Elodia Rossi

PROFESSORI E DOTTORI NELL’ITALIA DELL’ABUSO

Qualche anno fa visitai l’Accademia di Architettura della Svizzera Italiana (a Mendrisio), alla cui biblioteca donai alcune mie pubblicazioni. Visita che si tradusse in un’interessante esperienza, visto che ebbi modo di constatare come la formazione degli studenti venisse affidata a intense attività di laboratorio, cosa che dovrebbe accadere in ogni Facoltà di Architettura. Progettare, progettare, innanzi tutto progettare.

In quell’Accademia, gli insegnanti di progettazione e pianificazione vengono tutti dal mondo professionale, ossia sono attivi – alcuni ad altissimi livelli – nel campo di battaglia dell’esercizio lavorativo. Questa non banale componente garantisce gli studenti nell’apprendimento reale della professione. Diversamente, in Italia la squadra di docenti di progettazione e pianificazione non sempre proviene dal quotidiano scontro con l’esercizio professionale, con la mutazione delle leggi (che qui è disastrosa), con le sconcertanti interlocuzioni con gli inadeguati Uffici Tecnici, eccetera. E troppo spesso i docenti non trasmettono ai discenti le dovute competenze (quelle competenze che non possono apprendersi solo attraverso i libri). Senza contare le inesperienze delle schiere di collaboratori, impropriamente chiamati assistenti, la gran parte dei quali altro non è che personale senza stipendio e appena laureato (talvolta addirittura in corso di laurea) o, bene che vada, in attesa di conseguire il dottorato.

Eppure, questi individui – a qualsiasi livello – sono chiamati (e si fanno chiamare) professori.

Mettiamo un po’ d’ordine. Il mondo accademico posiziona gli insegnati, vincitori di concorso, su tre livelli: i ricercatori, gli associati e i professori. Tralascio l’analisi della differenza tra professore ordinario e professore straordinario, sulla qual cosa pure ci sarebbe da dire. E tralascio i contrattualizzati, altro ampio tema.

Ritornando ai vincitori di concorso per i tre gradi dell’insegnamento universitario, il professore, quello vero, è titolare di cattedra. Non è dunque corretto attribuire la stessa qualifica a ricercatori e associati. Chi – tra questi ultimi – non riesce a reprimere tale inquieto desiderio, dovrebbe perlomeno avere il buonsenso di attribuirsi il grado di professore-associato professore di seconda fascia. Ciò non avviene. Lo spasmodico anelito a gloriarsi del massimo ruolo universitario non risparmia quasi nessuno e, nello specifico caso, tacere parte del titolo è un buon metodo per fuggire il problema. E non risparmia neppure le Istituzioni Universitarie: basti consultarne i siti.

Quando andai in Svizzera, entrando nell’Accademia, mi imbattei in una gentile signora che occupava un ruolo di rilievo all’interno dell’Istituzione. Mi rivolsi a lei chiamandola dottoressa. Molto cortesemente e coscienziosamente, mi rispose non sono dottoressa, sono architetto. Non posseggo un dottorato di ricerca. Eccoci dinanzi a un altro grande equivoco, tutto italiano.

Il conseguimento del titolo di dottore di ricerca appartiene all’alta formazione post universitaria. Sarebbe giusto, dunque, attribuire la qualifica di dottore architetto, dottore ingegnere, e via dicendo, solo a chi effettivamente lo è. E invece, quante volte capita il contrario? Quale responsabilità hanno le nostre associazioni di settore? Mi chiedo: ma non si ritiene sufficiente essere architetti?

Insomma, confusioni di ruoli, attribuzioni illecite, egocentrismi e insoddisfazioni: è questo il nostro Paese?

Già, d’altro canto non è forse l’Italia dei “geometri architetti” e dei “geometri ingegneri”? Una volta, un tizio si rivolse a me per una progettazione. Mi chiamava geometra. Chiarii che ero un architetto. Lui, sorpreso e perfino indignato, mi rispose: ma come, lei non è geometra?

Tant’è.

Architettura Violata

Ecco che ritorna il tema della violazione dell’architettura. E naturalmente il contesto di riferimento è l’Italia.

Da dove partire? Dall’affermazione, ormai nota, secondo cui Quella degli architetti è la categoria più infetta. Meglio l’Italia dei geometri? Francamente non so neppure se ne vale la pena. Ma è uno stimolo, in qualche misura, per affrontare temi molto interessanti.

In Italia, dal dopoguerra ad oggi, l’impeto di azioni edilizie sconsiderate è stato devastante. Si stima, per difetto, che la produzione dovuta ai geometri copra almeno l’ottanta/novanta per cento della complessiva. Ciò significa che le distruzioni dei paesaggi, cui si assiste in ogni luogo (specie nel Mezzogiorno), non è dovuta agli architetti. E questo è un dato di fatto.

Colpa dei geometri? Non credo. D’altro canto, ognuno produce ciò che gli deriva da capacità e formazione. La vera responsabilità è dovuta a un sistema legislativo e amministrativo incoerente, superficiale e corrotto. Un sistema che non tiene conto degli aspetti formativi, né di quelli relazionati alle capacità personali. Così, un geometra è titolato a fare ciò che, per competenza, spetterebbe agli architetti e agli ingegneri (ognuno per le proprie specifiche professionali). Tant’è che gli Ordini Professionali degli Architetti e degli Ingegneri, riuniti, hanno avanzato una causa nei confronti del potentissimo (dato il numero di iscritti) Collegio dei Geometri. Ed è stato necessario giungere in Cassazione. La Corte si è pronunciata sul tema nel 2009, chiarendo i limiti delle competenze dei geometri e sancendo il divieto di subordinazione dei tecnici laureati da quelli non laureati. Cosa che avrebbe dovuto tempestivamente produrre effetti amministrativi nelle PP.AA., come l’immediata sostituzione dei geometri negli Uffici Tecnici a vantaggio di tecnici laureati. Ovviamente ciò non è accaduto.

Ritengo che il mestiere di geometra sia lodevole, ma – come per ogni mestiere – limitatamente alla sfera di azione delle competenze specifiche. Ritengo che il mestiere dell’architetto conservi, per percorso formativo, delle prerogative che non possono essere scavalcate.

Chi ritiene che quella degli architetti sia la categoria più infetta, senza analizzare quale derivazione abbia lo scempio del paesaggio italiano, parla senza fondamento. E semmai l’affermazione fosse riferita al tentativo, purtroppo ancora timido, che l’Italia sta facendo nell’avvicinarsi all’innovazione architettonica contemporanea, beh, allora siamo di fronte a un’incapacità evidente di comprendere i processi evolutivi internazionali. È una chiusura nei confronti della ricerca appassionata, quel genere di ricerca che ha prodotto l’alternanza delle fasi storiche dell’architettura, che ha dato forma anche al lodevole passato, che ne ha consentito il progresso.

Ma l’Italia, che nei tempi andati è stata maestra, oggi subisce la sua magnificenza storica. Questione che ho già affrontato in altri articoli: Un problema di cultura, Architettura contraddetta, Uno stadio per Roma, eccetera. L’agonizzante senso di malinconia produce poca reazione e troppa emulazione. La visione del futuro è contratta e alterata, il passo è debole.

Disturba che voci così stonate giungano da chi ha un rapporto privilegiato con l’arte (perlomeno, con certe arti). Ma non importa. È evidente che si tratta di considerazioni fondate su elegiaci appigli ai tempi che furono. O, più semplicemente, di provocazioni a cui non bisogna prestare il fianco. Dispiace soltanto che l’eco possa ingigantirne il peso e rallentare ancor più i processi evolutivi dell’architettura italiana. Già – e più volte – abbiamo ascoltato pensieri preoccupanti, giunti tramite i media da esponenti elevati di diverse discipline. La responsabilità che ne deriva è grande e dovrebbe pesare come un macigno su chi si fa portavoce di certe affermazioni.

D’altro canto l’architettura non è per tutti, sebbene sia di ognuno. E certamente non può essere di coloro che non affidano alla sperimentazione formale, all’innovazione, il valore inestimabile della crescita culturale.

Nuovi materiali per rivestimenti

I materiali per rivestimenti di nuova generazione non si discostano molto da quelli per le pavimentazioni (Rif. Articolo Nuovi Materiali per pavimentazioni).

A scanso di ogni equivoco, voglio chiarire che quando parlo di nuovi materiali mi riferisco esclusivamente a quelli che posseggono innovazione sia di risultato che di processo. A titolo esemplificativo, intendo dire che le innovazioni introdotte nel processo produttivo delle ceramiche per piastrellature, mirate al miglioramento di proprietà intrinseche del prodotto (qualità, durevolezza, eccetera), il cui risultato visivo non si discosta considerevolmente da quello tradizionale (o addirittura mira alla simulazione di altri materiali come il cotto, il parquet, il marmo), non sono qui considerate. L’innovazione, quella vera, dal mio punto di vista è massificante. D’altro canto e per un architetto, il risultato visivo – vale a dire l’estetica – non può essere relegata né alla finzione, né alla ripetizione.

Anche per i rivestimenti, ciò su cui voglio soffermarmi è l’impiego delle resine, del microcemento e – ancora timidamente – della ceramica liquida.

L’impiego della resina, utilizzata da maggior tempo rispetto ai microcementi, richiede alcune attenzioni. Difatti, benché sia un prodotto molto interessante, è spesso abusato in modo piuttosto pacchiano. Sarà capitato a tutti di vedere negozi, uffici, ambienti domestici dove la resina sprigiona irrazionali risultati estetici. Andrebbe, io credo, messo un po’ d’ordine, evitando eccessive stranezze la cui percezione finale riconduce al chiasso e non al fascino. Anche per le resine, particolarmente interessanti sono gli ambienti interamente rivestiti: in questo caso si parla esclusivamente di bagni e cucine, data la proprietà di schermo alla traspirazione del prodotto, qualità pericolosa per altre ambientazioni. E va ricordato che anche lavelli, vasche da bagno, vani doccia possono essere trattati in egual misura.

Trovo che un vano completamente rivestito in microcemento, inclusa la pavimentazione, possegga grande fascino. Naturalmente mi riferisco ad ambienti che vanno studiati da un architetto o da un designer, ai quali conferire una certa dose di innovazione progettuale. Interessante è l’utilizzo del microcemento abbinato ai cristalli per partizioni interne e per altri accorgimenti, evitando di appesantire gli ambienti con eccessivi oggetti di arredamento. Suggerirei esclusivamente (ed eventualmente) qualche pezzo di design. Per queste scelte, sono privilegiate le stanze da bagno e le cucine, ma anche altri locali di tendenza inseriti in contesti adeguati. Il microcemento è più intenso e affascinante se non alterato nel colore oppure, in alcuni casi, addizionato di coloranti tendenti al tortora. Anche rivestire vasche da bagno, lavelli, vani doccia è possibile, purché si adottino corretti accorgimenti per la finitura protettiva.

Propongo di esaminare un’immagine sul sito che si trova al link http://todosobreelmicrocemento.blogspot.it,. Mostra un ambiente moderno trattato con microcemento sia nella pavimentazione che nei rivestimenti. Trovo che sia incantevole.

Una nota interessante riguarda l’utilizzo della ceramica liquida per i rivestimenti. Qui si cede inevitabilmente al campo dell’arte pittorica e di quella scultorea, visto che il prodotto è il medesimo (da distinguere da quello per pavimentazioni). Vale a dire che l’idea di rivestire interamente un vano – o una parete – di ceramica liquida è ancora improponibile. Ne risulterebbero, in breve tempo, fratture capillari occasionali e molteplici. Quello che è possibile fare, invece, è decorare le pareti per parti limitate e proteggere l’insieme con finiture resinoso/vitree. Soltanto artisti veri saprebbero ottenere risultati soddisfacenti. Attenzione, dunque, alle improvvisazioni. Il rischio è elevato.

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