedi commerciali, sedi sanitarie, eccetera – avrebbe dovuto permettere vantaggi in termini di riduzione dei tempi e miglioramento della vita. E questo, senza contare il contributo enorme che avrebbe dovuto giungere dalla rete. Dato l’orientamento della contemporaneità però, anche questa ambizione si contrae e subentrano elementi di frattura, come disservizi e disfunzioni, che determinano dilatazioni temporali inadeguate e insopportabili.

Insomma, se la vita nelle grandi città dovrebbe consentire perlomeno alcune facilitazioni, le effettive relazioni spazio/funzionali assumono complessità ingovernabili. L’enorme disparità tra risultati e aspettative, ha tradotto la città contemporanea in luogo dell’invivibilità.

Ciò che comunemente viene chiamato progresso, secondo logiche prevalentemente economiche che spesso e opportunisticamente non esaminano gli scompensi ambientali, ha dunque imposto mutazioni impattanti e, per certi versi, inattese. Come accennato, le necessità umane sono drasticamente cambiate nel corso di soli due Secoli di storia e la grande società contadina ha lasciato il passo prima alla società tecnologica, poi anche a quella dell’informazione avanzata. La speranza che, in tempi abbastanza recenti, si affidava alla diffusione via cavo (poi via etere), consistente nell’abbattimento delle distanze (il cosiddetto km 0), non ha dato i frutti attesi. E così, benché gli intervalli della comunicazione siano ormai inesistenti, ben altri fattori (soprattutto di consumistico mercato) hanno inciso negativamente sul complesso della gestione delle funzioni umane, imponendo comunque la necessità – per alcuni versi, l’aumento – degli spostamenti fisici.

L’architettura ne è risultata disorientata. Quest’alternanza di aspettative umane ha compromesso studi e ricerche nel campo del costruire globale. La risposta scientifico/architettonica non si è rivelata adeguata. Ora siamo al bivio, pur nell’incertezza del domani, di quali sviluppi ancora ci siano riservati, di quali cambiamenti dovremo ancora occuparci.

Ma siamo al bivio. O l’architettura sceglie la corretta strada, oppure non ci sarà ritorno.

L’architettura sta tentando rimedi, sbaglia e riprova ciclicamente, confusa dalle mille trasformazioni. Ma, forse, un punto fermo su cui lavorare c’è. Ovviamente riguarda la gestione formale dello spazio urbano e funzionale. Ci arriveremo e capiremo i vantaggi della verticalizzazione. Nulla potrà essere più incisivo dello studio di alcune importanti città mondiali.

 

NOTA: Suggerirei, per approfondimenti sul tema della crisi urbana, di leggere alcune pubblicazioni edite da Giannini Editore e curate dal prof. Corrado Beguinot (Presidente della Fondazione di Studi Urbanistici Aldo Della Rocca), cui ho anch’io partecipato, derivate da una ricerca pluridecennale e sottoposta al vaglio delle Nazioni Unite. Successivamente, in un articolo dedicato, ne illustrerò il percorso.

N. 2 – Spazi e Luoghi dell’Architettura

Sono al secondo articolo di una serie che sto numerando. Si tratta di una specie di sintetica rivista sul tema degli spazi e dei luoghi dell’architettura globale, con attenzione particolare all’Italia.

È mia intenzione individuare quali orientamenti dovrebbe avere l’architettura dell’oggi e del domani, in relazione alle tematiche spazio/ambientali.

Nell’articolo precedente (N. 1- Spazi e Luoghi dell’Architettura), dopo una sommaria ma – a mio parere – indicativa analisi dei dati su popolazione, territorio e densità abitativa, ho posto alcune domande. In questo articolo e in quelli che seguiranno proverò a darvi risposta.

I quesiti:

Quali sono le logiche con cui interpretare i dati emersi, apparentemente sorprendenti? Una densità abitativa alta è segno di degrado o di progresso? I dati decontestualizzati possono aver senso? Cosa ci aspetta domani?

Inizio.

Quando affermo che i dati emersi appaiono sorprendenti, mi riferisco alle oscillazioni che vengono determinate, rispetto al dato medio di densità abitativa mondiale, dalle aree urbanizzate. Difatti la media di 50 abitanti/kmq relativa alle terre emerse viene a ridursi considerevolmente nelle aree esterne alle grandi e medie città.

Più della metà delle persone del mondo vive in aree altamente urbanizzate (circa 4 miliardi), seguendo un andamento esponenziale. Secondo l’ONU, che dal 1988 elabora uno specifico rapporto annuale sul tema, la popolazione urbana mondiale dovrebbe aumentare all’84 per cento entro il 2050, raggiungendo i 6,3 miliardi di persone.

La superficie del globo occupata da insediamenti umani è pari a 1/10 della complessiva superficie delle terre emerse. Qui vive il 95% della popolazione mondiale.

Detto fatto. Sul 10% della superficie terrestre (pari a 14.900 migliaia di kmq) vivono oggi 7,125 miliardi di persone. Ciò significa che sul restante 90%, pari a 134.100 migliaia di kmq, ne vivono 0,375.

Passiamo alla densità abitativa media. Rispetto al dato complessivo (50 ab/kmq), sul 90% (aree non urbanizzate) la densità è pari a 2,8 ab/kmq, mentre sul 10% di aree urbanizzate (di qualsiasi specie) la densità abitativa sale a 478,19 ab/kmq. Quest’ultimo dato è ulteriormente scorporabile se si osserva quello medio relativo alle megalopoli, pari a circa 12-15.000 ab/kmq. E siamo nel terreno dei valori medi, dunque soggetti a variazioni – anche sostanziali – interne ad ogni conurbazione.

La quota di 1/20 della popolazione complessiva vive nelle 21 megalopoli (con almeno 10 milioni di abitanti) del mondo. L’ONU stimava che le megalopoli sarebbero salite a 29 nel 2025. Riporto il relativo schema geografico proiettivo. Valore che si è rivelato, in breve tempo, sottostimato.

Fonte: Nazioni Unite

Ma quali effettive relazioni esistono tra questi dati e il disturbo ambientale? Da una lettura superficiale potrebbe sembrare che l’attuale tendenza alla concentrazione in aree altamente urbanizzate sia vantaggiosa per gli ecosistemi naturali. Non è così. O meglio, non è esattamente così, visto che il ruolo chiave spetta all’architettura, al modo con cui viene concepito l’abitare. Ma ci arriveremo.

A questo punto entra in campo il diffuso consumo ambientale che deriva dai bisogni delle grandi urbanizzazioni. E tutto ciò va ben oltre il solo consumo di suolo che compete le stesse aree sovraffollate, all’interno delle quali i tassi di inquinamento e di alterazione degli ecosistemi hanno raggiunto soglie insopportabili (i cui parametri specifici d’inquinamento superano quelli che sto enunciando).

Si pensi, ad esempio, che nel mondo 1.333.351 ha di foreste sono state distrutte (Fonte: FAO – Global Forest Resources Assessment) solo nel corso di questo anno (ossia in tre mesi) e 1.795.065 ha di terra coltivabile è stata erosa (Fonte: FAO – Dimension of need: Restoring the land). La desertificazione, sempre in questi tre mesi, ha raggiunto la soglia di 3.076.707 ha (Fonte: United Nations Convention to Combat Desertification). Di conseguenza, cresce vertiginosamente l’emissione di CO2, attestandosi a poco meno di 10 miliardi di tonnellate (Fonte: IEA – International Energy Agency). Infine, le sostanze tossiche rilasciate nell’ambiente corrispondono a 2.510.793 tonnellate (Fonte: United Nations Environment Program). Dati rilevabili in tempo reale, che si riferiscono all’anno e all’istante in cui sto scrivendo: ore 15,00 del 4 aprile 2017. Tra qualche minuto saranno già aumentati.

Valori che fanno rabbrividire e che devono sollevare la coscienza collettiva. E devono richiamare l’analisi collaborativa di noi architetti, operatori privilegiati per il conseguimento di un domani migliore.

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