Elodia Rossi

Ponte Real Ferdinando

Le forme dell’architettura monumentale di tutti i tempi hanno relazioni inscindibili con i processi storico-culturali che le hanno generate. E la concreta comprensione di un manufatto si avvera soltanto quando è viva la consapevolezza degli avvenimenti che esso rappresenta.

Il basso Lazio ha avuto un ruolo importantissimo nell’evoluzione della storia italiana, sia dal punto di vista ambientale che monumentale che politico. Anche da una superficiale analisi è facile comprenderne la portata. Si pensi, ad esempio e con ampio respiro, all’incidenza secolare per la definizione amministrativa dell’attuale Repubblica. Si pensi, più circostanziatamente, alla Roccaforte di Gaeta, dove Re Francesco II di Borbone nel 1860, lasciando Napoli e attraversando il ponte sospeso di Minturnae, installò l’ultima base operativa per la difesa del Regno dalle truppe di Vittorio Emanuele II di Savoia. Del massacro che ne è derivato – infame affronto privo finanche di dichiarazione di guerra – sono state rinvenute testimonianze inequivocabili, perfino recentemente.

 

Dedicato al Re di Napoli Ferdinando II di Borbone, il Real Ponte è stato edificato nella prima metà dell’Ottocento e terminato nell’anno 1832. Collega la sponda laziale con quella campana del fiume Garigliano. Affascinante struttura a catenaria ferrea, s’erse a privilegiato esempio di architettura industriale nel corso del Regno delle Due Sicilie.

Nato su idea del geologo Carminantonio Lippi, compiuto su progetto dell’ingegnere Luigi Giura (a seguito di incarico diretto di Francesco I di Borbone), è stato il primo ponte sospeso mai realizzato in Italia. Al tempo, qualche esempio era presente in Austria, in Inghilterra e in Francia. Quando iniziarono i lavori di edificazione, nel 1828, la stampa inglese non mancò di esprimere perplessità sulla capacità dei napoletani di realizzazione di un’opera così complessa (in particolare, in riferimento alla gestione delle oscillazioni dovute all’impiego della lega ferrosa). Invece e proprio nel 1828 – quasi come una punizione – i ponti inglese, austriaco e francese ebbero problemi (il parigino, addirittura, crollò) e vennero chiusi. Il Real Ferdinando, al contrario, rivelò una perfezione tecnica e tecnologica al tempo ineguagliabile e ancora oggi sorprendente. L’ingegnere Giura, per aumentare la robustezza del ferro destinato all’opera, fece addirittura produrre appositamente una lega al nichel. Ideò peraltro un irrigidimento meccanico delle travi tramite trafilamento, consegnando al manufatto un’inaspettata resistenza alla corrosione. I materiali giungevano tutti, rigorosamente, dal Regno delle Due Sicilie.

Grande testimonianza in cui ingegneria e architettura si fondono magistralmente. Le forme del Real Ponte sono spettacolari: marmorei e artistici piloni (le quattro torri di sostegno), quattro blocchi parallelepipedi (gli ammarri, due in partenza e due in arrivo) a cui sono ancorate le grandi catenarie di bilanciamento e sovrastati ognuno da una sfinge in pietra grigia.

Spinta innovazione ingegneristica e architettonica del tempo. Ma Giura, prima di iniziare la progettazione del Ponte, aveva affrontato un viaggio per vedere da vicino le opere similari già edificate. E probabilmente fu proprio quel viaggio, in particolare nella Francia ancora fortemente intrisa dell’Impero di Napoleone, a orientarlo nelle forme.

D’altro canto, il neoclassicismo dello stile imperiale aveva già preso piede in molti Paesi e non poco si sentiva l’impulso formale che lo stesso Napoleone aveva consegnato dopo la campagna d’Egitto.

L’armonico mescolamento di configurazioni e materiali antichi e nuovi, l’integrazione tra questi, oltre la stupefacente scelta ingegneristica, fanno del Real Ferdinando un’opera di grande fascino e superba riuscita.

Le torri marmoree sono alte 7 metri e hanno un diametro di base di 2,5 metri. Al pari delle sfingi, anche i capitelli delle torri evocano le architetture egizie. Le doppie catene, passanti all’interno delle torri, misurano 129,50 metri ognuna, l’impalcato sospeso è largo 5,50 e lungo 80,40 metri.

Con orgoglio si può dire che il Real Ferdinando, pur non essendo stato il primo esempio in Europa di ponte sospeso, di certo è stato il primo ad aver funzionato senza cedimenti.

Praticamente inglobato nella Linea Gustav, purtroppo nel 1943 la campata unica è stata assoggettata a bombardamenti e minata in due differenti punti, dopo il transito dei tedeschi in fuga.

Ciononostante le torri e gli ammarri con sfingi ne uscirono quasi illesi. E ciononostante, la struttura ferrea diede manifestazione della sua potente qualità.

Dovettero passare molti anni e finalmente, nella seconda metà degli anni ’90, s’intervenne con un progetto di restauro archeologico industriale (su finanziamento comunitario). L’inaugurazione e l’apertura al pubblico avvenne nell’anno 2001.

È un’opera bellissima, unica, testimone privilegiato tanto dell’epoca borbonica quanto di quella bellica più recente.

Magistrale perfino l’integrazione della composizione architettonica nel contesto, l’espressività che la visuale dona dall’una all’altra sponda, attraverso l’alternarsi dei basolati di confine alle corpose assi lignee di passaggio interno.

Questo breve articolo vuole rappresentare un piccolo omaggio alla mia terra, bella e addormentata.

Il Reflecting Absence

Affezionata a questo articolo, lo ripropongo.

Non bastò un incendio (anno 1975), non l’esplosione di una potente bomba (anno 1993) a far crollare le Twin Towers. Ci volle l’efferato attentato terroristico dell’11 settembre 2001 per assistere all’amaro sgretolamento di due degli edifici più alti e affascinanti del mondo.

Orgoglio indiscusso del World Trade Center, con 110 piani e oltre 400 mt di altezza ognuna, a simboleggiare sì il luogo privilegiato della finanza mondiale, ma anche della potenza dell’architettura. Nel derivato Ground Zero si è respirato e si respira ancora aria di dolore.

Tuttavia in quel luogo oggi, più che mai, impera l’architettura che non dimentica, che evoca, che celebra, che si oppone con sdegno al terrore. E lo fa con un senso di pacatezza impalpabile, nobile contrasto al frastuono dei crolli.

In quel luogo oggi si distingue il ricordo, si percepisce il dolore nel momento stesso in cui si avverte l’affermazione della rivincita. È l’architettura che parla: superbo ponte che collega ciò che è stato con ciò che è e che sarà.

Daniel Libeskind è l’autore del progetto di ricostruzione dell’intero complesso, all’interno del quale s’erge la torre One World Trade Center (o Freedom Tower), alta 1776 piedi ad evocazione dell’anno della dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti.

Internamente – opera nell’opera – s’apre il Memorial Plaza, un giardino piantumato di querce bianche, progettato dagli architetti Peter Walker e Michael Arad. È qui dentro che sono contenute due enormi vasche in granito (il Reflecting Absence), scavate in profondità, a ricalcare esattamente i perimetri che contenevano le fondamenta delle Twin Towers.

Lungo i bordi sono incisi, scolpiti, tutti i nomi delle vittime dell’attentato, mentre sulle pareti interne scorrono cascate d’acqua silenziose. I liquidi si riversano sui fondi per poi scomparire all’interno di impluvium centrali di forma quadrata.

Il Reflecting Absence è un luogo in cui è esaltata la geometria pura, quale segno – a mio avviso – della compostezza che si deve a un memoriale. Avvolto in un silenzio magico, spinto verso la sacralità, lontano dal frastuono urbano, non infranto da alcun rumore dei visitatori che, rapiti dalla bellezza evocativa, osservano estasiati.

Aperto al pubblico esattamente 10 anni dopo l’attentato, nel settembre 2011, ha vantato una cerimonia d’inaugurazione senza precedenti. Il mondo ha tremato.

E pensare che una malconcia massa di newyorchesi ha protestato nel corso della costruzione, tra l’altro adducendo che le vasche avrebbero dovuto essere interamente fuori terra. Incomprensibile ambizione, per la verità. Ma la storia si ripete, sempre.

Come disse Ben Jonson agli albori del Seicento, l’arte ha un nemico chiamato ignoranza. E Johann Wolfgang Von Goethe nell’inoltrato Settecento, nulla è più terribile dell’ignoranza attiva. Bisogna non curarsene.

E difatti il Reflecting Absence è una delle opere più belle ed evocative del mondo. Meta di turismo d’ogni tipo, luogo di intima meditazione, di fascino, di sublimazione dell’essere e dell’essere stato. Omaggio esemplare e sentito ai morti e ai sopravvissuti – assenza e presenza – di quella tragedia.

Stando lì dentro, respirando quell’architettura, sembra di comprendere senza sforzo l’equazione del mondo.

Le foto sono state scattate da me nel 2014, ma nessuna immagine potrà mai trasmettere l’emozione, le sensazioni, le evocazioni che si provano visitando quel luogo.

PIAZZAFORTE DI GAETA

Dal punto di vista urbanistico/architettonico, l’antica Piazzaforte di Gaeta corrisponde al tronco urbano più interno che si prolunga suggestivamente sul mare. La Prima Porta è il varco di accesso principale. Più avanti si trova la Seconda Porta, altrimenti detta Porta di Carlo V o Porta della Cittadella, che per molto tempo ha costituito l’unico accesso alla città fortificata. È qui che esplodono le emergenze più importanti dello stratificato tessuto.

Credo che sia sbagliato parlare – come spesso mi capita di leggere – della Piazzaforte di Gaeta quale ambito territoriale semplicemente prossimo ad alcune emergenze che, nelle epoche belliche, hanno avuto ruoli difensivi primari (come il Castello e l’ex struttura carceraria): ruoli mai scissi da quelli esercitati dagli altri beni di attacco o di difesa. È mia convinzione invece che sia corretto considerare la Piazzaforte inclusiva di questi magnifici elementi storico-architettonici.

Perché la Piazzaforte non è soltanto fatta delle polveriere poste sul Monte Orando e dei resti di cadaveri e dei rinvenimenti minori che nel tempo sono emersi: L’intera Cittadella di Gaeta, col Castello e l’ex struttura carceraria e altro ancora, fanno parte di diritto dell’insieme della città fortificata. E perché – se sui Borboni voglio soffermarmi – ognuno di questi beni ha avuto ruoli determinanti fino alla tragica caduta del Regno di Napoli (o Regnum Siciliae citra Pharum).

Gaeta ha una storia densa e complessa che parte dall’VIII Secolo a.C. e il risultato che oggi si osserva (in termini di aspetto urbano) è decisamente eterogeneo. Dunque, inseriti in un contesto vario e ricco di testimonianze monumentali di differenti epoche, al di là dell’imponenza del Kastrum, i beni che narrano l’affascinante storia dei Borboni spesso appaiono nascosti, non facili da individuare.

Vado per ordine.

Già l’Impero d’Oriente aveva strutturato una prima fortificazione (600 d.C), ma il Medioevo aveva consegnato alla città una vera e propria fortezza: il Kastrum Gaetani, probabilmente risalente al 900. Questo diveniva poi un Castello compiuto nelle forme, per opera dell’Imperatore Federico II di Svevia che, nella prima metà del XIII Secolo, aveva intuito l’enorme valore strategico della città. Gaeta si trasformava così nella porta d’ingresso al Regno delle due Sicilie e Alfonso d’Aragona, nella metà del ‘400, dotava la città di un nuovo Castello. È stato poi Carl V, nel Secolo successivo, a collegare e inglobare i due Castelli in fortificazioni bastionate che divenivano quindi la vera prima Piazzaforte del Regno di Napoli e una delle più dotate d’Europa. Questo genere di impianto, non di certo consueto, peraltro trovava una maggiore consapevolezza artistico-formale proprio nel periodo borbonico, quando Federico II di Borbone faceva impiantare la Cappella Reale all’interno della cupola della Torre più alta del Castello (oggi detta Torre di Gaeta). Era il 1849.

Con i suoi 14.000 mq e oltre, imperante all’interno del Centro Storico e dell’antica città fortificata, il Castello è dunque oggi la fusione di due strutture difensive: angioina e aragonese, con perfezionamenti borbonici.

Ed era ancora la metà dell’800 quando veniva innalzato il ben noto Ex Carcere: inserito in un impianto viario ed edilizio d’impronta medievale, nato come Padiglione di Città, voluto da Ferdinando II di Borbone, è stato edificato negli anni appena precedenti all’assedio al fine di incrementare Gaeta della dotazione di strutture militari. Assolutamente in linea con lo scopo primario degli interventi borbonici avvenuti tra il 1850 e il 1853, tramite sventramenti interni al tessuto urbano pregresso, c’era quello di edificare un’imponente rampa per l’accesso dei cannoni nella città fortificata.

Esternamente il Padiglione di Città è oggi, come allora, un edificio di grandi dimensioni in muratura tufacea, a pianta rettangolare con fronte circolare. Conta due piani, possiede un ingresso a cui è anteposta una scalinata; a nord l’edificio si apre al termine di un forte pendio.

Non molto tempo dopo il nefasto evento dell’assedio di Gaeta, nella seconda metà dell’800, la struttura veniva trasformata in carcere. Tra il ’70 e l’80 dello scorso Secolo l’edificio è stato assoggettato a un imponente intervento di recupero prevalentemente strutturale, nel corso del quale alcuni elementi caratterizzanti la sua fattezza stilistica (come le pavimentazioni) sono stati mortificati e impropriamente sostituiti. Ne è stata nuovamente mutata la funzione in uffici comunali, per poi tradursi – attuale utilizzo – in alloggi per famiglie indigenti, nonostante sia soggetto alla legge di tutela 1089/39. Gli esterni sono a disposizione di chiunque voglia ammirarli. Per gli interni, niente da fare: bisogna spulciare le antiche mappe. Eppure, la conoscenza di questo monumento è fondamentale per la comprensione dell’intero nucleo difensivo di Gaeta.

Le emergenze borboniche raccontano, si sa, una storia forte e dolorosa che riguarda l’intero territorio italiano e la sua trasformazione fisico-amministrativa. L’assedio di Gaeta del 1861 (ultimo dei quattordici assedi della città, a partire dalla sconfitta del Ducato), promosso dai Piemontesi, oltre a mietere troppe vittime, trasformava un territorio abbattendo – a colpi di cannone a retrocarica (sperimentati per l’occasione) – monumenti e beni d’ogni natura. Era la fine del Regno dei Borboni e l’avvio del percorso di unificazione dell’Italia. Ciò che ha resistito tuttavia non è poco e l’attuale immagine dell’area che ha ospitato il sistema difensivo borbonico è ancora altamente suggestiva.

La storia qui si mescola con quella del Ponte Real Ferdinando. Da quest’ultimo – come ho raccontato (https://www.elodiarossi.it/ponte-real-ferdinando/) – salivano le già provate truppe del Regno, in fuga da Napoli, per giungere a Gaeta e impiantare la difesa nella città fortificata, fino alla vetta di Monte Orlando, luogo privilegiato di avvistamento.

Dunque, un ambito monumentale caratterizzato da espressioni di molti Secoli, tradotto in un processo di integrazione fisica lungo e sofferto che vede nel passaggio borbonico il momento che consacra – seppur dolorosamente – la sua compiutezza formale e risponde compatto a un’esigenza di difesa: è la Piazzaforte. Il passaggio borbonico è quindi un collante che trasforma, richiamando una specifica funzione, l’eterogeneità in insieme.

Le recenti trasformazioni nell’utilizzo dei numerosi beni monumentali della Piazzaforte hanno forse offuscato il ricordo, tradotto in percezione, del tragico ultimo assedio e la sensazione del passaggio borbonico non è immediata.

Spero di aver consegnato – seppur sinteticamente – un credito al tema funzionale, tramite questa mia breve lettura delle testimonianze fisiche che hanno attivamente partecipato all’ultima eroica azione di difesa dei Borboni.

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