Elodia Rossi

Architettura Violata

Ecco che ritorna il tema della violazione dell’architettura. E naturalmente il contesto di riferimento è l’Italia.

Da dove partire? Dall’affermazione, ormai nota, secondo cui Quella degli architetti è la categoria più infetta. Meglio l’Italia dei geometri? Francamente non so neppure se ne vale la pena. Ma è uno stimolo, in qualche misura, per affrontare temi molto interessanti.

In Italia, dal dopoguerra ad oggi, l’impeto di azioni edilizie sconsiderate è stato devastante. Si stima, per difetto, che la produzione dovuta ai geometri copra almeno l’ottanta/novanta per cento della complessiva. Ciò significa che le distruzioni dei paesaggi, cui si assiste in ogni luogo (specie nel Mezzogiorno), non è dovuta agli architetti. E questo è un dato di fatto.

Colpa dei geometri? Non credo. D’altro canto, ognuno produce ciò che gli deriva da capacità e formazione. La vera responsabilità è dovuta a un sistema legislativo e amministrativo incoerente, superficiale e corrotto. Un sistema che non tiene conto degli aspetti formativi, né di quelli relazionati alle capacità personali. Così, un geometra è titolato a fare ciò che, per competenza, spetterebbe agli architetti e agli ingegneri (ognuno per le proprie specifiche professionali). Tant’è che gli Ordini Professionali degli Architetti e degli Ingegneri, riuniti, hanno avanzato una causa nei confronti del potentissimo (dato il numero di iscritti) Collegio dei Geometri. Ed è stato necessario giungere in Cassazione. La Corte si è pronunciata sul tema nel 2009, chiarendo i limiti delle competenze dei geometri e sancendo il divieto di subordinazione dei tecnici laureati da quelli non laureati. Cosa che avrebbe dovuto tempestivamente produrre effetti amministrativi nelle PP.AA., come l’immediata sostituzione dei geometri negli Uffici Tecnici a vantaggio di tecnici laureati. Ovviamente ciò non è accaduto.

Ritengo che il mestiere di geometra sia lodevole, ma – come per ogni mestiere – limitatamente alla sfera di azione delle competenze specifiche. Ritengo che il mestiere dell’architetto conservi, per percorso formativo, delle prerogative che non possono essere scavalcate.

Chi ritiene che quella degli architetti sia la categoria più infetta, senza analizzare quale derivazione abbia lo scempio del paesaggio italiano, parla senza fondamento. E semmai l’affermazione fosse riferita al tentativo, purtroppo ancora timido, che l’Italia sta facendo nell’avvicinarsi all’innovazione architettonica contemporanea, beh, allora siamo di fronte a un’incapacità evidente di comprendere i processi evolutivi internazionali. È una chiusura nei confronti della ricerca appassionata, quel genere di ricerca che ha prodotto l’alternanza delle fasi storiche dell’architettura, che ha dato forma anche al lodevole passato, che ne ha consentito il progresso.

Ma l’Italia, che nei tempi andati è stata maestra, oggi subisce la sua magnificenza storica. Questione che ho già affrontato in altri articoli: Un problema di cultura, Architettura contraddetta, Uno stadio per Roma, eccetera. L’agonizzante senso di malinconia produce poca reazione e troppa emulazione. La visione del futuro è contratta e alterata, il passo è debole.

Disturba che voci così stonate giungano da chi ha un rapporto privilegiato con l’arte (perlomeno, con certe arti). Ma non importa. È evidente che si tratta di considerazioni fondate su elegiaci appigli ai tempi che furono. O, più semplicemente, di provocazioni a cui non bisogna prestare il fianco. Dispiace soltanto che l’eco possa ingigantirne il peso e rallentare ancor più i processi evolutivi dell’architettura italiana. Già – e più volte – abbiamo ascoltato pensieri preoccupanti, giunti tramite i media da esponenti elevati di diverse discipline. La responsabilità che ne deriva è grande e dovrebbe pesare come un macigno su chi si fa portavoce di certe affermazioni.

D’altro canto l’architettura non è per tutti, sebbene sia di ognuno. E certamente non può essere di coloro che non affidano alla sperimentazione formale, all’innovazione, il valore inestimabile della crescita culturale.

L’incubo del lamellare

Per sintesi ho titolato questo articolo L’incubo del lamellare, ma un titolo più corretto e coerente sarebbe L’incubo di come generalmente viene usato il legno lamellare in Italia.

Chiarisco. Il legno lamellare, materiale di nuova generazione, è un prodotto composito che viene realizzato attraverso l’incollaggio a pressione di tavolati lignei, dopo averli sottoposti a processi tecnologici che ne migliorano alcune qualità, come il rapporto tra resistenza meccanica/peso e la resistenza al fuoco. Però, al contrario di affermazioni che trovo errate, le qualità estetiche del materiale puro vengono alterate. I processi di invecchiamento, che donano al legno un fascino particolare, per il lamellare non producono i medesimi risultati, né l’aspetto estetico iniziale può paragonarsi in tutto a quello del materiale d’origine.

Ciò non significa che il lamellare non possa (o debba) avere uno spazio di riguardo nel panorama odierno dell’edilizia e dell’ingegneria. Anzi. Ma ciò che fa la differenza è proprio il modo con cui viene impiegato. Per le caratteristiche proprie di contemporaneità, il lamellare dovrebbe essere utilizzato in ambienti innovativi e con tecniche estetiche altrettanto innovative. Purtroppo, come spesso capita per gli usi impropri di altri materiali di nuova generazione, soprattutto in Italia, l’utilizzo del lamellare viene relegato alla creazione di capriate e sovrastanti coperture, più o meno articolate, in mera sostituzione delle travi lignee. O anche alla creazione di portici e porticati massicci e grossolani, con travi fuoruscenti  di sproporzionata sezione: inqualificabile ostentazione priva di idea formale ragionata. E ciò accade in ogni dove, perfino in ambienti vallivi o in quei rari luoghi ancora caratterizzati da architetture consapevoli, iniziandone così la devastazione. Si persevera nell’inquietante ambito della finzione. E piace talmente fingere che, come un virus dilagante, l’uso scorretto del lamellare si propaga senza tregua, definendo scenari ambientali di cattivo gusto e interni aberranti.

Ovviamente e proprio per via della simulazione, il risultato è perlomeno mediocre. Basti – ad esempio – confrontare una copertura con capriate naturali e una, analoga, con lamellare. L’evidenza è disarmante.

Invece, in altri luoghi del mondo, il lamellare sta riscuotendo il giusto successo attraverso utilizzi d’avanguardia e idee architettoniche vincenti. Personalmente, ho avuto modo di vedere a New York (e non solo) impieghi entusiasmanti: come per i casi di coperture ricurve di grande impatto estetico. D’altro canto una delle caratteristiche di questo materiale è la straordinaria possibilità di sagomatura. A titolo esemplificativo, l’involucro dell’ambiente australiano che si trova sul sito http://www.buildingecosystems.com non è forse affascinante e innovativo?

Poi, senza arrivare all’esame dello splendido progetto di uno stadio totalmente ligneo, opera di Zaha Hadid, dove il lamellare esplode nelle sue vere qualità e, date le forme architettoniche, anche nella sua esuberante essenza estetica, basterebbe dare uno sguardo ad altre felici applicazioni (e ce ne sono davvero molte) di grande ispirazione per l’architettura abitativa. È il caso, tra gli altri, del Live Oak Bank Headquarters in Wilmington, quartiere progettato dallo studio LS3P Associates, dove legno naturale e lamellare si uniscono per dar vita a unità abitative esteticamente caratterizzate da un interessante effetto cadenzato, rafforzato dalle ampie vetrate.

Impieghiamo quindi il lamellare nelle corrette modalità, evitando grossolane imitazioni e studiandone le potenzialità e la versatilità, anche ricercando forme innovative, così da perseguire veri risultati architettonici adeguati alla contemporaneità.

Un problema di cultura

I processi d’innovazione che coinvolgono tutte le arti, dunque anche l’architettura, rispondono a substrati culturali collettivi e individuali.

Il danno che deriva dall’errato recepimento delle linee evolutive globali da parte del singolo (che non può certamente essere considerato artista), per via del substrato culturale individuale, generalmente resta relegato a un certo numero di azioni proprie dell’autore. Capita anche che si riescano a generare emulazioni con amplificazione del danno, che rimane tuttavia circoscritto, dunque attaccabile e rettificabile.

Diversamente, quando il substrato culturale è generalizzato, ossia appartenente alla gran parte di una popolazione, il danno che ne deriva può assumere dimensioni preoccupanti e disastrose. È, a mio parere, ciò che accade in Italia nei confronti dell’architettura. Inutile convincersi che nel nostro Paese ci sia una vera presa di coscienza riguardo l’innovazione, soprattutto formale. Non c’è e le produzioni edilizie (che evito di chiamare architettoniche) ne sono la conferma. Né giungono in soccorso i pochi episodi di apertura nei confronti del crescente e nuovo percorso di ideazione architettonica, di cui invece testimoniano ampiamente le realizzazioni di altri Paesi. Restiamo all’ultimo posto in Europa.

Ho analizzato a lungo la questione. Ne ho analizzate le motivazioni. E ho maturato una mia opinione.

Il problema viene dal passato. Dalla elegiaca interpretazione di un passato glorioso che, contrariamente, ci ha visti perfino attori nel contesto internazionale. Oggi l’Italia è vittima del suo stesso passato che, invece di tramutarsi in spinta costruttiva, determina un arresto (se non, addirittura, un grosso passo indietro) nel concepire le forme dell’architettura secondo un percorso dettato dai tempi, dalle nuove esigenze, dai nuovi materiali, dall’epoca della globalizzazione. Un arresto del progresso, dunque.

Se Michelangelo, nel progettare la Cupola di San Pietro, avesse nostalgicamente ricondotto la sua arte formale alle magistrali produzioni dei Secoli precedenti, credete che avrebbe ottenuto lo stesso risultato? Credete che la sua maestria – di architetto, ingegnere, artista, ricercatore e innovatore – sarebbe stata ugualmente riconosciuta? Avrebbe ottenuto gli stessi spazi nei libri di storia?

Ciò che sorprende particolarmente è che alcuni uomini di cultura si facciano portavoci di questa linea involutiva. Bisogna prestare attenzione e riconoscere che generalmente non si tratta di architetti, ma di storici dell’arte o altre figure similari che – evidentemente per una specie di morbo loro inflitto dallo studio accurato del passato – non hanno sviluppato dimestichezza con l’innovazione e con gli scenari di lungo termine.

Ma il popolo ascolta, i media incalzano, la gente emula – spesso anche i professionisti – senza porsi troppe domande. La ricerca, quella vera, quella che spinge verso l’interpretazione soggettiva della forma in un contesto evolutivo mondiale, è annientata.

Né giunge in aiuto la generalizzata indole degli italiani: santi, poeti e navigatori tutti nostalgicamente retrogradi.

Cosa si potrà raccontare a chi verrà domani? Perché proprio chi verrà domani avrà il peso enorme di dover correre per ritornare al passo.

Architettura Contraddetta

Voglio riprendere un concetto che ho riportato nella sezione BIO di questo blog.

C’è un’enorme letteratura sul Colosseo, tanto da essere noto anche a chi non lo ha mai visto. Ma che senso avrebbe costruire un edificio, oggi, a immagine e somiglianza dell’Anfiteatro Flavio? Sarebbe come indossare un costume da gladiatore per andare in ufficio. Ma perché, se questo concetto è chiaro in abbigliamento, rimane oscuro in edilizia? Si continua a costruire come un tempo, a imitare forme di un tempo, con materiali di un tempo.

Ora voglio approfondire il tema per mettere in evidenza la contraddizione che vive oggi l’architettura.

Chi andrebbe in ufficio vestito da gladiatore? Nessuno, credo. Oppure solo qualcuno: un provocatore, un contraddittore, un folle.

Come sarebbe visto dagli altri? Risate, derisioni, finti compiacimenti.

Eppure, nell’antica Roma era un abito usuale. Come quello della cortigiana, quello del poeta, quello del Senatore. Ma lo vedreste uno dei nostri Senatori presentarsi a Palazzo Madama conciato come allora?

Concetti banali, vero? A nessuno verrebbe in mente di rifletterci sopra. Gli usi, i costumi sono andati avanti, sono progrediti, si sono più o meno evoluti. Qualche volta i grandi artisti della moda si ispirano a elementi del passato, ma in forma nuova, con approccio differente, con risultati decisamente diversi.

Adesso bisognerebbe pensare ad alcuni paesaggi, osservandone l’edilizia (naturalmente, spostandosi fuori dai nuclei storici, per i quali il discorso assume differenti forme di cui parlerò). A meno di realtà molto rare, sembrerà di vivere in altri tempi: ma solo ad un primo impatto! Case “in stile” più o meno azzeccato, trionfi di pietrame “finto antico” ad adornare le pareti, sontuose scalinate con ringhiere lavorate e smaltate emulando forme e tecniche trascorse, tegole cosiddette “antichizzate” ossia maldestramente pitturate come fossero ricoperte di una patina di muffe multicolore, legno lamellare malamente impiegato per ricalcare coperture montane anche in condizioni ambientali sfavorevoli, e via dicendo. Un delirio!

E non sia mai si visita l’interno di una di queste abitazioni! Niente di più facile è trovarvi qualche stucco “finto veneziano”, qualche pitturazione a spugna con trionfi di colore magari fluorescenti, finti parquet, finti marmi, finti rivestimenti. Insomma, “finto” è la parola d’ordine.

Ma perché?

Non c’è niente di più squallido della finzione.

Perché i maestri della moda hanno saputo reggere il passo e trasmettere il messaggio dell’innovazione, costantemente, risolutamente, correttamente? Perché i maestri dell’architettura non sono stati altrettanto capaci, ai tempi d’oggi?

Già, ai tempi d’oggi. Visto che è pur vero che in altre epoche il passo era coerente, eccome. Le caratterizzazioni formali dei vari stili architettonici sono chiare a tutti: il gotico, il barocco, il rinascimentale, eccetera. E ne è chiara la cadenza temporale. Ma oggi? Quali sono i riferimenti? Quali le indicazioni per il nuovo “edificare”? Quanto ne sa la gente?

Poco, direi, visto ciò che si “ammira”. Com’è dunque possibile che nell’epoca dell’innovazione, quella vera, la regina delle arti sia così drammaticamente mortificata? Com’è possibile che la grande produzione di nuovi materiali, spesso derivati da eccelse applicazioni della ricerca d’avanguardia (si pensi alle nanotecnologie), sia poi orientata all’emulazione delle forme e dei colori del passato?

Molti di questi nuovi materiali, così diversi in consistenza – mi piace dire, diversamente materici –  potrebbero essere utilizzati con sapienza, senza emulazione, consapevolmente e assecondandone ogni caratteristica (ne suggerirò molti e per interessanti usi, in altri articoli).

Esiste un mondo straordinario, un fermento che vive e si consuma nelle cantine dell’architettura, che invece dovrebbe venire allo scoperto e denunciare il sopruso. Una forza potente, prorompente, un movimento in grado di travalicare i beffardi limiti dell’odierna editoria (la letteratura non ha più una casa – Rif. articolo sezione BIO) e lanciare un messaggio diretto, incessante, convinto. Confido nei giovani.

Come per la derisione dell’abito del gladiatore, oggi si dovrebbe deridere ogni esternazione pseudo-architettonica fondata sulla tragica emulazione dei tempi trascorsi.

Architettura contraddetta. Oggi maledetta, dissacrata, violata. Dunque non più architettura.

Bisogna che la regina riprenda il suo posto, impugni lo scettro e imponga l’innovazione.

È necessaria la riaffermazione del predominio che le è dovuto, da sempre, nell’arte.

ARCHITETTURA VIOLATA

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