Elodia Rossi

CONVENZIONE DELLE N.U. SUI CAMBIAMENTI CLIMATICI

LA CONVENZIONE QUADRO DELLE N.U. SUI CAMBIAMENTI CLIMATICI E LE INCERTEZZE DELLE PREVISIONI SUL CLIMA

Convenzione siglata a New York, alla data del 9 maggio 1992 (anno in cui la CEE emanava la Normativa Habitat che mi piace citare perché, a mio avviso, più equa e concreta riguardo gli ecosistemi).

A mio giudizio, fra tutte le Convenzioni, questa possiede un grado di approfondimento maggiore sulle tematiche ambientali. Tuttavia – e credo sia già chiaro il mio punto di vista – ritengo che manchi del fondamento scientifico sul quale sono imperniate le programmazioni (ossia, criteri e indicatori per la misurabilità della componente dei cambiamenti climatici derivati dall’azione antropica), oltre l’essere permeata di una forma di <antropomorfismo> che poco giova agli equilibri naturali, di cui l’uomo è parte paritaria alle altre. Inoltre, c’è da domandarsi ancora una volta: è possibile, secondo quanto emerge dagli studi degli scienziati, esercitare azioni di controllo sul clima? Interrogativo che ho trattato, tra l’altro, nell’Articolo La voce della Scienza (https://www.elodiarossi.it/la-voce-della-scienza/), riportando le opinioni di alcuni grandi studiosi.

Qui mi limito ad esporre, seppur brevemente, i principi su cui è fondata la Convenzione e il suo obiettivo generale, al solo scopo di fornire un quadro di riferimento efficace allo sviluppo dei miei studi (da cui derivano le mie posizioni) raccolti in diversi articoli di questo blog. Non tratterò quindi le metodologie, le determinazioni, né alcun altro contenuto, mancando – a mio avviso e come già detto – il fondamento scientifico di supporto all’intero documento.

Il Preambolo della Convenzione è ricco di spunti e di moniti. Particolarmente interessante è la disposizione secondo cui gli Stati devono adottare un’efficace normativa ambientale e (…) le norme ambientali, gli obiettivi e le priorità di gestione devono riflettere lo stato dell’ambiente e dello sviluppo al quale si applicano, e (…) le norme applicate da alcuni Paesi possono essere inadeguate e possono comportare ingiustificati costi economici e sociali nel caso di altri Paesi, in particolare nei Paesi in sviluppo. Disposizione questa che risulta adeguata se scissa dal contesto generale della Convenzione: l’adozione di una corretta politica ambientale è un dovere di ogni Stato, indipendentemente dal tema – complesso e ancora confuso – del governo climatico.

Altrettanto interessante, forse proprio perché pone implicitamente l’accento sull’inadeguatezza conoscitiva, è il punto in cui si riconosce che le iniziative necessarie per comprendere e fronteggiare i cambiamenti climatici sono più efficaci sul piano ambientale, economico e sociale, se sono basate su pertinenti considerazioni scientifiche, tecniche ed economiche e se sono costantemente riesaminate alla luce dei nuovi risultati raggiunti in questi campi. Eppure è proprio questa incertezza conoscitiva (se vi fossero certezze, perché perseguire nuovi risultati?) che poi guida l’intera Convenzione, traducendosi sorprendentemente in assioma nel proseguo della trattazione. Come si può governare ciò che non si conosce o si conosce solo in parte?

Il punto su cui, all’interno di questa breve esamina, voglio soffermarmi maggiormente è quello che espone l’obiettivo della Convenzione (Art. 2 Obiettivo). Ecco il testo:

L’obiettivo ultimo della presente Convenzione e di tutti i relativi strumenti giuridici che la Conferenza delle Parti può adottare è di stabilizzare, in conformità delle pertinenti disposizioni della Convenzione, le concentrazioni di gas ad effetto serra nell’atmosfera a un livello tale che sia esclusa qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sul sistema climatico. Tale livello deve essere raggiunto entro un periodo di tempo sufficiente per permettere agli ecosistemi di adattarsi naturalmente a cambiamenti di clima e per garantire che la produzione alimentare non sia minacciata e lo sviluppo economico possa continuare ad un ritmo sostenibile.

Dunque stabilizzare (…) le concentrazioni di gas ad effetto serra nell’atmosfera… E fin qui, nulla da opinare, visto che si tratterebbe di un ottimo proposito, anche se avrei preferito la sostituzione del verbo stabilizzare con la locuzione ridurre al massimo. Purtroppo c’è il seguito della frase, secondo cui la stabilizzazione delle concentrazioni di gas a effetto serra deve giungere …a un livello tale che sia esclusa qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sul sistema climatico. Qui si entra nel mistero, perché se è vero quanto affermato da alcuni studiosi e scienziati (Rif. Art. La voce della Scienza) che la climatologia possiede una componente enorme di imprevedibilità finanche a breve termine, ne deriverebbe l’impossibilità di misurazione delle interferenze tra clima e attività umane. Resta valido il proposito ma, forse, avrebbe avuto più consistenza se fosse stato enunciato in maniera differente. Ad esempio e a mio avviso, una possibile enunciazione avrebbe potuto essere questa: ridurre al massimo le concentrazioni di gas ad effetto serra nell’atmosfera, in maniera da contrarre qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sull’equilibrio degli ecosistemi. Personalmente dunque, avrei puntato il dito più sulle interferenze tra attività umane e inquinamento (da cui discendono alcuni dei disequilibri degli ecosistemi), che non invece tra attività umane e cambiamenti climatici (campo, lo ripeto fino alla noia, ancora molto discusso e, per ampi versi, ignoto).

Andando avanti, l’obiettivo cita …Tale livello deve essere raggiunto entro un periodo di tempo sufficiente per permettere agli ecosistemi di adattarsi naturalmente a cambiamenti di clima e per garantire che la produzione alimentare non sia minacciata e lo sviluppo economico possa continuare ad un ritmo sostenibile. L’adattamento degli ecosistemi ai cambiamenti climatici, al di là dell’interferenza umana, rappresenta un evento naturale, anche quando la composizione stessa degli ecosistemi viene a modificarsi. Le mutazioni intervenute nei Secoli ne sono una valida conferma. Ragion per cui parrebbe una forzatura – peraltro di indubbia misurazione – quella di relazionare l’adattamento degli ecosistemi alla riduzione delle concentrazioni di gas serra derivate dalle attività umane. Mancherebbero indicatori fondamentali di misurazione. Quanto le modificazioni di un ecosistema possono attribuirsi all’evoluzione naturale e quanto invece alle interferenze umane? In che misura la produzione di gas serra deriva dal cambiamento climatico (nella componente che riguarda l’evoluzione naturale del sistema Terra) e in che misura invece è imputabile all’azione umana?

Vengo al punto più dolente, a mio giudizio: perché orientare l’obiettivo ai temi del garantire la produzione alimentare e lo sviluppo economico? Non potrebbe risultare più coerente, equo e rispettoso dell’ambiente complessivo (di cui l’uomo è parte) il garantire al massimo la contrazione dei danni umani sul sistema Terra? Ne sono più che convinta, ritenendo che uno dei maggiori problemi ambientali – e, di conseguenza, legati alla distruzione degli ecosistemi – sia relazionato proprio ad un tipo di sistema alimentare umano (Rif. Articolo Città, effetto serra e allevamenti intensivi – https://www.elodiarossi.it/effetto-serra-allevamenti-intensivi-e-bisogni-effimeri-urbani/) in stretta connessione con l’economia che produce (economia sporca, perché settoriale, mai adeguatamente relazionata al derivato danno ambientale che, esso stesso, genera diseconomia). Bisognerebbe invece valutare il grave danno economico che origina questo genere di pratica; bisognerebbe comprendere e divulgare scientemente il significato di economia ambientale (con tutti gli indicatori di misurazione e di risultato disponibili) e i valori che ne sono di corollario, per capire quale entità di danno provoca la pratica degli allevamenti intensivi e, a seguire, quella di altre tecniche produttive alimentari.

Infine, l’enunciazione dell’obiettivo della Convenzione richiama il tema dello sviluppo sostenibile (poi ribadito nel corso della trattazione, come nel caso dell’Art.3, comma 2). Qui ritorna l’infondatezza del concetto di sostenibilità, come argomentato nell’Articolo L’inganno della sostenibilità (https://www.elodiarossi.it/linganno-della-sostenibilita/).

Facendo un seppur breve passo indietro, desidero richiamare due commi dell’Art. 1 della Convenzione. È l’articolo che tratta delle definizioni, sancendo la terminologia utilizzata nel corso dell’esposizione. Ecco il testo dei due commi e, a seguire ognuno, il mio commento/parere:

  1. «effetti negativi dei cambiamenti climatici»: i cambiamenti dell’ambiente fisico o della vita animale e vegetale dovuti a cambiamenti climatici, che hanno rilevanti effetti deleteri per la composizione, la capacità di recupero o la produttività di ecosistemi naturali e gestiti per il funzionamento dei sistemi socioeconomici oppure per la sanità e il benessere del genere umano;

Qui non mi dilungo molto, avendo già detto riguardo le relazioni (non misurabili scientificamente) tra cambiamenti climatici e mutazioni degli ecosistemi. Dunque varrebbe indagare con quali strumenti e criteri dovrebbero essere valutati gli effetti negativi dei cambiamenti climatici. In più, non posso non ribadire, con incrementale disappunto, l’esistenza di un’imprudente relazione indotta tra salute degli ecosistemi e il benessere dei sistemi (socio-)economici. Perché è altamente pericolosa, per la sopravvivenza del Pianeta, la strumentalizzazione degli ecosistemi a fini esclusivamente umani. Ed è pericolosa finanche per l’uomo, essendo questo parte degli ecosistemi naturali.

  1. «cambiamenti climatici»: qualsiasi cambiamento di clima attribuito direttamente o indirettamente ad attività umane, il quale altera la composizione dell’atmosfera mondiale e si aggiunge alla variabilità naturale del clima osservata in periodi di tempo comparabili;

Mi limito a far notare che parrebbe perlomeno superficiale identificare i cambiamenti climatici con qualsiasi cambiamento di clima attribuito direttamente o indirettamente ad attività umane (…) che si aggiunge alla variabilità naturale del clima. Scusandomi per la ripetizione dell’interrogativo, chiedo: con quali criteri e indicatori si può stabilire la componente di cambiamento attribuibile alle attività antropiche? Io non l’ho ancora capito.

un passo avanti

Chiedo scusa a chi dimostra interesse per le tematiche che tratto sui temi ambientali, ma è necessario, come ho spiegato nel precedente articolo di questa sezione (urbanistica – geografia/ambiente), riordinare gli studi e porre i risultati al posto giusto.

Ho continuato a studiare e sto studiando ancora. Non smetterò mai.

Confesso che mi creano un certo imbarazzo le discordanti teorie sul riscaldamento globale. E seppure – con senso di doverosa riconoscenza verso chi ha studiato questa tematica in modo approfondito e con basi culturali dedicate, come per gli insigniti Nobel Rubbia e Zichichi – un qualche elemento di possibile analisi che mi conduce a richiamare la responsabilità umana negli avvenimenti di oggi mi si ripropone alla mente. E devo capire fino in fondo.

Non è opinabile che la terra abbia subito, nel corso dei Millenni, numerose variazioni/oscillazioni climatiche (in un successivo articolo cercherò di razionalizzare questa affermazione attraverso una seppur sintetica ricostruzione storico/geografica). Quello che però mi preme approfondire, cercando di essere il più possibile ancorata a certezze scientifiche, riguarda la sfera delle cause che, nelle varie oscillazioni, sono eventualmente intervenute a generare le mutazioni. E voglio pormi queste domande: è possibile che la causa (o una delle cause) sia oggi la devastante azione dell’uomo sulla Natura? Quanto oggi sono collegate le fenomenologie dei cambiamenti climatici con quelle dell’inquinamento? È plausibile considerare che vi siano interferenze? I gas serra che ruolo hanno?

Per rispondere a tutto questo proverò a relazionare dati mondiali ufficiali e relativi a differenti rilevazioni (per esempio quelli riguardanti le risorse non rinnovabili) con le azioni umane (per esempio di massiccio utilizzo).

Non posseggo la presunzione di contrappormi alle analisi di scienziati, le cui risultanze restano – per quel che mi riguarda – un dato di fatto. E se è pur vero che la sciocchezza della Terra che gira intorno al Sole era sostenuta dalla scienza del tempo, è altrettanto vero che per confutare questioni così delicate (mi riferisco ai cambiamenti climatici) bisognerebbe vantare decenni di studi intensi sull’argomento e la giusta professionalità scientifica. Ciò con buona pace di tutti quelli che si esprimono al riguardo perseguendo le più disparate teorie, così nutrendo l’infernale girone dei dannati del web (basta fare una sommaria ricerca per rendersene conto). E mi si conceda, con altrettanta buona pace di quei docenti universitari (e non) italiani che non si pongono alcun quesito e continuano imperterriti a trasmettere nozionistiche conoscenze agli ignari studenti (si pensi al tema dello sviluppo sostenibile, di cui ho parlato in molti articoli precedenti). Ma le cattedre universitarie non dovrebbero essere, come un tempo, luoghi privilegiati per indagare e perseguire le verità? Lasciamo stare e confidiamo ancora in quei pochi che l’hanno capito e, con coscienziosa difficoltà, esercitano il proprio ruolo.

La mia modesta ambizione di partenza è semplicemente quella di esaminare, schematizzare, approfondire per quanto riuscirò a fare, le asserzioni più autorevoli.

D’altro canto, semmai i cambiamenti climatici non avessero relazioni con i drammi da inquinamento, questo di certo non migliorerebbe gli scenari derivati dall’azione umana a scapito dell’ambiente e della sopravvivenza degli ecosistemi. E allora perché non guardare in faccia alla realtà, ponendo ogni fattore al giusto posto?

Intenderei quindi procedere analizzando anzitutto le affermazioni degli scienziati, per poi addentrarmi in valutazioni quantitative e qualitative sulla base di dati certi. Credo che in questo modo, senza alcun inutile screditamento della voce della scienza, si possano giungere comunque a valutare, per piccoli ma sostanziali passi, l’entità del danno che l’uomo infligge costantemente agli ecosistemi e le modalità con cui questo avviene.

Nell’attesa, mi preme dover comunicare all’infernale girone dei dannati del web che esiste uno studio molto interessante, pubblicato su Nature Communications, firmato dagli importanti ricercatori del Niels Bohr dell’Università di Copenhaghen e di quella della Cina del Sud. Ne parlerò; intanto anticipo che in esso non si scorge alcuna contraddizione con le conclusioni a cui sono giunti i nostri illustri Nobel, orgoglio tutto italiano.

Un progetto per la vita

La nostra vita, la vita di ogni essere, dipende dal sistema ambientale complessivo e dagli ecosistemi locali. Dunque la nostra vita, la vita di ogni essere è legata anche a quella di ogni altro individuo e di ogni specie, animale e vegetale. Questa consapevolezza generalmente sfugge a chi, per diverse ragioni e senza colpa, non si è mai trovato ad approfondire il grande tema delle relazioni che governano la vita sul pianeta terra.

Siamo acqua ed energia, prima di essere materia (basti considerare la composizione degli atomi). E questa energia, governata dalle leggi dell’attrazione polare e molecolare, ci rende una sola cosa, un insieme la cui alterazione del singolo causa danni a ognuno.

Per noi uomini, generatori di un sistema complessivo ormai profondamente alterato, fare pace con la terra diventa oggi fondamentale per la sopravvivenza del pianeta. Fare pace con la terra significa molte cose. Significa evitare gli sprechi, significa guardare il mondo con occhio diverso e più consapevole, significa mirare al giusto e non all’effimero, significa abbattere quel muro di diffidenza col la Natura, significa rispettare ogni specie e ogni individuo all’interno dell’affascinante diversità dell’Universo.

Da molti anni studio e analizzo queste relazioni, da molti anni cerco di circostanziare le cause di maggiore devastazione.

Parallelamente e umilmente, cerco di essere attiva su diversi fronti. Tra questi, inserito a pieno titolo nell’ambito della tutela ambientale, vi è il rispetto degli animali. E così – ecco il punto – mi sono trovata, tra l’altro, ad approfondire la situazione di vita di animali rinchiusi, innocenti prigionieri: nei circhi, nei canili, nei gattili, nelle voliere, e via dicendo fino al dramma planetario degli allevamenti intensivi.

Sono luoghi di sofferenza, di tormento, di alterazione delle relazioni naturali, di profonda violazione delle leggi che governano gli ecosistemi. Sono luoghi di trasformazione irrazionale degli equilibri energetici globali e il danno si ripercuote sull’intero sistema naturale, del quale noi uomini siamo parte attiva.

Da molti anni desidero fare qualcosa in più, oltre scrivere, cercare di informare (mi farebbe piacere se leggeste alcuni miei altri articoli sui temi ambientali, alla pagina Urbanistica), muovermi sui diversi fronti con la consapevolezza, purtroppo, di rappresentare niente di più che una delle – seppur tante, ma microscopiche – gocce ribelli all’interno di un oceano ormai in delirio.

Un vecchio contadino, col volto segnato dal tempo e dal sole, indicandomi una distesa di terra, amareggiato mi ha detto: vedi questo terreno? Vedi com’è ridotto? Quando io ero giovane, era pieno di conigli selvatici ed era bellissimo, pulito. Era un prato meraviglioso. Oggi i conigli liberi non si trovano più.

Una dolorosa realtà che mi ha portata a lunghe riflessioni.

E così, vorrei creare un microcosmo di felicità: un luogo dove raccogliere animali in difficoltà estrema e donarli a una vita migliore. Un microcosmo che rifletta il più possibile un’atmosfera di vita naturale, di pace con la terra, dove le energie complessive siano armoniche. Vorrei c he qui, la natura verde e quella animale trovassero quel punto d’incontro ormai smarrito a causa dell’incosciente azione umana. Vorrei che fosse un luogo di formazione alla vita, dove bambini, adolescenti, persone di varia natura (in particolare le disagiate), potessero trovare quegli stimoli utili a guardare il mondo con maggiore coscienza e consapevolezza.

Lo so. È un progetto non facile. E so anche che la sua realizzazione salverebbe un numero limitato di vite. Ma aspiro che diventi un prototipo, un piccolo esempio per tendere verso un mondo migliore. Un esempio a disposizione di tutti, da replicare, da copiare, da migliorare nel tempo.

Vorrei creare un’associazione indipendente di volontariato per la gestione del micro sistema ambientale. Ho già individuato le persone giuste. Gente consapevole, convinta. Avremo bisogno anche di gente necessaria e attiva nel volontariato: un veterinario, un agronomo, un esperto di comportamento animale, volontari che si applichino anche in eventuali pratiche di adozione. Desidererei che questo sistema potesse perfino, nel tempo, garantire lavoro a persone indigenti.

Il microcosmo a cui penso è un ambiente vario, dove la natura verde costituisca il luogo dell’ospitalità per esseri viventi sfortunati, selezionandoli tra i più bisognosi e recuperandoli da strutture dell’orrore (gli allevamenti intensivi, i canili, la strada). Un ambiente autonomo, anche dal punto di vista dell’approvvigionamento idrico (attraverso la creazione di un capiente pozzo). Non credo nelle modalità di captazione delle energie cosiddette alternative (Rif. Articolo: https://www.elodiarossi.it/architettura-e-ambiente-energie-rinnovabili/), quindi desidero ridurre al minimo il consumo energetico (per emergenze e limitate operazioni): il giorno sarà giorno, la notte sarà notte, come la natura insegna.

Gli spazi dovranno essere organizzati in modo da garantire una felice convivenza, senza prevaricazioni.

Sto elaborando gli aspetti architettonici, ormai a buon punto. Il sito c’è, è mio. Sto esaminando gli aspetti burocratici e quelli finanziari, per non trovarmi impreparata.

Insomma, ci sto provando.

E se mai ci riuscirò, attiverò una campagna pubblicitaria mirata soprattutto alle scuole, affinché bambini e adolescenti possano avere contatti con quella Natura e quell’armonia che il mondo contemporaneo ha sottratto alla loro conoscenza.

Perché la pace con la terra disegni la strada del futuro.

L’inganno della sostenibilità

È il 1987. La WCED (Commissione Mondiale Ambiente e Sviluppo) è coordinata da Gro Harlem Brundtland, una donna norvegese, capace, motivata e impegnata in battaglie ambientaliste. È lei a commissionare il Rapporto che prenderà il suo nome. E certamente le sue intenzioni sono oneste.

Ed è ancora lei, attraverso il medesimo Rapporto Brundtland, a consegnare un concetto di sostenibilità secondo cui:

lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri

“Un concetto” che presto diventa “il concetto”. Sedi del potere, Università, scuole di qualsiasi livello e grado, Associazioni, Fondazioni, Onlus, nicchie culturali, pensatori aperti, geografi, stampa, televisioni, eccetera eccetera, tutti convinti di avere tra le mani la soluzione per il comune futuro.

Da troppi professori (e dai presunti tali) ho sentito enunciare questo principio, trasferirlo agli studenti, obbligare gli studenti a farlo proprio come fosse un assioma matematico. Troppi testi di studio lo propongono in questa modalità. Slogan puro e spiegazioni poche. Ma chissà quanti hanno realmente letto il Rapporto Brundtland per intero. Pochi direi, altrimenti l’idea dell’assioma – perlomeno in una certa direzione – avrebbe perso significato.

Difatti all’interno del Rapporto questo concetto dimostra essere più vicino alla speranza, al monito, che alla certezza. E ciò, nonostante un certo grado di incomprensibile (almeno dal mio punto di vista) ottimismo, particolarmente relazionato al convincimento che la tecnologia avrebbe provocato un tale straordinario cambiamento, del tutto favorevole al sistema ambientale complessivo, conducendo verso un differente e più equo sviluppo economico. Non è così. Non è stato così e non sarà, purtroppo, così.

Ma qual è la realtà?

Nella serie Spazi e Luoghi dell’Architettura (voce del blog Architettura, sub-voce Quaderni) ho spesso affrontato il tema del disastro ambientale. Nell’articolo N. 7 della serie ho raccolto dati ufficiali su alcune delle più importanti cause di devastazione della Terra. In appena trentacinque giorni, dal 4 aprile al 9 maggio 2017, è accaduto questo:

Nel mondo, 1.830.834 ha di foreste sono state distrutte e 2.464.802 ha di terra coltivabile è stata erosa (Fonte: FAO). La desertificazione ha raggiuto la soglia di 4.224.589 ha (Fonte: UN). L’emissione di CO2 si attesta a 13,42 miliardi di tonnellate (Fonte: IEA). Le sostanze tossiche rilasciate nell’ambiente misurano 3.447.427 tonnellate (Fonte: UN).

Sono trascorsi solo trent’anni dalla data di emissione del Rapporto Brundtland. E dico solo perché mi è difficile credere che nel 1987 i redattori del Rapporto non avessero chiaro il problema – benché forse meno incisivo di oggi – di cosa stesse realmente avvenendo, di quale danno catastrofico si stesse macchiando l’umanità.

Il processo di cambiamento secondo cui lo sfruttamento delle risorse, l’orientamento degli investimenti, l’indirizzo dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con gli attuali, come immaginato dal Rapporto, non ha fondamenta. Basti riflettere sul tema dell’esauribilità di alcune risorse.

Foto di Kalman Kovats

Dal 1987 a oggi le fonti inquinanti sono aumentate vertiginosamente, si sono moltiplicati gli allevamenti intensivi (immorale attività e principale causa dell’effetto serra), le emissioni nell’aria di PM10 (e di altri infestanti) crescono a dismisura. E poi l’erosione delle terre, il prosciugamento delle falde acquifere, la desertificazione e la conseguente estinzione di specie animali (oltre al tema etico, che per me ha privilegio, dovremmo tenere presente che noi esistiamo perché esistono loro, nel rispetto delle regole naturali che si chiamano ecosistemi). E poi l’esponenziale crescita delle conurbazioni che, come ho detto in altri articoli, assorbono il 75% delle risorse planetarie. E poi l’iniqua ripartizione della ricchezza che, data la forbice ormai raggiunta, sembra mollare uno schiaffo allo stesso Rapporto Brundtland laddove asserisce che, adottando alcune misure, si può giungere a una più coerente distribuzione economica perfino ai livelli nazionali.

Tutti temi su cui ritornerò, uno ad uno, per dimostrare quali responsabilità abbia la città odierna, quali futilità collettive degli spazi urbani producano devastazione, morte e guerra.

Allora chiedo: a cosa è servito, quale impulso ha dato il Rapporto per procedere verso un migliore futuro? Come mai se ne continua a parlare, convinti (almeno apparentemente) del grande merito che ha avuto l’acclarato concetto di sostenibilità? Quanti interessi reali sono intravedibili oltre tutto questo fare convegni, pubblicazioni, manifestazioni, insegnamenti?

E chiedo ancora: non sarebbe più giusto iniziare a perseguire concetti di minore insostenibilità, osservando finalmente il mondo dal punto di vista complessivo e non soltanto relazionato all’interesse umano?

Insomma, Our common future: anche così è conosciuto il Rapporto Brundtland. Ma i disastri in cui è immerso il sistema Terra non consentono di intravedere neppure un futuro a lungo termine, figuriamoci quanto provocatorio e menzognero possa essere parlare di aspettativa comune.

A un punto del Rapporto va però dato merito. Quello di aver introdotto l’importanza della partecipazione di tutti ai processi di cambiamento. Proprio per questo, io credo, il vero propulsore alla mitigazione del danno complessivo è da ricercarsi nella generazione di una coscienza collettiva che non può che derivare da una corretta conoscenza.

Sto cercando di dare il mio contributo.

 

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