Elodia Rossi

Contributo al sapere

Dialoghi sul clima

Già il titolo di questo volume ne chiarisce qual è l’obiettivo: proporre adeguati confronti sul tema climatico, nella consapevolezza che non possa esserci conoscenza senza dialogo.

Edito da Rubettino

Con il contributo scientifico del CERI – Centro di prevenzione e controllo dei rischi geologici ambientali, Università La Sapienza, Roma

A cura di: Alberto Prestininzi.

Presentazioni di: Gabriele Scarascia Mugnozza, Guus Berkhout, Enzo Siviero

Introduzione di: Alberto Prestininzi

Contributi di: Mario Giaccio, Nicola Scafetta, Uberto Crescenti, Franco Battaglia, Augusta Vittoria Cerutti, Teresa Nanni, Franco Prodi, Ernesto Pedrocchi, Piergiorgio Rosso, Gianluca Alimonti, Renato Angelo Ricci, Luigi Mariani, Giuliano Ceradelli. Giovanni Brussato, Enrico Mariutti, Elodia Rossi.

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In un momento storico caratterizzato diffusi opinionismi su argomenti che invece necessitano di fondamenta conoscitive solide, il volume consegna al lettore molteplici spunti per stimolare quell’obiettività che è alla base del sapere.

Consiglio questa lettura e consiglio di approcciarvi con mente libera, pronta ad analizzare, a riflettere, a valutare. Sarei soddisfatta, come tutti gli autori, se ne derivasse un dialogo intenso e civile.

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Quelli che s’innamoran di pratica sanza scienzia son come ‘l nocchier ch’entra in navilio senza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada.

E veramente accade che sempre dove manca la ragione suppliscono le grida.

(Leonardo Da Vinci, Codice Urbinate, 29)

Rif. L. 124/2017

Nel rispetto della normativa vigente, ai sensi della L. 124/2017, provvedo alla pubblicazione dei contributi ricevuti nell’anno 2020.

Bonus, Ecobonus, Superbonus, Sismabonus

Negli ambienti tecnici, sembrerebbe un argomento fondamentale: l’argomento del momento. Non lo capisco.

Bonus, Ecobonus, Superbonus, Sismabonus, chi più ne ha più ne metta. 50%, 65%, 90%, 110%, olè!

Un valzer, che magari richiama le allegre note di Chopin.

Sono misure che dovrebbero consentire di rimettere in ordine alcune componenti della propria casa, del proprio appartamento, eccetera. Ma a chi sono realmente destinate?

La prima risposta è: a chi ha i soldi per anticipare una spesa che viene rimborsata negli anni a seguire, perfino – in alcuni casi – in maniera eccedente all’esborso iniziale. Fantastico, così parrebbe a una superficiale analisi.

Però – ecco il primo problema – bisognerebbe avere i soldi per anticipare. E non tutti li hanno.

Vado oltre. Il rimborso avviene in cinque-dieci anni, tramite detrazione delle imposte (credito fiscale) dalla dichiarazione dei redditi. Appunto. Ecco il secondo problema: sarebbe necessario avere una dichiarazione capiente, altrimenti non funzionerebbe. E non tutti l’hanno.

Forse intuendo – con insopportabile ritardo – il primo dei problemi esposti, nello scorso luglio il Governo mette rimedio (apparente) consentendo alle banche aderenti e alle società finanziarie (intermediari finanziari) di governare il processo, anticipando la spesa a fronte, direi giustamente, della cessione del credito comprensivo di interessi. Un esempio: Banca Intesa liquida l’80% del credito fiscale acquistato, trattenendo quindi il 20%.

Ecco che viene fatto fuori, in un certo modo, l’impegno diretto dei professionisti, molti dei quali – francamente non io – si sono già organizzati per portare aventi la crociata in un momento storico di difficoltà lavorative abnormi.

Ottimo, potrebbe pensare il destinatario finale delle misure. Togliersi rogne e responsabilità conviene sempre. Ma – terzo problema – affrontare un tale impegno da parte del cittadino presuppone che questi abbia comunque un tesoretto iniziale, visto che le banche erogano il I Acconto solo a seguito del raggiungimento di almeno il 30% dei lavori, qualche volta perfino a compimento complessivo delle opere. E non tutti lo hanno (il tesoretto, intendo).

Allora, che fare? Chiedere un finanziamento? Non a tutti è concesso un finanziamento. Non di certo ai disoccupati e, in generale, alle categorie lavorativamente svantaggiate che peraltro non potrebbero neppure avvicinarsi alle misure: come si garantirebbero il recupero?

Oppure, altra strada, si potrebbe godere delle anticipazioni che sosterrebbe l’impresa di costruzioni. Qui si aprono le porte, tra l’altro, agli sconti in fattura. Ma quali imprese sono in grado di operare anticipando costi di materiali e personale? Ovviamente non tutte, solo quelle solide, escludendo la miriade di ditte in grave difficoltà (le quali, invece, dovrebbero essere le vere destinatarie di sostegni razionali).

A tutto ciò fa capolino uno snodato sistema di relazioni tra fisco (Agenzia delle Entrate), banche, società finanziarie, imprese, professionisti tecnici, professionisti contabili e cittadini che evito di affrontare.

Tralasciando dunque le articolazioni di un percorso evidentemente complesso e, per certi versi, ancora confuso, vengo al dunque. Chi sono i veri beneficiari di queste discriminanti misure? I ricchi, ovviamente, siano essi cittadini o imprese o intermediari finanziari.

E l’Italia non è un paese di ricchi.

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Un esempio che porta l’argomento su un differente piano di lettura: recentemente ho rinnovato la mia polizza annuale RC professionale. Mi era giunto il preventivo che, mi si chiariva, doveva essere addizionato di 150,00 euro qualora io intendessi occuparmi di pratiche Bonus.

Una promessa mantenuta

Il professore Corrado Beguinot si spense il 6 gennaio 2018. Lo ricordai in un articolo (https://www.elodiarossi.it/corrado-beguinot-il-mio-maestro/). E ricordai quanto la sua figura abbia influito (e influisca ancora) sulla cultura urbanistica mondiale.

In memoria di lui, mio maestro e insostituibile amico, ho curato due recenti pubblicazioni sostenute dalla Fondazione di Studi Urbanistici Aldo della Rocca. L’impegno del Presidente Gian Aldo Della Rocca ha permesso di portare a termine questi lavori che, dagli scritti di tutti coloro che vi hanno preso parte, trasudano di affetto e riconoscenza verso il professore.

Corrado Beguinot. Ricordi.

Aracne Editrice, Fondazione Aldo Della Rocca – Collana Ricerca e Documentazione, 2019

Prefazione del Presidente, Conclusione del prof. Franco Montanari, Introduzione e Postfazione mie.

Contributi di:

Presidenti/Parlamentari/Professori/Direttori: Francesco Alessandria, Stefano Aragona, Pasquale Belfiore, Alberico Barbiano di Belgiojoso, Lorenzo Berna, Cristoforo Sergio Bertuglia e Franco Vaio, Vittorio Betta, Gabriella Padovano e Cesare Blasi, Marino Bonaiuto, Mirilia Bonnes, Alessandro Castagnaro, Massimo Clemente e Gabriella Esposito De Vita, Teresa Colletta, Flavia Cristaldi, Marilisa Cuccia, Claudia de Biase, Gian Aldo Della Rocca, Anna Maria Di Tolla, Mario Fadda, Francesco Forte, Giovanna Fossa, Alberto Gasparini, Anna Sagliocco Guarino, Mario Guarino, Francesco Gurrieri, Gloria Mari, Bianca Petrella, Marco Ricceri, Aurora Sanza, Gianluigi Sartorio, Vincenzo Scotti e Marco Emanuele, Orietta Zanato Orlandini, Franco Montanari

Professori Emeriti, Filosofi: Giancarlo Bracale, Aldo Masullo, Giuseppe Limone

Liberi Professionisti: Chiara Bardazzi, Sabrina Barresi, Adelmina Dall’Acqua, Marialfonsa Fontana, Fiorenza Gorio, Gerardo Mazziotti, Giuliana Quattrone, Elodia Rossi

Giornalisti, Scrittori, Poeti: Raffaele Bussi, Amos Ciabattoni, Angelo Cocozza, Maria Pia De Martino

Segretaria della Fondazione: Roberta Pitino (a cui esprimo un grazie particolare per ambedue i Volumi).

All’interno del I Volume è riportato anche il Final Statement dell’International Conference on the Inter-ethnic City (Rome, 1 of June 2011) di cui Beguinot è stato artefice, con la partecipazione attiva di Ban Ki-moon, allora Segretario Generale delle Nazioni Unite.

L’occasione di una Giornata del Ricordo in sua memoria, organizzata dal Cerimoniale (8 febbraio 2019), ci ha permesso di presentare il primo Volume nell’Aula Magna del Rettorato dell’Università Federico II .

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Corrado Beguinot. Ricordi. II Volume

Aracne Editrice, Fondazione Aldo Della Rocca – Collana Ricerca e Documentazione, 2020

Prefazione del Presidente, Introduzione e Intro-Appendice mie, Postfazione di Bianca Petrella.

Contributi:

Rettori/Professori Emeriti: Filippo Bencardino, Giorgio Piccinato, Cesare Stevan, Maurizio Tira,

Rettori/Presidenti/Parlamentari/ Professori/Direttori: Armando Albi-Marini, Emanuela Belfiore, Padre Gianfranco Berbenni, Donatella Calabi, Michele Capasso, Lucio Carbonara, Giuseppe Carta, Mario Coletta, Giovanni Cordini, Giuseppe De Rita, Gianfranco Dioguardi, Pasquale Erto, Concetta Fallanca, Fabiana Forte, Paolo Giovannini, Giuseppe Imbesi, Nicola Giuliano Leone, Ernesto Mazzetti, Bianca Petrella, Elvira Petroncelli, Flavia Piccoli Nardelli, Antonio Saturnino

Liberi professionisti: Mario Casolaro, Eleonora Giovene di Girasole, Gandolfo Marzullo, Giorgio Nocerino,

Artisti, Registi: Igina Izzo, Renata e Giorgio Treves.

Un grazie di cuore a tutti.

Ricordi particolari vanno ad Aldo Masullo (filosofo e professore emerito – https://www.elodiarossi.it/siamo-tutti-piu-poveri/) e Gianluigi Sartorio (professore ordinario e caro amico) che recentemente ci hanno lasciati.

Siamo tutti più poveri

Se è vero che la ricchezza umana non è nel denaro, come io credo, ma nella conoscenza, nella capacità di elaborare pensieri, nel saper conquistare la sola libertà che possediamo – quella interiore – e nel saperla esternare con sapienza, beh, allora siamo tutti più poveri.

Un breve pensiero il mio, visto che notizie sull’uomo che ci ha lasciati il 24 aprile scorso se ne trovano in abbondanza sui quotidiani e nel web.

Aveva 97 anni. Per quanto appaiano molti, non sono abbastanza per una mente che ha inciso (e inciderà) sul pensiero filosofico e morale dello scorso Secolo, di quello attuale e di quelli che verranno. Lucido pensatore, appassionato nell’indagare – tra l’altro – i meccanismi che regolano la vita e le relazioni tra questa e lo spazio/tempo, Aldo Masullo ha contribuito ad aprire le menti attraverso quella vivacità della coscienza di cui è padre, a orientare gli orizzonti del pensiero verso un universo spesso disatteso, invece strutturato nel vivere quotidiano.

E tutto questo va ben oltre la sua esperienza e i suoi orientamenti di politico, le sue onorificenze e la gloria che si è conquistato all’interno dei contesti decisionali. Sostenitore della diversità di idee, da cui discende la dialettica, tutto questo si deve invece alla sua intensa attività di filosofo, penetrante differenti campi e mirante appunto a introdurre il senso vero della coscienza nelle scelte. Mi viene in mente la tenacia con cui aveva affrontato la contrapposizione all’abortito PRG che intendeva rivoluzionare Napoli con l’abbattimento di quella struttura urbana che ne caratterizza una storia delicata e complessa: i quartieri spagnoli. Dovuto è il richiamo alla collaborazione con un altro insigne pensatore, Gerardo Marotta, fondatore dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, anch’egli venuto a mancare.

Come potrei dimenticare quando, giovane studentessa di architettura alla Federico II di Napoli, non trascuravo di seguire le lezioni di Filosofia morale di Masullo, presso la vicina sede della sua Facoltà? E c’è stata una relazione, guidata dall’altrettanta enorme sapienza di un altro grande uomo recentemente scomparso e a me infinitamente caro: Corrado Beguinot (https://www.elodiarossi.it/corrado-beguinot-il-mio-maestro/). Seguirono i tempi in cui s’indagava, all’interno di un gruppo di ricerca internazionale sugli studi urbani (cui orgogliosamente appartenevo), sulle relazioni tra spazio-tempo-velocità e capacità percettiva in differenti contesti architettonici. Mi si apriva un mondo nuovo e la mia attenzione all’architettura affrontava orizzonti affascinanti e più intensi. Orizzonti che hanno guidato e guidano ancora le mie scelte e non solo architettoniche. C’è una morale in questo: l’architettura diviene un veicolo. Ma è una storia lunga, alla quale ho fatto cenno in alcuni articoli precedenti (per esempio: https://www.elodiarossi.it/le-dimensioni-dellarchitettura/https://www.elodiarossi.it/v-le-dimensioni-dellarchitettura/).

Grazie Corrado Beguinot. Grazie Gerardo Marotta. E grazie Aldo Masullo.

Senza di voi, quest’Italia già martoriata a me appare genuflessa.

Senza voi, siamo tutti più poveri.

Notre-Dame brucia. Parigi soffre

Notre-Dame, la Nostra Signora, rimane avvolta nel fuoco qualche giorno fa, il 15 aprile scorso. La Senna si tinge di sangue.
Dolore per Parigi, dolore per la Francia, dolore per il mondo. E per l’architettura vera che meriterebbe vita eterna.

Foto di David Mark – Pixabay

Ma qual è il suo plurisecolare percorso? Proseguo con qualche cenno, in breve.
La Cattedrale, esemplare espressione dello stile gotico, dal 27 febbraio 1805 è eletta a Basilica Minore, ossia vanta la denominazione onorifica consegnata a quegli edifici cattolici di particolare rilevanza. Denominazione che viene concessa dal Papa attraverso un apostolico, ovvero una carica conferita dalla Santa Sede.

Ma Notre-Dame possiede anche il titolo di Monumento Storico di Francia dal 1862. E dal 1991 entra a pieno titolo nell’elenco dei monumenti eletti Patrimonio dell’Umanità.

Finanziata dalla Chiesa e dalla Corona di Francia nell’epoca in cui Parigi diventa Capitale del Regno di Francia e centro di grande interesse economico e culturale, la Cattedrale trova il compimento formale nell’anno 1250 (cui seguono interventi minori di completamento, fino all’intero 1400), dopo quasi un Secolo di lavori cui partecipa anche un gran numero di artigiani indigeni. Intanto, nel 1182 è completata la struttura portante a cinque navate, con abside ampio e deambulatorio circolare. E intanto Henri de Château-Marçay, inviato pontificio, consacra l’altare maggiore nel 1185, per volere di Papa Lucio III.

Il vescovo Maurice de Sully supervisiona i lavori nel periodo iniziale dell’edificazione. A lui, in qualche modo, si devono scelte importanti, per esempio sulle posizioni e conformazioni dei poli liturgici.

Nel 1218 viene completata la facciata principale, nel 1240 la torre sud e nel 1250 la torre nord che conclude i lavori principali. I coronamenti a cuspide, originariamente previsti per le due torri, non vengono realizzati.

Ma la storia di Notre-Dame è nota al mondo o, perlomeno, è semplice reperire notizie a riguardo. Non è su questo che voglio soffermarmi. Né, per certi versi (fatta qualche eccezione di contorno), sulle qualità indiscusse dell’impianto architettonico.
Invece mi soffermo qualche attimo su alcune dolorose vicende che hanno visto protagonista, suo malgrado, quest’opera straordinaria di architettura nel corso dei Secoli.

1789 – 1799, sono gli anni della Rivoluzione Francese. Notre-Dame viene deturpata. Il Comune di Parigi ordina la demolizione di tute le statue presenti nella Galleria dei Re, nei portali e finanche in facciata. La sottile e alta guglia centrale viene abbattuta. L’oro e l’argento di cui è colma internamente, vengono inviati alla zecca per la fusione. Claude-Henri de Rouvroy, conte di Saint-Simon, si propone di acquistare la cattedrale per distruggerla. Il pericolo viene evitato per poco.
Per alcuni anni, la Cattedrale viene trasformata in Tempio della Ragione (in onore al Culto della Ragione, d’impronta razionalista, sorto nel corso della Rivoluzione).
Ben presto, a seguito dell’introduzione del Clero Costituzionale (derivato da un atto del 1970 che modifica i rapporti tra Stato francese e Chiesa), la Chiesa viene reintrodotta nell’edificio per occuparne alcuni uffici.
Solo nel 1801, a seguito della stipula del noto Concordato tra Napoleone Bonaparte e Papa Pio VII, la Cattedrale ritorna nelle mani della Chiesa Cattolica. È qui che viene celebrata, nel 1804, l’incoronazione di Napoleone a Imperatore di Francia.
È il 1817 e vengono eseguiti alcuni interventi di restauro: al telaio del tetto e ai meravigliosi archi rampanti del coro. Si procede anche con il potenziamento dell’arredo interno.
È il 1830/1831 e le sommosse anti-legittimiste procurano ulteriori e nuovi danni all’edificio.
Siamo agl’inizi del 1842 e alcuni uomini di cultura (tra questi, Victor Hugo) si muovono per sensibilizzare al restauro dell’imponente monumento, date le tragiche condizioni in cui ancora versa. Vengono così incaricati due illustri architetti, Jean-Baptiste-Antoine Lassus ed Eugène Viollet-le-Duc per il progetto di restauro integrale. Viollet.le-Duc, noi architetti lo sappiamo bene, è un personaggio che predilige in restauro in stile, contrapponendosi ad differenti scuole di pensiero, alcune più votate all’innovazione, altre alla conservazione integrale (anche dei danni).
Viene elaborato il progetto, profondamente teso a riconsegnare alla Cattedrale le originarie fattezze medievali, come nello spirito dei progettisti, con poche addizioni di stili successivi. Dopo peripezie varie legate alla congruità della spesa, si dà avvio ai lavori. È il 1857 e l’unico direttore dei lavori resta Viollet-le-Duc, a causa della morte di Jean-Baptiste-Antoine Lassus.

Critiche ovviamente non mancano, come sempre.

Tra le curiosità, quella che più m’intriga è la volontà di Viollet-le-Duc di sovrastare le due torri di lunghe guglie. Esistono i disegni originali che prevedono questa ipotesi. Ipotesi però mai realizzata. Il grande restauro viene comunque compiuto e, prima del 1870, Haussmann s’adopera per i ben noti sventramenti della città. In quest’occasione, viene aperta una grande piazza dinanzi al sagrato della Cattedrale: è quella che oggi porta appunto il nome di Place Note-Dame.

Ma ecco che giunge il 1871 e alcuni arredi interni, in particolare panche e sedute di altra natura, vengono incendiate. Seguono ulteriori restauri e ammodernamenti: tra questi ultimi, l’introduzione di alcune vetrate di cui sono incaricati artisti contemporanei, subito dopo rimosse a causa delle troppe variabili stilistiche tra gli stessi autori.
Eccoci agli anni ’90 dello scorso Secolo, durante i quali viene eseguito l’ampliamento dell’organo principale. E poi ai primi del 2000, quando viene edificato il nuovo presbiterio.

E così, la sera del 15 aprile di quest’anno, la Cattedrale prende fuoco. La bellissima guglia centrale è ridotta in cenere, devastando l’articolazione complessiva del monumento. Crollano porzioni considerevoli della volta, tanto nella navata centrale che nel transetto. Altri danni minori si diffondono ovunque. Parigi soffre, il mondo dell’arte si piega al dolore.

Un ultimo tragico evento all’interno di un percorso non facile per il magistrale monumento. Ma la sopravvivenza della bellezza non è mai facile e la strada da percorrere è sovente colma di ostacoli.

Per il bene universale, mi auguro che questo esempio di straordinaria testimonianza dell’architettura possa tornare presto a far piangere, non di dolore ma d’emozione vera, il mondo intero.

Ponte Morandi, le verità nascoste

Alla ricerca della verità.

Innanzi tutto chiarisco che questo mio articolo non vuole essere un contributo in termini di affermazioni, di convincimenti; piuttosto di interrogativi, di enunciazione dei tanti nodi da sciogliere all’interno di un clima profondamente confuso.

Inizio.

14 agosto 2018: una pioggia consistente si abbatte su Genova. D’improvviso – come in un film dell’orrore – un imponente fulmine colpisce il Ponte Morandi. Due delle campate crollano. Cede il pilone intermedio (la torre ovest). Una tragedia.

L’infermiera che ha assistito al disastro sostiene che le coppie di stralli convergenti nel pilone centrale si sono spaccati contemporaneamente, per poi lasciar crollare le relative campate e pochi istanti dopo anche il pilone.

Un passo indietro negli anni.

Il Ponte fu progettato dall’ingegnere Morandi negli anni sessanta e realizzato dalla Società Italiana per Condotte d’Acqua. Lungo oltre un chilometro e largo 18 metri, al tempo veniva considerato – probabilmente non a torto – una grande opera di ingegneria. Tra cemento armato, cemento precompresso e catenarie, era dimensionato per sopportare carichi accidentali e di traffico veicolare sostenuti, tuttavia relazionati alle esigenze dell’epoca e alle aspettative di medio/lungo periodo. Ma non di certo erano prevedibili le straordinarie mutazioni sociali ed economiche che hanno di lì a poco imposto fondamentali trasformazioni perfino nell’incremento dei traffici. Anche i materiali – e non nutro dubbi che fossero al tempo eccellenti – non sono quelli di oggi. Il progresso tecnologico (e, ancor più recentemente, l’avvento delle nanotecnologie) ne ha mutato sostanzialmente le qualità e incrementato le resistenze. Basti pensare agli acciai e alle filettature che oggi sono prescritte dalla norma, ma anche alla qualità dei calcestruzzi dovuta al miglioramento sostanziale dei materiali di composizione.

Eppure al Ponte a trave strallata, con sostegno a cavalletti bilanciati raddoppiati, deve riconoscersi una qualità ingegneristico-compositiva: pensato in un momento storico finanche privo delle facilitazioni di calcolazione strutturale (e delle relative verifiche statico-dinamiche) che oggi, per via delle strumentazioni sempre più evolute, in qualche maniera contraggono le necessità di impieghi di professionalità in grado di spingersi ben oltre il momento dell’ideazione formale.

Ma nulla è eterno se non adeguatamente curato e sollecitato entro i limiti delle potenzialità, soprattutto per i casi di strutture di tale natura e di tale periodo. E così, al calare degli anni ’70, lo stesso progettista invocava la necessità di interventi manutentivi. Appena venti anni più tardi, intorno alla metà dell’ottanta e in pieno boom economico, l’incremento esponenziale del traffico veicolare e degli scambi merci (con il derivato massiccio utilizzo dei mezzi sempre più pesanti), muoveva la Società Autostrade a proporre con insistenza la realizzazione di una bretella autostradale alternativa, destinata proprio al traffico commerciale, per lo snellimento dei carchi sul troppo sollecitato Ponte Morandi: la Gronda di Ponente. Il ripetutamente dichiarato intenso degrado della struttura sottoposta a ingenti sollecitazioni (da uno Studio di Società Autostrade del 2009, riferito all’incremento del traffico veicolare), è stato forse considerato un grido in mare aperto.

E la Gronda di Ponente non è mai stata edificata, nonostante le insistenze e i reiterati tentativi della Società Autostrade. La progettazione è partita nel 1984 e ha seguito vicissitudini varie, confronti accesi, Conferenze di Servizi, con difficoltà incredibili nelle approvazioni e nel convincimento delle autorità fino ai recentissimi anni. Ma la forte opposizione del Comitato No Gronda non solo ha reso pesante l’iter amministrativo, ma ne ha troncato ogni possibilità di realizzazione. Un percorso progettuale, di dibattiti e scontri, infaustamente terminato nel 2015. La voce di Grillo si è alzata decisa contro la realizzazione della bretella, invocando più volte perfino l’intervento dell’esercito nel fermare i sostenitori (ad esempio, l’11 ottobre 2014 a Roma, Circo Massimo). Posizione ribadita dai grillini e perfino presente sul sito del Movimento, attraverso un articolo che definiva una favoletta la possibilità dell’imminente crollo; articolo rimosso subito dopo il recente disastro. Per chi vuole approfondire: http://www.tgcom24.mediaset.it/2018/video/crollo-ponte-genova-il-no-dei-grillini-alla-gronda-_3081353.shtml.

La Società Autostrade, fallita l’idea di edificazione della bretella, si spingeva dunque verso un nuovo intervento di ristrutturazione del Ponte, quale proseguimento di un’azione intrapresa negli anni ’90 di rinforzo degli stralli, attraverso la disposizione di nuovi cavi esterni che vanno dal traversone dell’impalcato fino alla sommità delle antenne (dalla relazione di Autostrade). 20 milioni di euro stanziati, una gara a procedura ristretta avviata e le relative offerte presentate lo scorso mese di giugno per poi procedere all’appalto nell’autunno a venire. Non si è fatto in tempo.

Non c’è dubbio che il Ponte Morandi fosse ormai pericolosamente deteriorato, non c’è dubbio che fosse assoggettato a sollecitazioni eccessive e crescenti, non c’è dubbio che il ricorso alla chiusura dell’infrastruttura veicolare fosse un’azione da privilegiare. Già, facile dirlo. Ma Ponte Morandi rappresentava di fatto un’arteria strategica che collegava l’intera penisola con il sud della Francia e della Spagna. E non solo. Era il collegamento privilegiato tra due aree di Genova: il centro e la zona levante con Voltri, dove insistono porto e aeroporto. Cosa avrebbe scatenato la chiusura del viadotto in termini di fastidio, di incomprensione, di opposizione?

Dopo le certezze e i non c’è dubbio, voglio invece analizzare le incertezze. Quelle incertezze alle quali un nutrito popolo di dottorali e sussiegosi ritiene di poter dare risposte immediate che si traducono in accuse, recriminazioni, violente minacce. Ma non è così facile riscontrare quesiti che solo l’analisi strumentale accurata e onesta potrebbe sciogliere.

Il primo grande dubbio, il dubbio sovrano in questa triste vicenda, sta nelle modalità con cui la struttura del ponte ha collassato. Un tipo di collasso che non convince: troppo repentino, tanto da tradursi – in pochi istanti – quasi in uno sbriciolamento, in una parziale polverizzazione. Circostanza che si presenta in casi eccezionali, perfino assimilabili alle conseguenze di un’esplosione in prossimità delle fondamenta. Un collasso per ammaloramento strutturale, così come per le fessurazioni sparse e intervenute nel tempo, sarebbe stato più convincente se si fosse tradotto – ad esempio e in forma semplificata – nel piegamento di una campata con distacco in corrispondenza di un giunto di dilatazione in tempi più ragionevoli, oppure in un’apertura verticale/obliqua nel corpo del pilone, oppure nel cedimento di uno (e non quattro contemporaneamente, come dichiarato dal testimone visivo) o due degli stralli con conseguenti deformazioni della struttura in tempi sì ristretti, ma meno contratti. E allora? Allora lo ripeto: a me non convince questo tipo di collasso, questa frantumazione immediata con polverizzazione massiccia, che sembrerebbe non potersi associare a nessuna canonica tipologia di quadro fessurativo, per quanto articolato e preoccupante.

Viene alla mente il caso delle Twin Towers. Ma sappiamo che qui c’è stata una sollecitazione istantanea indotta e ben diversa. Eppure, ancora oggi è un tema aperto al dibattito della scienza globale, visto che alcuni strutturisti di fama internazionale nutrono forti dubbi sull’implosione e sulla polverizzazione delle due strutture, tanto da ipotizzare anche la presenza di ordigni alle basi degli impianti.

E viene alla mente la casa dello studente de L’Aquila. Ma sappiamo che qui c’è stata una causa istantanea naturale e differente. Ma purtroppo, anche in questo caso, la ricerca spasmodica del capro espiatorio aveva generato un tale disordine di informazione da inorridire.

Sul tema delle cause istantanee mi soffermo volentieri a riflettere.

La scarica di un fulmine, che in termini di potenza equivale a quella di un’intera centrale elettrica, costituisce uno scambio di energia che intercorre tra due corpi. Uno di essi è sempre l’atmosfera, l’altro è generalmente il suolo. Quando il secondo corpo non è il terreno, si può assistere a inaspettati disastri. Esistono poi fenomeni incredibili, rilevati da recenti studi a cui ha preso parte lo scienziato Joseph Dwyer, secondo cui alcune folgori, nello scagliare elettroni sulle molecole d’aria ad altissima velocità (da cui discende il fenomeno del tuono), provocano perfino piccole esplosioni atomiche.

Non ho dubbi nell’affermare che dalle immagini video trasmesse in TV il giorno del crollo si è visto chiaramente il passaggio del grosso fulmine, mentre colpiva il ponte proprio in prossimità del pilone centrale. Dall’atmosfera al ponte (il secondo corpo, in sostituzione del suolo) dunque, con un passaggio di energia che mediamente è misurabile in 300 milioni di volt per ogni 100 metri di lunghezza della saetta, oltre che in 18.000 gradi centigradi di intensità di calore.

Questo genere di forza naturale quali dilatazioni può provocare nei ferri di una struttura, peraltro già problematica, al momento dell’impatto, ossia del trasferimento energetico? E una dilatazione repentina per fusione, che potrebbe aver investito per conduzione l’insieme strutturale ferroso a 18.000° (sapendo che il ferro, per sua natura, possiede il punto di fusione a 1.538°), possibile che non susciti la benché minima perplessità?

Dunque, anche il professor Brencich e il sottosegretario Rixi vorranno concedere beneficio all’altrui dubbio quando affermano che il fulmine che ha colpito il ponte (guarda caso nell’esatto momento in cui è avvenuto l’istantaneo crollo) non ha provocato alcunché? E parlo di dubbio, non di quella certezza che emerge dalle sorprendentemente determinate affermazioni, divulgate senza aver prima atteso alcuna indagine, né l’esecuzione di una meticolosa ricognizione dei fatti, anche storici, come invece il prudente Presidente di questa Repubblica ha correttamente esortato a fare.

Altro punto che a me pare inquietante: nessuno finora ha posto il quesito di una possibile problematica incorsa nel sottosuolo di ancoraggio del pilone crollato. Genova e l’intera Liguria posseggono un grado di fragilità geologica ben più elevato di altri territori peninsulari. E ricordo che l’Italia intera è un ambiente fortemente soggetto a rischio idrogeologico. Il giorno del crollo, la città subiva un acquazzone che perdurava da alcuni giorni. Una città che già nei recenti anni è stata messa in ginocchio da violenti nubifragi. Quali condizioni vivesse il sottosuolo in corrispondenza del ponte, è noto? C’è stata una ricognizione recente? Se sì, c’è stato un confronto con le rilevazioni degli anni precedenti? Può essersi determinata un’improvvisa decompressione che ha alterato il già precario sistema di sostegno dell’infrastruttura?

D’altro canto, non è inconsueto che in ambienti fragili il sottosuolo possa subire decompressioni o altri tipi di alterazioni improvvise per via di fattori inaspettati o indotti, naturali o anche antropici. Possibile che questa ipotesi non sia stata presa in considerazione? È dunque lecito introdurre anche tale verosimile causa istantanea nella grande camera oscura del dubbio?

E allora, perché tutto questo chiasso, perché tutta questa sgradevole strumentalizzazione in campo politico, perché questi cancerogeni nei nell’informazione? Perché invece non dare spazio al silenzio, in un momento tragico per chi ha subito lutti, intraprendendo l’unica strada corretta: quella dell’onesta prudenza?

Le componenti che andranno analizzate, per la ricerca della verità,  sono varie e molteplici: il progetto originario nel dettaglio, la rispondenza di questo a quanto è risultato dalla realizzazione, l’evoluzione del sottosuolo nel corso di oltre cinquant’anni, le eventuali sollecitazioni indotte a cui il terreno è stato sottoposto (sia naturali che antropiche, come ad esempio nuove edificazioni o assi viari), il quadro fessurativo intervenuto nel tempo e le dovute comparazioni evolutive, il calcolo delle sollecitazioni effettive rispetto a quelle considerate in progetto, l’incidenza esatta delle opere di manutenzione in relazione agli effettivi bisogni, oltre la già espressa ipotesi del fulmine con verifica del grado di efficacia dei sistemi di messa a terra presenti nella struttura e molto altro ancora.

All’interno del molto altro ancora emerge un elemento che mi si ripropone alla mente nell’ascoltare e nel leggere le tante parole e le altrettante azzardate teorie. Nel corso delle numerose Conferenze di Servizi e dei tanti dibattiti eseguiti fin dal 1984 riguardo l’opportunità di realizzazione della Gronda di Ponente, quale ruolo hanno avuto il Ministero delle Infrastrutture e gli altri organi pubblici certamente coinvolti? È mai stata paventata la necessità di chiudere al traffico il Ponte Morandi per via delle dichiarate problematiche che esso presentava? Come potrebbe non essere stato affrontato questo tema?

Senza contare che bisognerebbe risalire almeno agli anni ’90 per cercare di capire quali inquietanti relazioni intercorressero tra alcuni esponenti dello Stato, la Società Autostrade e il Gruppo Atlantia.

Fatto sta che lo scenario sociale e politico di oggi è raccapricciante. Perfino la gente evacuata dalle case poste sotto o in prossimità del ponte, intervistata lo stesso giorno del crollo, ha messo l’accento quasi esclusivamente sul tema del risarcimento personale, materiale e morale. Poche, quasi nulle, sono state le riflessioni sul più scottante dramma delle vittime.

I politici insistono con pretesti, per scontrarsi e scaricare colpe gli uni sugli altri, recriminando all’impazzata nella spasmodica ricerca del capro espiatorio di turno. Film già visto, doloroso e inquietante, come nel caso del terremoto del 2009. Ne parlerò in altro articolo.

E così ieri 18 agosto, giorno dei funerali di Stato, Autostrade chiede scusa pubblicamente (forse implicitamente ammettendo una quota di responsabilità, pur esortando l’attesa dei riscontri scientifici) e mette a disposizione mezzo miliardo di euro per le emergenze: risarcimenti agli sfollati pari al valore degli immobili con addizione di indennizzo, sostegno alle famiglie in lutto, organizzazione di viabilità alternativa e avvio della ricostruzione del ponte. Il Governo invece non ritiene di dover chiedere scusa e Di Maio risponde così: Lo Stato non accetta elemosine da Autostrade. E già, visto che il Governo ha per adesso stanziato solo 5 milioni di euro, con successivo incremento di quasi 28,5 milioni, che dire? Confidiamo in una maggiore generosità. Che dire di un ministro che si rivolge a un ragazzino nel corso dei funerali con queste parole: Te lo giuro, gli faccio il culo. Sia coerente ed elargisca di propria tasca quella che considera elemosina.

E intanto si risolleva perfino la voce di Grillo per limitarsi a dire che i pedaggi autostradali devono essere gratuiti. Come no? Se è vero, perché è vero, che in Italia i pedaggi sono troppo cari, è altrettanto vero che l’eventuale gratuità – nell’ipotesi di una gestione diretta dello Stato – si tradurrebbe in una maggiorazione delle tasse a copertura delle spese di amministrazione e manutenzione. E gli sprechi pubblici sono ben noti a tutti, come la scarsa capacità manutentiva. Basterebbe fare un giretto per la penisola e vedere in che condizioni versano molti dei ponti in gestione pubblica.

Mi chiedo (precisando che non sto difendendo alcuno) e chiedo: mentre sembrerebbe che una parte del Governo stia facendo qualche passo indietro in termini di rischiose accuse, come può il vice Presidente del Consiglio Di Maio, date le precedenti posizioni del movimento che rappresenta, scagliarsi con sicurezza e acredine verso terzi per non aver fatto ciò che egli stesso riteneva non doversi fare? Come può oggi utilizzare una tale impetuosità nell’affermare che il Ponte avrebbe dovuto chiudersi, dopo lunghi anni di diversa opinione? Lo si potrebbe perdonare soltanto se lo si considerasse, com’io penso, vittima della sua mente, invasa dal soffocante contrasto tra una gloria repentina e un’incosciente esuberanza giovanile.

Un pensiero affettuoso va invece a coloro che stanno agendo con esemplare correttezza: sono gli uomini dei corpi della protezione civile e dei vigili del fuoco, i volontari e gli instancabili cani del soccorso. Sono lì nell’ombra, scavano tra le macerie avvolti da un qualificante e rispettoso silenzio. A questi si deve onore e profonda riconoscenza.

Ludovica e le filastrocche

Ho già presentato Ludovica con un precedente articolo (https://www.elodiarossi.it/ludovica/).

E l’ho fatto anche per annunciare la serata che l’ha vista protagonista: 20 aprile 2018, libreria Mondadori Bookstore di Monterotondo, dove si è parlato del suo libro di filastrocche dal titolo RimaSi, edito da Arbor SapientiaE.

Come potrei tacere adesso, qualche giorno più tardi, avendo avuto l’onore e il piacere di sedere al fianco di questo giovane talento e presentare con lei la sua opera.

Già, perché di opera si tratta, non di semplice volume destinato – come tanti – a riempire gli scaffali dei rivenditori.

In quella serata, alla presenza di un pubblico attento e nutrito, è emersa la dignità di Ludovica, la sua ammirevole moderazione, il suo garbo e, soprattutto, la sua attitudine all’eccelsa arte della penna.

Bellissime filastrocche, dense di significato, pregne di musicalità, senza alcuna presunzione d’imposizione di idee e di morale ma votate a indurre riflessione. Qui – a differenza di molti altri autori – scorgo un elemento di enorme privilegio.

È proprio quest’ultimo concetto che ho sottoposto al mio ragionamento, lungo i giorni trascorsi dalla data dell’evento ad oggi, prima di scrivere ancora.

Ludovica è abilmente moderata, cortese, garbata sia nell’espressività personale che in quella artistica. Tanto da rendere soavi le letture dei suoi brani ritmati.

Ludovica è profonda nei concetti e nelle ispirazioni e, lontana da ogni scorretta imposizione verbale, affronta perfino temi delicati dell’attualità, filtrandoli con l’abilità della traduzione in un linguaggio artistico apparentemente destinato ai soli piccini, ma invero attento alle aspirazioni degli adulti.

Storie in rima – come anche la terza di copertina annuncia – che i bambini possono raccontare ai grandi. Ed è così.

Segue una nobile Prefazione, a firma di Franco Recanatesi, poi una delicata premessa della stessa autrice e, prima della narrazione vera e propria (accompagnata dalla convincente rappresentazione grafica di Sebastiano Onano), una significativa ed emozionante frase anonima viene espressa su foglio bianco:

Nasciamo con i pugni chiusi per tenere stretta, in mano, la nostra vita.

Una giovane ragazza dunque, bella ed educata, che affronta magistralmente tematiche come l’evoluzione dei dialetti, i danni ambientali, le espressività sentimentali, le tragedie umane e tanto altro ancora. E – lo ripeto – al di là della necessaria gioiosità che richiede tale tipo di narrazione in rima, si legge una profondità d’animo che è patrimonio dei soli individui sensibili.

RimaSi è un testo che dovrebbe essere adottato nelle scuole, dovrebbe essere letto in pubblico, dovrebbe essere motivo di attenta e sensibile riflessione sulla vita.

Ludovica cara, ti auguro col cuore che tutto questo avvenga nel migliore dei modi. Ma già – lasciamelo dire – sta avvenendo.

E permettimi, qui in ultimo, di trasferire uno stralcio della tua dedica riportata nel libro. Lo sai che ci tengo particolarmente.

…Un grazie, grande così,

ai miei genitori che, con amore,

hanno cullato questo sogno,

fino a trasformarlo in realtà.

LUDOVICA

Roma, fine ottobre 1993. Ero piazzata sull’uscio di casa, mentre il mio grande amico Carlo D’Erasmo saliva le scale e, sprizzando felicità, mi annunciava: sta per nascere, manca poco.

Beh, risposi scherzando, vedrai che nasce il 4 di novembre. È il tuo onomastico e anche il mio compleanno. Porta bene.

Sembrava un gioco e invece, già allora, Ludovica ci sorprese e nacque esattamente il 4 novembre.

Una bella bambina, diventata presto una bella ragazza e, oggi, un’affascinante signorina (eccola in una foto recentissima). Cresciuta in una famiglia deliziosa, con la mamma Angela e il papà Carlo dai caratteri positivi e ottimisti, Ludovica è sempre sorridente, felice di vivere, solare e talentuosa.

Tra le tante sorprese che hanno inorgoglito i suoi genitori (e anche me), la più recente è davvero straordinaria. Forse per divertimento, da un po’ di tempo Ludovica ha iniziato a scrivere filastrocche, dimostrando immediatamente un’attitudine straordinaria e decisamente singolare. Già, perché non è consuetudine dimostrare abilità nello scrivere versi – visto che di versi si tratta – di questo genere. È un dono, io credo, e non basta avere una buona penna. C’è bisogno di quel “di più” in cui è raro incappare.

E infatti, mentre oggi la poesia ha smarrito la metrica – a mio parere (apparentemente) facilitando l’attività dei poeti e, di contro, rendendo più complessa l’individuazione del vero artista – la filastrocca richiama alcuni canoni metrici del passato poetico per mescolarli a una necessaria dose di spensierata fantasia, imponendo così qualità artistiche molto rare. Non è un caso che il mondo è pieno di scrittori e di aspiranti tali, infinitamente meno di autori di filastrocche.

Brava la nostra Ludovica. I tuoi genitori e io siamo fieri di te.

E orgogliosamente ci piace dire che anche il mondo letterario si è accorto del tuo talento e ti sta premiando.

Permettimi di invitare alla tua serata (in locandina) tutti quelli che leggeranno questo mio breve articolo, lasciando a chi vorrà partecipare una dose di mistero che ora non intendo svelare. Perché parlerò ancora di te, in un prossimo articolo più denso, dopo l’evento.

Avrai capito, dunque, che ci sarò alla serata di venerdì prossimo, felice di averti vista crescere così bene.

 

Il dolore delle Vele di Scampia

È un urlo di dolore quello che lanciano le Vele di Scampia. Un urlo che segue una lunga sofferenza, fatta di abbandono, tradimento, incomprensione, trascuratezza, incuranza. Oggi non hanno colore, sono giganti addolorati che piangono e chiedono aiuto. Eppure sono lì, ancora in piedi, nonostante tutto. Non tutte però, visto che ormai se ne contano soltanto quattro sulle sette iniziali. Tre sono state abbattute tra il 1997 e il 2003, già in condizione di forte degrado a soli vent’anni o poco più dalla loro solenne nascita.

Opere maestose, studiate abilmente per accogliere residenze sociali, diventate immediatamente un simbolo per gli architetti e per tutti coloro che hanno il senso dell’estetica. Francesco Di Salvo, il progettista, aveva saputo guardare ben oltre la produzione architettonica che aveva caratterizzato gli anni sessanta (momento in cui iniziò l’edificazione), offrendo un contributo straordinario di innovazione – perfino futuristica – al decennio successivo: gli anni settanta, quando le vele s’ersero in tutto il loro splendore. Di Salvo ebbe appena il tempo di vederle compiute (nel 1975), per donarle all’universo delle forme magistrali e poi morire nel 1977, poco più che sessantenne.

Mai avrebbe pensato che si sarebbero susseguiti anni di incuria amministrativa, lunghi periodi di trascuratezza, che sarebbe sopraggiunto l’impeto degli occupanti abusivi ai tempi del dopo terremoto, che l’incapacità dei deputati al governo urbano non avrebbe consentito di vedere oltre e riconoscere in quelle opere il grande merito di essere state progressiste, di aver largamente anticipato un orientamento architettonico che, destinato a durare, emana ancora la sua espressività.

Le vele di Scampia sono state emulate (talvolta perfino copiate, permettetemi il termine), nella loro essenza formale, da numerosi progettisti di lì a venire e non soltanto italiani. Ho in mente molti di questi casi e, senza voler manifestare apertamente quelli che considero usurpazioni evidenti, faccio timido cenno ad alcune manifestazioni recentissime di edifici-giardino, opere di grandi studi di architettura, i cui impianti sembrano ricalcare non poco quelli delle Vele.

Hanno ispirato film, libri e perfino poesie. Ora il Comune di Napoli ha deciso di procedere all’abbattimento di altre tre. Ne rimarrebbe una soltanto, da destinare a uso pubblico/sociale (centro di accoglienza).

Ventisette milioni di euro (così si dice) stanziati per l’abbattimento e via, dunque, a un programma di riqualificazione con mutazione della destinazione d’uso per la sola Vela che resterà in piedi. Perché?

Perché non consegnare i ventisette milioni all’avvio di un programma di riqualificazione complessiva delle Vele e del quartiere che le ospita? Saranno pur pochi, ma potrebbero bastare per la messa in sicurezza e per le prime operazioni di completamento. Potrebbero bastare, se si lavorasse con criterio, magari affidando appalti per settori (e non l’appalto complessivo) a ditte locali di modeste dimensioni, favorendo l’economia e salvando l’architettura. Perché è di architettura che si sta trattando: architettura lucida, esemplare, tronfia di criteri progettuali incontestabili.

Perché lo stesso Ente che non ha avuto la capacità di evitare il degrado, senza scrupolo oggi s’erge a giudice supremo che ne sentenzia la morte?

Dov’è il Ministero dei Beni Culturali? Come può consentire un tale scempio e non sostenere, al contrario, un programma intelligente di valorizzazione di un bene che, come pochi, ha positivamente influenzato gli anni a venire.

L’architetto Luigi De Falco ha lanciato una petizione attraverso Change.org: Salviamo le Vele di Scampia dalla demolizione. Io ho firmato. Salviamole.

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