Elodia Rossi

IL PROTOCOLLO DI KYOTO

Tanto per tornare sul tema di quella che io sospetto essere una distorsione collettiva e planetaria sul surriscaldamento globale, sintetizzo i contenuti del Protocollo di Kyoto.

Il Protocollo di Kyoto, ratificato dall’Italia nel 2002 con la Legge 120, è direttamente collegato alla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite ed è entrato in vigore il 16 febbraio del 2005 (novanta giorni dopo l’adesione della preordinata quota parte di Paesi).

I contenuti si riferiscono al controllo delle emissioni di sei gas a effetto serra, come dispone la Convenzione Quadro all’articolo 2 e con le modalità indicate nell’articolo 3. I gas serra segnalati per il controllo sono: il biossido di carbonio (CO2), il metano (CH4), il protossido di azoto (N2O), gli idrofluorocarburi (HFC), i perfluorocarburi (PFC), l’esafluoro di zolfo (SF6).

In sintesi estrema, il rispetto del Protocollo prevede che gli Stati firmatari si siano impegnati a ridurre le emissioni di gas a effetto serra di almeno il 5% rispetto ai livelli del 1990 nel periodo 2008-2012. Ulteriore impegno degli Stati membri dell’Unione è stato quello di ridurre collettivamente le loro emissioni dell’8% tra il 2008 e il 2012.

Per il periodo anteriore al 2008, poi, le parti si sono impegnate a compiere progressi e a fornirne le prove entro il 2005.

In successivi articoli vedremo se ciò è accaduto. E lo vedremo con metodo, utilizzando indicatori di risultato.

Proseguo con una sintetica carrellata dei contenuti rilevanti di ogni articolo.

L’articolo 1 del Protocollo di Kyoto riguarda le definizioni. Segnalo la n. 3 che definisce il Gruppo Intergovernativo di Esperti sul Cambiamento Climatico, facendolo coincidere con il Gruppo Intergovernativo di Esperti sul Cambiamento Climatico costituito congiuntamente dalla Organizzazione Meteorologica Mondiale ed il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, nel 1988.

Segnalo inoltre che la definizione numero 4 richiama il Protocollo di Montreal del 1987. A questo punto bisogna ricordare che Il 15 ottobre 2016 in Ruanda, in occasione della ventottesima Riunione delle Parti, i 197 Paesi firmatari del Protocollo di Montreal hanno approvato un emendamento mirato all’eliminazione progressiva della produzione e dell’utilizzo degli idrofluorocarburi (HFC). L’uso degli HFC era stato introdotto, a seguito dell’adozione del protocollo di Montréal nel 1987, in sostituzione dei clorofluorocarburi, principali responsabili della distruzione dello strato di ozono. Successivamente però si è giunti alla determinazione secondo cui gli HFC, pur non essendo sostanze ozono-lesive, sono potenti gas serra che incidono negativamente sull’ambiente, raggiungendo un danno migliaia di volte maggiore rispetto all’anidride carbonica. Non è questo inquietante? Perché si firma un Protocollo internazionale che fonda su basi evidentemente incerte?

L’articolo 2 elenca le misure e le politiche che ogni Paese (o gruppo di Paesi) dovrebbe applicare per mitigare l’effetto serra. Si ritrovano qui temi come le energie rinnovabili, l’agricoltura cosiddetta sostenibile, la gestione forestale, il rimboschimento, oltre ad aspetti riguardanti temi economici e gestione di servizi (rifiuti, trasporti, eccetera). Ciò, guarda caso, al fine di combattere i cambiamenti climatici. Naturalmente, nessun riferimento esplicito (direi neppure implicito) agli allevamenti intensivi.

L’articolo 3, con riferimento agli allegati A (contenente l’elenco dei gas e effetto serra) e B (contenente i limiti quantitativi non superabili derivati dagli impegni assunti da ogni Paese) del Protocollo, dispone, come precedentemente accennato, che gli Stati firmatari riducano le emissioni di almeno il 5% rispetto ai livelli del 1990 nel periodo 2008-2012 e gli Stati membri dell’Unione le riducano collettivamente dell’8% tra il 2008 e il 2012. Dispone inoltre il momento di verifica delle azioni al 2005. Seguono poi disposizioni di carattere economico-amministrativo-gestionale sulle quali sorvolo.

L’articolo 4 tratta il tema dell’adempienza dei Paesi, in dipendenza dei risultati da conseguire e regola alcuni degli accordi tra le parti.

L’articolo 5 dispone, tra l’altro, che ogni Parte … realizzerà, non più tardi di un anno prima dell’inizio del primo periodo di adempimento, un sistema nazionale per la stima delle emissioni antropiche dalle fonti e dall’assorbimento dei pozzi di tutti i gas a effetto serra non inclusi nel Protocollo di Montreal. La Conferenza delle Parti agente come riunione delle Parti del presente Protocollo deciderà, nella sua prima sessione, le linee guida di tali sistemi nazionali…

Indica inoltre le modalità con cui devono realizzarsi i sistemi di stima, fatta salva l’accettazione da parte del Gruppo Intergovernativo di Esperti sul Cambiamento Climatico.

L’articolo 6 e il 7 trattano delle modalità con cui adempiere agli impegni dettati dall’articolo 3, soprattutto in merito all’acquisizione e la cessione di unità di riduzione tra Paesi, oltre che del ruolo della Conferenza delle Parti.

L’articolo 8 tratta il sistema del controllo dell’operato dei Paesi, da effettuarsi tramite un gruppo di esperti coordinati dal Segretariato, soprattutto secondo un approccio gestionale-amministrativo: verifica della compilazione annuale degl’inventari, revisione delle comunicazioni nazionali, eccetera. Approfondisce inoltre il ruolo della Conferenza delle Parti, introducendo altri soggetti (Organo Sussidiario di Attuazione, Organo Sussidiario del Consiglio Scientifico e Tecnologico).

L’articolo 9 mette il punto sull’esame periodico del Protocollo alla luce delle migliori informazioni scientifiche disponibili e degli studi di valutazione sul cambiamento climatico ed il loro impatto come pure delle pertinenti informazioni tecniche, sociali ed economiche.

L’articolo 10 indica la necessità di formulare e aggiornare regolarmente i programmi nazionali che i Paesi sono chiamati a redigere. Sottolinea che tali programmi dovrebbero riguardare, tra l’altro, i settori energetico, dei trasporti e dell’industria come pure l’agricoltura, la silvicoltura e la gestione dei rifiuti. Introduce poi i temi delle tecnologie di adattamento e dei metodi di pianificazione territoriale, quali elementi in grado di produrre un più snello adattamento ai cambiamenti climatici. Sostiene l’idea della cooperazione tra Paesi per la diffusione di tecniche e tecnologie innovative, per l’avanzamento condiviso della ricerca scientifica (mirata, in modo particolare, alla promozione di sistemi di osservazione e alla costituzione di archivi di dati, oltre che per l’esecuzione di programmi educativi e formativi sia sul piano istituzionale che su quello generale).

L’articolo 11 dispone le modalità di attuazione riguardanti l’articolo 10 e il 4, facendo peraltro riferimento a l’entità o le entità incaricate di assicurare il meccanismo finanziario della Convenzione, i paesi sviluppati Parti della Convenzione e le altre Parti sviluppate incluse nell’Allegato II della Convenzione. Dipana poi alcune disposizioni in merito alle modalità d’azione di questa o queste entità e in merito a scambi di risorse economiche tra Paesi. Francamente fumoso appare il tema della o delle entità. Certamente introduce, di contro, un elemento che avrebbe portato, di lì a venire, alla costituzione di ulteriori comitati o similari.

L’articolo 12 istituisce quello che viene chiamato meccanismo per uno sviluppo pulito. Ovviamente si tratta di altro comitato (o similare). Al di là della terminologia piuttosto vaga, al meccanismo vengono dati compiti specifici, tra cui l’essere soggetto all’autorità e alle direttive della Conferenza delle Parti agente come riunione delle Parti del Protocollo e alla supervisione di un comitato esecutivo. Vengono poi introdotti altri enti operativi, sempre designati dalla Conferenza delle parti. Abbastanza contorto nell’articolazione dei compiti, ma chiaro nel definire ruoli di spessore.

Gli articoli 13, 16, 17 e 18 stabiliscono il ruolo della Conferenza delle Parti, quale organo supremo della Convenzione, le sue modalità d’azione, oltre il rapporto tra essa e gli osservatori, quali soggetti deputati dagli Stati ad essere rappresentati.

L’articolo 14 stabilisce il ruolo del Segretariato, in riferimento all’articolo 8, mentre l’articolo 19 ratifica il 14.

L’articolo 15, quello dell’Organo Sussidiario del Consiglio Scientifico e Tecnologico e dell’organo Sussidiario di Attuazione, in riferimento agli articoli 9 e 10.

L’articolo 20 si concentra sui ruoli e sui compiti delle Parti, introducendo il ruolo di una differente figura (o comitato): il Depositario.

L’articolo 21 consiste in disposizioni varie e di rito, sia riguardo gli Allegati al Protocollo, sia riguardo eventuali Emendamenti.

Gli articolo 22-28, conclusivi, concernono disposizioni varie: entrate in vigore, depostiti, tempistiche, eccetera.

E questo è quanto.

Già, parrebbe una considerazione finale piuttosto strana, ma non è tale se si relaziona questo articolo ai precedenti (e a quelli che verranno) contenuti nella stessa sezione (geografia/ambiente) di questo blog. Il mio obiettivo è ricercare elementi di aleatorietà dei grandi trattati sull’ambiente e, in particolare, sui cambiamenti climatici. Ritengo di averne trovati già molti, fin dall’inconsistenza (di cui ho più volte parlato) del fondamento scientifico che, come insegnano menti eccelse, scientifico non è.

(La foto riportata in alto è del 2014, da me scattata da una finestra della sede delle Nazioni Unite a New York)

CONVENZIONE DELLE N.U. SUI CAMBIAMENTI CLIMATICI

LA CONVENZIONE QUADRO DELLE N.U. SUI CAMBIAMENTI CLIMATICI E LE INCERTEZZE DELLE PREVISIONI SUL CLIMA

Convenzione siglata a New York, alla data del 9 maggio 1992 (anno in cui la CEE emanava la Normativa Habitat che mi piace citare perché, a mio avviso, più equa e concreta riguardo gli ecosistemi).

A mio giudizio, fra tutte le Convenzioni, questa possiede un grado di approfondimento maggiore sulle tematiche ambientali. Tuttavia – e credo sia già chiaro il mio punto di vista – ritengo che manchi del fondamento scientifico sul quale sono imperniate le programmazioni (ossia, criteri e indicatori per la misurabilità della componente dei cambiamenti climatici derivati dall’azione antropica), oltre l’essere permeata di una forma di <antropomorfismo> che poco giova agli equilibri naturali, di cui l’uomo è parte paritaria alle altre. Inoltre, c’è da domandarsi ancora una volta: è possibile, secondo quanto emerge dagli studi degli scienziati, esercitare azioni di controllo sul clima? Interrogativo che ho trattato, tra l’altro, nell’Articolo La voce della Scienza (https://www.elodiarossi.it/la-voce-della-scienza/), riportando le opinioni di alcuni grandi studiosi.

Qui mi limito ad esporre, seppur brevemente, i principi su cui è fondata la Convenzione e il suo obiettivo generale, al solo scopo di fornire un quadro di riferimento efficace allo sviluppo dei miei studi (da cui derivano le mie posizioni) raccolti in diversi articoli di questo blog. Non tratterò quindi le metodologie, le determinazioni, né alcun altro contenuto, mancando – a mio avviso e come già detto – il fondamento scientifico di supporto all’intero documento.

Il Preambolo della Convenzione è ricco di spunti e di moniti. Particolarmente interessante è la disposizione secondo cui gli Stati devono adottare un’efficace normativa ambientale e (…) le norme ambientali, gli obiettivi e le priorità di gestione devono riflettere lo stato dell’ambiente e dello sviluppo al quale si applicano, e (…) le norme applicate da alcuni Paesi possono essere inadeguate e possono comportare ingiustificati costi economici e sociali nel caso di altri Paesi, in particolare nei Paesi in sviluppo. Disposizione questa che risulta adeguata se scissa dal contesto generale della Convenzione: l’adozione di una corretta politica ambientale è un dovere di ogni Stato, indipendentemente dal tema – complesso e ancora confuso – del governo climatico.

Altrettanto interessante, forse proprio perché pone implicitamente l’accento sull’inadeguatezza conoscitiva, è il punto in cui si riconosce che le iniziative necessarie per comprendere e fronteggiare i cambiamenti climatici sono più efficaci sul piano ambientale, economico e sociale, se sono basate su pertinenti considerazioni scientifiche, tecniche ed economiche e se sono costantemente riesaminate alla luce dei nuovi risultati raggiunti in questi campi. Eppure è proprio questa incertezza conoscitiva (se vi fossero certezze, perché perseguire nuovi risultati?) che poi guida l’intera Convenzione, traducendosi sorprendentemente in assioma nel proseguo della trattazione. Come si può governare ciò che non si conosce o si conosce solo in parte?

Il punto su cui, all’interno di questa breve esamina, voglio soffermarmi maggiormente è quello che espone l’obiettivo della Convenzione (Art. 2 Obiettivo). Ecco il testo:

L’obiettivo ultimo della presente Convenzione e di tutti i relativi strumenti giuridici che la Conferenza delle Parti può adottare è di stabilizzare, in conformità delle pertinenti disposizioni della Convenzione, le concentrazioni di gas ad effetto serra nell’atmosfera a un livello tale che sia esclusa qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sul sistema climatico. Tale livello deve essere raggiunto entro un periodo di tempo sufficiente per permettere agli ecosistemi di adattarsi naturalmente a cambiamenti di clima e per garantire che la produzione alimentare non sia minacciata e lo sviluppo economico possa continuare ad un ritmo sostenibile.

Dunque stabilizzare (…) le concentrazioni di gas ad effetto serra nell’atmosfera… E fin qui, nulla da opinare, visto che si tratterebbe di un ottimo proposito, anche se avrei preferito la sostituzione del verbo stabilizzare con la locuzione ridurre al massimo. Purtroppo c’è il seguito della frase, secondo cui la stabilizzazione delle concentrazioni di gas a effetto serra deve giungere …a un livello tale che sia esclusa qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sul sistema climatico. Qui si entra nel mistero, perché se è vero quanto affermato da alcuni studiosi e scienziati (Rif. Art. La voce della Scienza) che la climatologia possiede una componente enorme di imprevedibilità finanche a breve termine, ne deriverebbe l’impossibilità di misurazione delle interferenze tra clima e attività umane. Resta valido il proposito ma, forse, avrebbe avuto più consistenza se fosse stato enunciato in maniera differente. Ad esempio e a mio avviso, una possibile enunciazione avrebbe potuto essere questa: ridurre al massimo le concentrazioni di gas ad effetto serra nell’atmosfera, in maniera da contrarre qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sull’equilibrio degli ecosistemi. Personalmente dunque, avrei puntato il dito più sulle interferenze tra attività umane e inquinamento (da cui discendono alcuni dei disequilibri degli ecosistemi), che non invece tra attività umane e cambiamenti climatici (campo, lo ripeto fino alla noia, ancora molto discusso e, per ampi versi, ignoto).

Andando avanti, l’obiettivo cita …Tale livello deve essere raggiunto entro un periodo di tempo sufficiente per permettere agli ecosistemi di adattarsi naturalmente a cambiamenti di clima e per garantire che la produzione alimentare non sia minacciata e lo sviluppo economico possa continuare ad un ritmo sostenibile. L’adattamento degli ecosistemi ai cambiamenti climatici, al di là dell’interferenza umana, rappresenta un evento naturale, anche quando la composizione stessa degli ecosistemi viene a modificarsi. Le mutazioni intervenute nei Secoli ne sono una valida conferma. Ragion per cui parrebbe una forzatura – peraltro di indubbia misurazione – quella di relazionare l’adattamento degli ecosistemi alla riduzione delle concentrazioni di gas serra derivate dalle attività umane. Mancherebbero indicatori fondamentali di misurazione. Quanto le modificazioni di un ecosistema possono attribuirsi all’evoluzione naturale e quanto invece alle interferenze umane? In che misura la produzione di gas serra deriva dal cambiamento climatico (nella componente che riguarda l’evoluzione naturale del sistema Terra) e in che misura invece è imputabile all’azione umana?

Vengo al punto più dolente, a mio giudizio: perché orientare l’obiettivo ai temi del garantire la produzione alimentare e lo sviluppo economico? Non potrebbe risultare più coerente, equo e rispettoso dell’ambiente complessivo (di cui l’uomo è parte) il garantire al massimo la contrazione dei danni umani sul sistema Terra? Ne sono più che convinta, ritenendo che uno dei maggiori problemi ambientali – e, di conseguenza, legati alla distruzione degli ecosistemi – sia relazionato proprio ad un tipo di sistema alimentare umano (Rif. Articolo Città, effetto serra e allevamenti intensivi – https://www.elodiarossi.it/effetto-serra-allevamenti-intensivi-e-bisogni-effimeri-urbani/) in stretta connessione con l’economia che produce (economia sporca, perché settoriale, mai adeguatamente relazionata al derivato danno ambientale che, esso stesso, genera diseconomia). Bisognerebbe invece valutare il grave danno economico che origina questo genere di pratica; bisognerebbe comprendere e divulgare scientemente il significato di economia ambientale (con tutti gli indicatori di misurazione e di risultato disponibili) e i valori che ne sono di corollario, per capire quale entità di danno provoca la pratica degli allevamenti intensivi e, a seguire, quella di altre tecniche produttive alimentari.

Infine, l’enunciazione dell’obiettivo della Convenzione richiama il tema dello sviluppo sostenibile (poi ribadito nel corso della trattazione, come nel caso dell’Art.3, comma 2). Qui ritorna l’infondatezza del concetto di sostenibilità, come argomentato nell’Articolo L’inganno della sostenibilità (https://www.elodiarossi.it/linganno-della-sostenibilita/).

Facendo un seppur breve passo indietro, desidero richiamare due commi dell’Art. 1 della Convenzione. È l’articolo che tratta delle definizioni, sancendo la terminologia utilizzata nel corso dell’esposizione. Ecco il testo dei due commi e, a seguire ognuno, il mio commento/parere:

  1. «effetti negativi dei cambiamenti climatici»: i cambiamenti dell’ambiente fisico o della vita animale e vegetale dovuti a cambiamenti climatici, che hanno rilevanti effetti deleteri per la composizione, la capacità di recupero o la produttività di ecosistemi naturali e gestiti per il funzionamento dei sistemi socioeconomici oppure per la sanità e il benessere del genere umano;

Qui non mi dilungo molto, avendo già detto riguardo le relazioni (non misurabili scientificamente) tra cambiamenti climatici e mutazioni degli ecosistemi. Dunque varrebbe indagare con quali strumenti e criteri dovrebbero essere valutati gli effetti negativi dei cambiamenti climatici. In più, non posso non ribadire, con incrementale disappunto, l’esistenza di un’imprudente relazione indotta tra salute degli ecosistemi e il benessere dei sistemi (socio-)economici. Perché è altamente pericolosa, per la sopravvivenza del Pianeta, la strumentalizzazione degli ecosistemi a fini esclusivamente umani. Ed è pericolosa finanche per l’uomo, essendo questo parte degli ecosistemi naturali.

  1. «cambiamenti climatici»: qualsiasi cambiamento di clima attribuito direttamente o indirettamente ad attività umane, il quale altera la composizione dell’atmosfera mondiale e si aggiunge alla variabilità naturale del clima osservata in periodi di tempo comparabili;

Mi limito a far notare che parrebbe perlomeno superficiale identificare i cambiamenti climatici con qualsiasi cambiamento di clima attribuito direttamente o indirettamente ad attività umane (…) che si aggiunge alla variabilità naturale del clima. Scusandomi per la ripetizione dell’interrogativo, chiedo: con quali criteri e indicatori si può stabilire la componente di cambiamento attribuibile alle attività antropiche? Io non l’ho ancora capito.

Città, danno ambientale e allevamenti intensivi

La città, l’ho detto e ripetuto, assorbe il 75% delle risorse planetarie (p.e. Rif. artt. L’inganno della Sostenibilità e L’immenso dramma urbano). Il mostro urbano, in inarrestabile crescita, sta traghettando verso un futuro doloroso. Ed è un dato inconfutabile che questo inquietante traguardo sia dovuto a una sola delle specie: l’uomo.

La città non è pronta al cambiamento che la società odierna ha velocemente imposto, definendo una traiettoria a dir poco devastante. La presunzione politico/amministrativa di internazionalizzare ogni ambito urbano è un coltello nel fianco dell’equilibrio globale. Intanto la Cina si spinge ancora oltre e, derivazione d’un pensiero politico di stampo imperiale, avvia un piano per la costruzione della megalopoli Jing-Jin-Ji, pensata per accogliere oltre 130 milioni di abitanti. Un piano di dominazione del mondo.

In questo momento, ore 16.51 del 19 luglio 2017, nel mondo ben 1.645.284.850 persone sono in forte sovrappeso, altre 628.797.889 sono obese (Fonte WHO – World Health Organization, programma Obesity and overweight), mentre 637.337.162 sono denutrite (Fonte FAO, programma The state of food insecurity in the world). I primi due dati sono in forte aumento, l’ultimo è in lieve decremento.

Sono fenomeni rintracciabili quasi esclusivamente in ambienti urbani, a differenza di aree meno urbanizzate dove la forbice tra miseria e opulenza va a ridursi.

Le esigenze largamente effimere delle aree urbane richiamano sprechi devastanti di risorse. Tra questi, il consumo smodato di carne che, secondo la FAO è destinato a crescere del 73% entro il 2050, nonostante i moniti dell’OMS sul pericolo derivato e sulle relazioni accertate tra consumo di carne e sviluppo del cancro. Di pari passo viaggia ovviamente l’incremento degli allevamenti intensivi che, già oggi, occupano il 25% della superficie terrestre. Dati allarmanti, questi. Come allarmante è la consapevolezza che l’uomo non si renda conto dell’insostenibilità della strada che percorre il proprio avanzare verso la distruzione.

Pressappoco alla stessa ora di oggi, ben 6.023.305.990 milioni di litri di acqua sono stati consumati dall’inizio dell’anno (Fonti: Global Water Outlook to 2025 – International Food Policy Research Institute – IFPRI e International Water Management Institute – IWMI), mentre 602.563.607 persone non hanno accesso all’acqua potabile (Fonte: World Health Organization – WHO, programma Water Sanitation and Health -WSH).

Per la produzione di un kg di carne bovina, negli allevamenti intensivi, sono necessari 15.000 litri di acqua (un kg di vegetali richiede l’impiego medio di 1.000 litri). Un terzo delle risorse idriche planetarie viene impiegato per gli allevamenti intensivi e il 70% dei cereali prodotti è destinato a questo drammatico e dannoso meccanismo alimentare, con ripercussioni enormi sui più deboli e poveri.

La FAO informa sulla produzione di ammoniaca delle deiezioni liquide derivate dagli allevamenti intensivi che inquinano le falde acquifere e dai vaccini, dagli ormoni e dagli antibiotici che, utilizzati massicciamente per garantire la seppur breve sopravvivenza agli animali in condizioni di stress insopportabile, si riversano nel ciclo ambientale, organico e dei rifiuti. Gas che provocano imprevedibili ripercussioni sugli ecosistemi naturali.

Quali conseguenze? Eccone alcune:  innalzamento del livello del mare, massiccia deforestazione per fini di pascolo (e di edilizia) con alterazione dei processi di fotosintesi, insano consumo del suolo, desertificazione di vaste aree (il 20% della superficie terrestre è desertificata in conseguenza degli allevamenti), dissesti ambientali, acidificazione degli oceani.

Il metano deriva dalla fermentazione dovuta ai processi digestivi degli animali (il numero di capi artificialmente prodotto, con pesante alterazione delle nascite naturali, e la concentrazione in alcuni ambienti, generalmente insani per l’impossibilità di mantenimenti di igiene adeguata) e dall’evaporazione delle deiezioni, la trasformazione degli escrementi produce protossido di azoto, la filiera della carne richiede combustioni altamente inquinanti. Gli allevamenti intensivi per la produzione di carne rappresentano la più pericolosa delle pratiche umane. E perché non considerare anche l’enorme e devastante contributo che questa pratica offre alla deforestazione per via della sua espansione?

Il Dossier Livestock’s long shadow (per dirla in italiano: l’ombra oscura degli allevamenti intensivi) della FAO, risalente addirittura al 2006 sostiene, tra l’altro, la necessità della drastica riduzione degli allevamenti intensivi e il consumo di prodotti di origine animale.

E tutto questo senza aver neppure sfiorato il tema della sofferenza di esseri sensienti, sulla qual cosa pure ci sarebbe da dire. Anzi, ci sarebbe da dire molto, molto di più.

Basterebbe un po’ di buon senso, una presa di coscienza verso la consapevolezza di cui ho spesso accennato: la vita sul Pianeta è regolata da leggi naturali che non possono essere trascurate. La città chiede troppo, l’effimero governa e il danno è incontenibile.

Mi sono sempre detta: qualcuno, qualche collega progetterà pure questi luoghi di distruzione e sofferenza. Varrebbe la pena rifletterci su’, evitando di contribuire al massacro.

L’inganno della sostenibilità

È il 1987. La WCED (Commissione Mondiale Ambiente e Sviluppo) è coordinata da Gro Harlem Brundtland, una donna norvegese, capace, motivata e impegnata in battaglie ambientaliste. È lei a commissionare il Rapporto che prenderà il suo nome. E certamente le sue intenzioni sono oneste.

Ed è ancora lei, attraverso il medesimo Rapporto Brundtland, a consegnare un concetto di sostenibilità secondo cui:

lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri

“Un concetto” che presto diventa “il concetto”. Sedi del potere, Università, scuole di qualsiasi livello e grado, Associazioni, Fondazioni, Onlus, nicchie culturali, pensatori aperti, geografi, stampa, televisioni, eccetera eccetera, tutti convinti di avere tra le mani la soluzione per il comune futuro.

Da troppi professori (e dai presunti tali) ho sentito enunciare questo principio, trasferirlo agli studenti, obbligare gli studenti a farlo proprio come fosse un assioma matematico. Troppi testi di studio lo propongono in questa modalità. Slogan puro e spiegazioni poche. Ma chissà quanti hanno realmente letto il Rapporto Brundtland per intero. Pochi direi, altrimenti l’idea dell’assioma – perlomeno in una certa direzione – avrebbe perso significato.

Difatti all’interno del Rapporto questo concetto dimostra essere più vicino alla speranza, al monito, che alla certezza. E ciò, nonostante un certo grado di incomprensibile (almeno dal mio punto di vista) ottimismo, particolarmente relazionato al convincimento che la tecnologia avrebbe provocato un tale straordinario cambiamento, del tutto favorevole al sistema ambientale complessivo, conducendo verso un differente e più equo sviluppo economico. Non è così. Non è stato così e non sarà, purtroppo, così.

Ma qual è la realtà?

Nella serie Spazi e Luoghi dell’Architettura (voce del blog Architettura, sub-voce Quaderni) ho spesso affrontato il tema del disastro ambientale. Nell’articolo N. 7 della serie ho raccolto dati ufficiali su alcune delle più importanti cause di devastazione della Terra. In appena trentacinque giorni, dal 4 aprile al 9 maggio 2017, è accaduto questo:

Nel mondo, 1.830.834 ha di foreste sono state distrutte e 2.464.802 ha di terra coltivabile è stata erosa (Fonte: FAO). La desertificazione ha raggiuto la soglia di 4.224.589 ha (Fonte: UN). L’emissione di CO2 si attesta a 13,42 miliardi di tonnellate (Fonte: IEA). Le sostanze tossiche rilasciate nell’ambiente misurano 3.447.427 tonnellate (Fonte: UN).

Sono trascorsi solo trent’anni dalla data di emissione del Rapporto Brundtland. E dico solo perché mi è difficile credere che nel 1987 i redattori del Rapporto non avessero chiaro il problema – benché forse meno incisivo di oggi – di cosa stesse realmente avvenendo, di quale danno catastrofico si stesse macchiando l’umanità.

Il processo di cambiamento secondo cui lo sfruttamento delle risorse, l’orientamento degli investimenti, l’indirizzo dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con gli attuali, come immaginato dal Rapporto, non ha fondamenta. Basti riflettere sul tema dell’esauribilità di alcune risorse.

Foto di Kalman Kovats

Dal 1987 a oggi le fonti inquinanti sono aumentate vertiginosamente, si sono moltiplicati gli allevamenti intensivi (immorale attività e principale causa dell’effetto serra), le emissioni nell’aria di PM10 (e di altri infestanti) crescono a dismisura. E poi l’erosione delle terre, il prosciugamento delle falde acquifere, la desertificazione e la conseguente estinzione di specie animali (oltre al tema etico, che per me ha privilegio, dovremmo tenere presente che noi esistiamo perché esistono loro, nel rispetto delle regole naturali che si chiamano ecosistemi). E poi l’esponenziale crescita delle conurbazioni che, come ho detto in altri articoli, assorbono il 75% delle risorse planetarie. E poi l’iniqua ripartizione della ricchezza che, data la forbice ormai raggiunta, sembra mollare uno schiaffo allo stesso Rapporto Brundtland laddove asserisce che, adottando alcune misure, si può giungere a una più coerente distribuzione economica perfino ai livelli nazionali.

Tutti temi su cui ritornerò, uno ad uno, per dimostrare quali responsabilità abbia la città odierna, quali futilità collettive degli spazi urbani producano devastazione, morte e guerra.

Allora chiedo: a cosa è servito, quale impulso ha dato il Rapporto per procedere verso un migliore futuro? Come mai se ne continua a parlare, convinti (almeno apparentemente) del grande merito che ha avuto l’acclarato concetto di sostenibilità? Quanti interessi reali sono intravedibili oltre tutto questo fare convegni, pubblicazioni, manifestazioni, insegnamenti?

E chiedo ancora: non sarebbe più giusto iniziare a perseguire concetti di minore insostenibilità, osservando finalmente il mondo dal punto di vista complessivo e non soltanto relazionato all’interesse umano?

Insomma, Our common future: anche così è conosciuto il Rapporto Brundtland. Ma i disastri in cui è immerso il sistema Terra non consentono di intravedere neppure un futuro a lungo termine, figuriamoci quanto provocatorio e menzognero possa essere parlare di aspettativa comune.

A un punto del Rapporto va però dato merito. Quello di aver introdotto l’importanza della partecipazione di tutti ai processi di cambiamento. Proprio per questo, io credo, il vero propulsore alla mitigazione del danno complessivo è da ricercarsi nella generazione di una coscienza collettiva che non può che derivare da una corretta conoscenza.

Sto cercando di dare il mio contributo.

 

N. 9 – Spazi e Luoghi dell’Architettura

Una breve ma intensa carrellata di soluzioni architettoniche del tipo città verde verticale può affidarsi all’analisi delle opere di Vincent Callebaut. Nato in Belgio soltanto 40 anni fa, è già uno dei mostri sacri dell’architettura contemporanea. Vive a lavora a Parigi, è consigliere regionale dell’Ile-de-france, possiede un enorme patrimonio di progetti innovativi affidati a modalità costruttive ecologiche e altamente innovative.

Callebaut interpreta il futuro urbano come un’immersione profonda nella natura più varia. Aria, acqua, terra e fuoco trovano spazio nelle sue ideazioni, senza trascurare però né il ruolo della verticalizzazione, né quello dell’innovazione formale. Movimento o staticità, sinuosità o rigidezza (a seconda dei casi e delle ambientazioni), esplosioni, implosioni, esternazioni inaspettate di una mente in grado di parlare all’Universo.

La coscienza della necessità di un cambiamento di rotta per il divenire urbano si mescola abilmente con il richiamo alla foresta attraverso le più avanzate tecniche e tecnologie. Edifici dalle forme di alti boschi avvicinano i tessuti storici senza alterarne la memoria. La città procede verso il cielo, è autosufficiente, non richiede spazi di suolo circostante da urbanizzare a verde perché è essa stessa verde. Le progettazioni di Callebaut trasmettono questa percezione, austera e difficile per chi non riesce a capire che la verticalizzazione è l’unico appiglio alla vita urbana del futuro.

Agroecologia e sistemi alimentari sostenibili impostati su torri di legno che s’intersecano, in grado di fronteggiare i cambiamenti climatici attraverso sistemi economici e ambientali alternativi, per il progetto Hyperions destinato a New Delh

Foreste verticali autonome, anche energeticamente, a mutare il paesaggio di gare Maritime a Bruxelles, con il progetto Tour & Taxis.

Con edifici a forma di DNA, il progetto Citytrees (anche detto DNA Towers) per Yangzhou (Cina), costituisce un habitat produttivo, generando più energia di quanta necessaria al suo fabbisogno. Gli edifici elicoidali sono progettati anche riciclare i propri rifiuti.

Ancora sulla scia del combattere il cambiamento climatico attraverso l’architettura, nasce il progetto Paris Smart City 2050. Otto Torri plus- energetiche per Parigi, introducono la natura nel cuore urbano e propongono innovativi metodi di cattura dell’energia.

E che dire di Dragonfly? L’edificio metabolico per l’agricoltura urbana di New York? Fonda sulla disponibilità agricola per coltivazioni autonome, all’interno di un complesso misto (alloggi, uffici, laboratori di ingegneria ecologica, eccetera). Una vera e propria azienda verticale, dotata di tutte le forme dell’agricoltura biologica (anche con produzione intensiva e mutante col variare delle stagioni). Un tipo di agricoltura peraltro pensata per il riutilizzo dei rifiuti biodegradabili e per la produzione e conservazione dell’energia. Geniale.

Tra le molte altre progettazioni di Callebaud ce n’è anche una per Roma. All’interno della Città della Scienza, s’inserisce – tra l’altro – un complesso di torri quali ecosistemi urbani autosufficienti per la trasformazione del distretto militare in disuso (ex caserme di via Guido Reni). L’obiettivo progettuale è quello di introdurre un nuovo modo di urbanizzare scommettendo sulla biodiversità: basse emissioni di carbonio, energie rinnovabili, materiali verdi e tecnologie di automazione altamente innovative.

Per quanto tra tutti i progetti di Callebaut è quello che mi piace di meno, questa elaborazione per la Città della Scienza avrebbe potuto dare una spinta non di poco conto alla Capitale, sensibilizzando a una nuova concezione del costruire. Ma è stato scelto il progetto dello Studio 015 Viganò, anch’esso fondato su principi di autosufficienza ma non caratterizzato dall’esplosione in altezza. Senza nulla togliere alla qualità dell’idea vincitrice, continua a dispiacermi l’ostinazione di Roma a privilegiare l’orizzontalità.

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