Elodia Rossi

Rinascimento

Cina, 41.375° N – 88.325° E: uno dei luoghi devastati dai test nucleari. Immerso nel silenzio tombale, poetico nella conformazione morfologica, lontano dalla vita e dagli occhi di tutti, inaccessibile per pericolo radioattivo, dimenticato, meriterebbe una rinascita.

Il mio omaggio: un’idea progettuale che annienta il doloroso ricordo, richiamando l’intimo significato del rinascimento.

Un percorso di silenziosa e personale ricerca guidata dall’uomo vitruviano, un labirinto. Una meridiana che indica la meta. Il passaggio scandito dalle coordinate geografiche di tutti i siti mondiali mortificati dai test nucleari.

La conquista della serenità, verso il divenire. Verso la vita.

Ponte Real Ferdinando

Le forme dell’architettura monumentale di tutti i tempi hanno relazioni inscindibili con i processi storico-culturali che le hanno generate. E la concreta comprensione di un manufatto si avvera soltanto quando è viva la consapevolezza degli avvenimenti che esso rappresenta.

Il basso Lazio ha avuto un ruolo importantissimo nell’evoluzione della storia italiana, sia dal punto di vista ambientale che monumentale che politico. Anche da una superficiale analisi è facile comprenderne la portata. Si pensi, ad esempio e con ampio respiro, all’incidenza secolare per la definizione amministrativa dell’attuale Repubblica. Si pensi, più circostanziatamente, alla Roccaforte di Gaeta, dove Re Francesco II di Borbone nel 1860, lasciando Napoli e attraversando il ponte sospeso di Minturnae, installò l’ultima base operativa per la difesa del Regno dalle truppe di Vittorio Emanuele II di Savoia. Del massacro che ne è derivato – infame affronto privo finanche di dichiarazione di guerra – sono state rinvenute testimonianze inequivocabili, perfino recentemente.

 

Dedicato al Re di Napoli Ferdinando II di Borbone, il Real Ponte è stato edificato nella prima metà dell’Ottocento e terminato nell’anno 1832. Collega la sponda laziale con quella campana del fiume Garigliano. Affascinante struttura a catenaria ferrea, s’erse a privilegiato esempio di architettura industriale nel corso del Regno delle Due Sicilie.

Nato su idea del geologo Carminantonio Lippi, compiuto su progetto dell’ingegnere Luigi Giura (a seguito di incarico diretto di Francesco I di Borbone), è stato il primo ponte sospeso mai realizzato in Italia. Al tempo, qualche esempio era presente in Austria, in Inghilterra e in Francia. Quando iniziarono i lavori di edificazione, nel 1828, la stampa inglese non mancò di esprimere perplessità sulla capacità dei napoletani di realizzazione di un’opera così complessa (in particolare, in riferimento alla gestione delle oscillazioni dovute all’impiego della lega ferrosa). Invece e proprio nel 1828 – quasi come una punizione – i ponti inglese, austriaco e francese ebbero problemi (il parigino, addirittura, crollò) e vennero chiusi. Il Real Ferdinando, al contrario, rivelò una perfezione tecnica e tecnologica al tempo ineguagliabile e ancora oggi sorprendente. L’ingegnere Giura, per aumentare la robustezza del ferro destinato all’opera, fece addirittura produrre appositamente una lega al nichel. Ideò peraltro un irrigidimento meccanico delle travi tramite trafilamento, consegnando al manufatto un’inaspettata resistenza alla corrosione. I materiali giungevano tutti, rigorosamente, dal Regno delle Due Sicilie.

Grande testimonianza in cui ingegneria e architettura si fondono magistralmente. Le forme del Real Ponte sono spettacolari: marmorei e artistici piloni (le quattro torri di sostegno), quattro blocchi parallelepipedi (gli ammarri, due in partenza e due in arrivo) a cui sono ancorate le grandi catenarie di bilanciamento e sovrastati ognuno da una sfinge in pietra grigia.

Spinta innovazione ingegneristica e architettonica del tempo. Ma Giura, prima di iniziare la progettazione del Ponte, aveva affrontato un viaggio per vedere da vicino le opere similari già edificate. E probabilmente fu proprio quel viaggio, in particolare nella Francia ancora fortemente intrisa dell’Impero di Napoleone, a orientarlo nelle forme.

D’altro canto, il neoclassicismo dello stile imperiale aveva già preso piede in molti Paesi e non poco si sentiva l’impulso formale che lo stesso Napoleone aveva consegnato dopo la campagna d’Egitto.

L’armonico mescolamento di configurazioni e materiali antichi e nuovi, l’integrazione tra questi, oltre la stupefacente scelta ingegneristica, fanno del Real Ferdinando un’opera di grande fascino e superba riuscita.

Le torri marmoree sono alte 7 metri e hanno un diametro di base di 2,5 metri. Al pari delle sfingi, anche i capitelli delle torri evocano le architetture egizie. Le doppie catene, passanti all’interno delle torri, misurano 129,50 metri ognuna, l’impalcato sospeso è largo 5,50 e lungo 80,40 metri.

Con orgoglio si può dire che il Real Ferdinando, pur non essendo stato il primo esempio in Europa di ponte sospeso, di certo è stato il primo ad aver funzionato senza cedimenti.

Praticamente inglobato nella Linea Gustav, purtroppo nel 1943 la campata unica è stata assoggettata a bombardamenti e minata in due differenti punti, dopo il transito dei tedeschi in fuga.

Ciononostante le torri e gli ammarri con sfingi ne uscirono quasi illesi. E ciononostante, la struttura ferrea diede manifestazione della sua potente qualità.

Dovettero passare molti anni e finalmente, nella seconda metà degli anni ’90, s’intervenne con un progetto di restauro archeologico industriale (su finanziamento comunitario). L’inaugurazione e l’apertura al pubblico avvenne nell’anno 2001.

È un’opera bellissima, unica, testimone privilegiato tanto dell’epoca borbonica quanto di quella bellica più recente.

Magistrale perfino l’integrazione della composizione architettonica nel contesto, l’espressività che la visuale dona dall’una all’altra sponda, attraverso l’alternarsi dei basolati di confine alle corpose assi lignee di passaggio interno.

Questo breve articolo vuole rappresentare un piccolo omaggio alla mia terra, bella e addormentata.

Il Reflecting Absence

Affezionata a questo articolo, lo ripropongo.

Non bastò un incendio (anno 1975), non l’esplosione di una potente bomba (anno 1993) a far crollare le Twin Towers. Ci volle l’efferato attentato terroristico dell’11 settembre 2001 per assistere all’amaro sgretolamento di due degli edifici più alti e affascinanti del mondo.

Orgoglio indiscusso del World Trade Center, con 110 piani e oltre 400 mt di altezza ognuna, a simboleggiare sì il luogo privilegiato della finanza mondiale, ma anche della potenza dell’architettura. Nel derivato Ground Zero si è respirato e si respira ancora aria di dolore.

Tuttavia in quel luogo oggi, più che mai, impera l’architettura che non dimentica, che evoca, che celebra, che si oppone con sdegno al terrore. E lo fa con un senso di pacatezza impalpabile, nobile contrasto al frastuono dei crolli.

In quel luogo oggi si distingue il ricordo, si percepisce il dolore nel momento stesso in cui si avverte l’affermazione della rivincita. È l’architettura che parla: superbo ponte che collega ciò che è stato con ciò che è e che sarà.

Daniel Libeskind è l’autore del progetto di ricostruzione dell’intero complesso, all’interno del quale s’erge la torre One World Trade Center (o Freedom Tower), alta 1776 piedi ad evocazione dell’anno della dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti.

Internamente – opera nell’opera – s’apre il Memorial Plaza, un giardino piantumato di querce bianche, progettato dagli architetti Peter Walker e Michael Arad. È qui dentro che sono contenute due enormi vasche in granito (il Reflecting Absence), scavate in profondità, a ricalcare esattamente i perimetri che contenevano le fondamenta delle Twin Towers.

Lungo i bordi sono incisi, scolpiti, tutti i nomi delle vittime dell’attentato, mentre sulle pareti interne scorrono cascate d’acqua silenziose. I liquidi si riversano sui fondi per poi scomparire all’interno di impluvium centrali di forma quadrata.

Il Reflecting Absence è un luogo in cui è esaltata la geometria pura, quale segno – a mio avviso – della compostezza che si deve a un memoriale. Avvolto in un silenzio magico, spinto verso la sacralità, lontano dal frastuono urbano, non infranto da alcun rumore dei visitatori che, rapiti dalla bellezza evocativa, osservano estasiati.

Aperto al pubblico esattamente 10 anni dopo l’attentato, nel settembre 2011, ha vantato una cerimonia d’inaugurazione senza precedenti. Il mondo ha tremato.

E pensare che una malconcia massa di newyorchesi ha protestato nel corso della costruzione, tra l’altro adducendo che le vasche avrebbero dovuto essere interamente fuori terra. Incomprensibile ambizione, per la verità. Ma la storia si ripete, sempre.

Come disse Ben Jonson agli albori del Seicento, l’arte ha un nemico chiamato ignoranza. E Johann Wolfgang Von Goethe nell’inoltrato Settecento, nulla è più terribile dell’ignoranza attiva. Bisogna non curarsene.

E difatti il Reflecting Absence è una delle opere più belle ed evocative del mondo. Meta di turismo d’ogni tipo, luogo di intima meditazione, di fascino, di sublimazione dell’essere e dell’essere stato. Omaggio esemplare e sentito ai morti e ai sopravvissuti – assenza e presenza – di quella tragedia.

Stando lì dentro, respirando quell’architettura, sembra di comprendere senza sforzo l’equazione del mondo.

Le foto sono state scattate da me nel 2014, ma nessuna immagine potrà mai trasmettere l’emozione, le sensazioni, le evocazioni che si provano visitando quel luogo.

PIAZZAFORTE DI GAETA

Dal punto di vista urbanistico/architettonico, l’antica Piazzaforte di Gaeta corrisponde al tronco urbano più interno che si prolunga suggestivamente sul mare. La Prima Porta è il varco di accesso principale. Più avanti si trova la Seconda Porta, altrimenti detta Porta di Carlo V o Porta della Cittadella, che per molto tempo ha costituito l’unico accesso alla città fortificata. È qui che esplodono le emergenze più importanti dello stratificato tessuto.

Credo che sia sbagliato parlare – come spesso mi capita di leggere – della Piazzaforte di Gaeta quale ambito territoriale semplicemente prossimo ad alcune emergenze che, nelle epoche belliche, hanno avuto ruoli difensivi primari (come il Castello e l’ex struttura carceraria): ruoli mai scissi da quelli esercitati dagli altri beni di attacco o di difesa. È mia convinzione invece che sia corretto considerare la Piazzaforte inclusiva di questi magnifici elementi storico-architettonici.

Perché la Piazzaforte non è soltanto fatta delle polveriere poste sul Monte Orando e dei resti di cadaveri e dei rinvenimenti minori che nel tempo sono emersi: L’intera Cittadella di Gaeta, col Castello e l’ex struttura carceraria e altro ancora, fanno parte di diritto dell’insieme della città fortificata. E perché – se sui Borboni voglio soffermarmi – ognuno di questi beni ha avuto ruoli determinanti fino alla tragica caduta del Regno di Napoli (o Regnum Siciliae citra Pharum).

Gaeta ha una storia densa e complessa che parte dall’VIII Secolo a.C. e il risultato che oggi si osserva (in termini di aspetto urbano) è decisamente eterogeneo. Dunque, inseriti in un contesto vario e ricco di testimonianze monumentali di differenti epoche, al di là dell’imponenza del Kastrum, i beni che narrano l’affascinante storia dei Borboni spesso appaiono nascosti, non facili da individuare.

Vado per ordine.

Già l’Impero d’Oriente aveva strutturato una prima fortificazione (600 d.C), ma il Medioevo aveva consegnato alla città una vera e propria fortezza: il Kastrum Gaetani, probabilmente risalente al 900. Questo diveniva poi un Castello compiuto nelle forme, per opera dell’Imperatore Federico II di Svevia che, nella prima metà del XIII Secolo, aveva intuito l’enorme valore strategico della città. Gaeta si trasformava così nella porta d’ingresso al Regno delle due Sicilie e Alfonso d’Aragona, nella metà del ‘400, dotava la città di un nuovo Castello. È stato poi Carl V, nel Secolo successivo, a collegare e inglobare i due Castelli in fortificazioni bastionate che divenivano quindi la vera prima Piazzaforte del Regno di Napoli e una delle più dotate d’Europa. Questo genere di impianto, non di certo consueto, peraltro trovava una maggiore consapevolezza artistico-formale proprio nel periodo borbonico, quando Federico II di Borbone faceva impiantare la Cappella Reale all’interno della cupola della Torre più alta del Castello (oggi detta Torre di Gaeta). Era il 1849.

Con i suoi 14.000 mq e oltre, imperante all’interno del Centro Storico e dell’antica città fortificata, il Castello è dunque oggi la fusione di due strutture difensive: angioina e aragonese, con perfezionamenti borbonici.

Ed era ancora la metà dell’800 quando veniva innalzato il ben noto Ex Carcere: inserito in un impianto viario ed edilizio d’impronta medievale, nato come Padiglione di Città, voluto da Ferdinando II di Borbone, è stato edificato negli anni appena precedenti all’assedio al fine di incrementare Gaeta della dotazione di strutture militari. Assolutamente in linea con lo scopo primario degli interventi borbonici avvenuti tra il 1850 e il 1853, tramite sventramenti interni al tessuto urbano pregresso, c’era quello di edificare un’imponente rampa per l’accesso dei cannoni nella città fortificata.

Esternamente il Padiglione di Città è oggi, come allora, un edificio di grandi dimensioni in muratura tufacea, a pianta rettangolare con fronte circolare. Conta due piani, possiede un ingresso a cui è anteposta una scalinata; a nord l’edificio si apre al termine di un forte pendio.

Non molto tempo dopo il nefasto evento dell’assedio di Gaeta, nella seconda metà dell’800, la struttura veniva trasformata in carcere. Tra il ’70 e l’80 dello scorso Secolo l’edificio è stato assoggettato a un imponente intervento di recupero prevalentemente strutturale, nel corso del quale alcuni elementi caratterizzanti la sua fattezza stilistica (come le pavimentazioni) sono stati mortificati e impropriamente sostituiti. Ne è stata nuovamente mutata la funzione in uffici comunali, per poi tradursi – attuale utilizzo – in alloggi per famiglie indigenti, nonostante sia soggetto alla legge di tutela 1089/39. Gli esterni sono a disposizione di chiunque voglia ammirarli. Per gli interni, niente da fare: bisogna spulciare le antiche mappe. Eppure, la conoscenza di questo monumento è fondamentale per la comprensione dell’intero nucleo difensivo di Gaeta.

Le emergenze borboniche raccontano, si sa, una storia forte e dolorosa che riguarda l’intero territorio italiano e la sua trasformazione fisico-amministrativa. L’assedio di Gaeta del 1861 (ultimo dei quattordici assedi della città, a partire dalla sconfitta del Ducato), promosso dai Piemontesi, oltre a mietere troppe vittime, trasformava un territorio abbattendo – a colpi di cannone a retrocarica (sperimentati per l’occasione) – monumenti e beni d’ogni natura. Era la fine del Regno dei Borboni e l’avvio del percorso di unificazione dell’Italia. Ciò che ha resistito tuttavia non è poco e l’attuale immagine dell’area che ha ospitato il sistema difensivo borbonico è ancora altamente suggestiva.

La storia qui si mescola con quella del Ponte Real Ferdinando. Da quest’ultimo – come ho raccontato (https://www.elodiarossi.it/ponte-real-ferdinando/) – salivano le già provate truppe del Regno, in fuga da Napoli, per giungere a Gaeta e impiantare la difesa nella città fortificata, fino alla vetta di Monte Orlando, luogo privilegiato di avvistamento.

Dunque, un ambito monumentale caratterizzato da espressioni di molti Secoli, tradotto in un processo di integrazione fisica lungo e sofferto che vede nel passaggio borbonico il momento che consacra – seppur dolorosamente – la sua compiutezza formale e risponde compatto a un’esigenza di difesa: è la Piazzaforte. Il passaggio borbonico è quindi un collante che trasforma, richiamando una specifica funzione, l’eterogeneità in insieme.

Le recenti trasformazioni nell’utilizzo dei numerosi beni monumentali della Piazzaforte hanno forse offuscato il ricordo, tradotto in percezione, del tragico ultimo assedio e la sensazione del passaggio borbonico non è immediata.

Spero di aver consegnato – seppur sinteticamente – un credito al tema funzionale, tramite questa mia breve lettura delle testimonianze fisiche che hanno attivamente partecipato all’ultima eroica azione di difesa dei Borboni.

Non Vivere sull’Albero, ma Vivere nell’Albero

La Quercia delle Streghe, a Lucca, possiede un tronco di diametro pari a mt 4,00, un’altezza complessiva di mt 25,00 e un’apertura che raggiunge mt 40,00.

L’Ulivo di Picasso, millenario e sito nelle campagne ostunensi, sebbene più rado nel fogliame, possiede enormi dimensioni del tronco.

Sono esempi estremi, che però lasciano capire la portata di queste essenze straordinarie e bellissime. E allora perché non viverci dentro, sospesi e leggiadri?

La tavola che riporto in calce rappresenta la mia idea di casa sull’albero.

Per visionarla bene bisogna ingrandirla, visto che contiene anche descrizioni testuali riguardanti il fondamento progettuale, l’ambientazione, il funzionamento, i materiali e il rapporto tra tutte le componenti e il rispetto ambientale.

A me piace molto. Altrimenti perché l’avrei immaginata così?

VI – Le dimensioni dell’architettura

La LUCE: riferimento percettivo misurabile (il lux per la misura dell’illuminazione di un oggetto, il lumen per la misura di illuminazione complessiva, la candela per la misura dell’intensità luminosa), capace di restituire immagini differenti dell’oggetto architettonico nel corso delle diverse ore, delle differenti stagioni, dei molteplici luoghi. È la Quinta Dimensione.

Finalmente, la luce. La luce è parte attiva dell’architettura perché solo attraverso essa l’oggetto formale può essere visto, capito, fruito. Che senso avrebbe l’architettura senza luce?

La posizione dell’edificio, la sua dimensione e la disposizione delle aperture per l’attrazione della luce solare, l’organizzazione delle fonti luminose artificiali, sono elementi che meritano la più elevata attenzione nella fase progettuale. È innanzitutto da essi che deriva la riuscita di un’opera.

Difatti esiste uno sdoppiamento di questa dimensione. La luce solare e quella artificiale. Ambedue concorrono a definire lo spazio di vita.

È con la luce che l’architetto vero cerca di esprimere sé stesso, di consegnare alla sua opera un valore che va oltre la forma, o meglio che la ingloba nell’articolarsi dei vuoti e dei pieni, in un gioco di intuizioni percettive che, se ben composto, restituisce la più elevata dignità. Come non fare riferimento a un’opera notissima, le cui prerogative s’individuano proprio nei giochi di luce, quale derivazione di uno studio accorto e magistrale? Parlo della Cappella Notre-Dame du Haut a Ronchamp, di Le Corbusier. Forse è l’esempio più idoneo a rappresentare quanto sia importante fare i conti con la luce, fin dai primi passi della composizione architettonica.

Struttura piuttosto compatta, seppur affidata a superfici rientranti e ricurve oltre che inclinate, con elementi architettonici suggestivi anche in copertura, la Cappella Notre-Dame affida le facciate a composizioni articolate di finestrature piccole, superando ogni idea di simmetria. Il brutalismo incalza e le aperture posseggono forme differenti anche tra interno ed esterno, sviluppando le diverse dimensioni nell’attraversamento delle murature. Il compito di orientare l’ingresso della luce solare nelle differenti ore è eseguito con grande maestria e la suggestione che l’edificio offre al suo interno è spettacolare. Il fascino percettivo viene esaltato dall’impiego di colori introdotti talvolta nei vetri attraverso cui transita la luce. Ma non è stato forse proprio Le Corbusier ad affermare che l’architettura è il gioco sapiente, corretto e magnifico dei volumi raggruppati sotto la luce?

Esterno e interno. Bellissima.

La luce, come il suono, è misurabile, l’ho detto (rif. https://www.elodiarossi.it/iv-le-dimensioni-dellarchitettura/). Anch’essa ha la capacità di modificare la percezione di un manufatto architettonico perfino istantaneamente, superando la prerogativa della IV Dimensione, il Tempo.

La luce segue le regole della propagazione, della riflessione, della diffusione, della diffrazione e dell’interferenza, secondo principi dipendenti dalla sua natura di onda elettromagnetica.

Interessante è il tema della luce solare che colpisce gli edifici e viene talvolta percepita come una fonte puntatore (mi concedo questo termine, a mio parere efficace). Ecco un’immagine esterna del Roma Convention Center, ovvero la Nuvola di Fuksas, in una particolare ora del giorno. Era tardo pomeriggio, quando la scattai. Il raggio puntatore (il tema meriterebbe approfondimenti complessi) colpisce la Lama (ossia l’edificio alberghiero, parte integrante del complesso architettonico) e ne offusca quasi il paesaggio circostante.

Ma è solo un esempio. La percezione esterna di un edificio muta considerevolmente nelle differenti ore del giorno, proprio in dipendenza dell’intensità (dovuta a condizioni meteo) e dell’orientamento dei raggi solari.

Insomma, la luce è indiscutibilmente la Quinta Dimensione dell’architettura. E non si pone al quinto posto ma, come le alte, ha un ruolo fondamentale e paritario nella percezione, collettiva e individuale, dello spazio edificato.

Sto scrivendo un libro su questo argomento.

V – LE DIMENSIONI DELL’ARCHITETTURA

V – LE DIMENSIONI DELL’ARCHITETTURA

Il SUONO: riferimento percettivo misurabile (l’hertz –Hz per la misura della frequenza, il decibel per la misura dell’intensità), capace di offrire differenti percezioni dell’oggetto d‘architettura in relazione alla sensorialità del fruitore. È la Sesta dimensione.

Parto col Suono. Parto con la Sesta Dimensione. Com’è mio solito, disubbidisco a me stessa. Inverto i tempi e tratterò della Quinta Dimensione, la Luce, nel prossimo articolo.

Si, parto col suono perché è esso che mi ha offerto il primo spunto di riflessione, quando pesavo e ripensavo (e penso ancora) ai comuni denominatori dell’Architettura. Architettura, ovviamente con la lettera maiuscola, così da distinguerla – come ho sempre detto – dalla consueta e diffusa operazione dell’edificare fine a sé stessa.

Avevo progettato e stavo dirigendo i lavori di riqualificazione di due spazi pubblici, pressoché contigui. È proprio nel corso di questa attività che ho avuto la prima delle intuizioni.

Uno dei due spazi, piuttosto ampio, possiede una complessa struttura pregressa, essendo impostato su un imponente impianto pilastrato. Di difficile approccio, ovviamente, ne derivavano alcune questioni. Tra queste, l’inserimento del verde, convinta che l’eventuale assenza avrebbe ricondotto a un’organizzazione meno efficace, piatta, meno suggestiva. Né avrei potuto ricalcare le scelte pregresse (e da me demolite) che vedevano un’aberrante distribuzione di grosse aiuole all’interno dello spazio, ostacolanti la fruizione e problematiche per la struttura di sostegno (che stava subendo grosse ripercussioni). E così decisi di utilizzare il verde posizionandolo lungo il limite interno della piazza, laddove la struttura è ancorata al grosso muro di sostegno della via limitrofa, oltre che in prossimità del margine inferiore, dove l’impianto pilastrato possiede un’altezza minore (e, di conseguenza, una maggiore resistenza). Il verde, si sa, offre una percezione di vita, interrompe la staticità visiva. Parlerò, presto o tardi, di quest’attività – corredando il tutto con foto del prima e del dopo – nella sezione Percorsi di questo blog.

Nel corso delle lavorazioni, ma ancor prima, durante la progettazione, riflettevo attentamente sul risultato finale. Lo visualizzavo nella mia mente, abituata – ovviamente – a tale esercizio del pensiero. Caspita: pur soddisfacendomi la scelta complessiva (pavimentazioni, organizzazione generale, posizionamento del verde, eccetera), percepivo l’assenza di qualcosa che potesse restituire all’insieme una maggiore suggestività. Pensai a lungo. Nel bel mezzo di una notte insonne, capii che avevo bisogno di acqua. Acqua corrente. Movimento, ecco. Movimento.

Fu così che introdussi un ampio muro d’acqua, posto in corrispondenza di quel margine inferiore di cui ho fatto cenno, avente maggiore stabilità. Di lì il passo fu breve. Edificato, strutturato nei dettagli anche riguardo il funzionamento (non acquistato dal primo rivenditore, ma studiato e realizzato in opera), la piazza restituiva finalmente quello che avevo desiderato. Nel silenzio del centro storico di un paese collinare, ecco che un pomeriggio mi soffermai sul delicato suono che quest’acqua corrente consegnava alla percezione dell’insieme. Fu allora che aprii le porte della mia mente agli inattesi scenari delle Dimensioni dell’Architettura.

Suono: parte integrante dell’Architettura, elemento sostanziale nella sensazione individuale e collettiva di un ambiente edificato o urbanizzato che sia.

Capii perfino perché, per esempio, non avevo mai apprezzato il MAXXI di Roma, opera del ben noto architetto Zaha Hadid. Al di là delle scelte formali – che non sono di mio gusto, pur riconoscendovi una non usuale genialità – non c’è acqua, neppure nell’ampio spazio esterno. Non c’è acqua. E il suono che ne deriva è ampiamente compromesso dal frastuono urbano. Ancor più ne avrebbe avuto bisogno.

Il quadro percettivo si ampliava nella mia mente. Si ampliavano gli orizzonti, le analisi e le restituzioni relative, riflettendo sul valore del suono nell’Architettura, ben oltre il risultato che deriva dal fruscio dolce dell’acqua.

Il suono può divenire rumore e consegnare non piacevolezza, ma fastidio. Tutto sta a come viene impiegato, alle variabili in gioco non sempre positive (come la posizione, per esempio) e alla capacità di mitigarle tramite altro suono, ma anche attraverso la composizione formale laddove si tratta di un edificio.

Il suono è misurabile, l’ho detto (rif. https://www.elodiarossi.it/iv-le-dimensioni-dellarchitettura/). Il suono ha la capacità di modificare la percezione di un manufatto architettonico perfino istantaneamente, superando una delle prerogative della IV Dimensione, il Tempo.

Mi vengono alla mente le parole del grande filosofo Aldo Masullo, di cui ho già accennato. E mi viene in mente l’esempio che egli faceva sulla differente percezione di una stazione ferroviaria tra le ore diurne, in cui irrompe frastuono della folla, e quelle notturne, caratterizzate invece da ampio silenzio. L’assenza di frastuono apre altri orizzonti e sollecita altri sensi.

Il suono possiede una relazione strettissima con l’opera architettonica, incidendo perfino sulle modalità costruttive. Quando si progetta una sala di registrazione musicale, bisogna contenere il suono dello spazio chiuso, assorbendo gli eccessi tramite precise tecniche e tecnologie. È l’insonorizzazione.

Perfino negli spazi aperti, a volte emerge la necessità di contenere il suono per garantire la riduzione della sua propagazione. Basti pensare alle barriere insonorizzanti poste ai margini di grandi arterie, quando queste sono prossime a edifici, soprattutto residenziali.

Il suono segue le regole della propagazione, della riflessione, della rifrazione e della diffrazione, secondo principi strettamente correlati ai decibel con cui viene diffuso. Ma anche in derivazione delle forme architettoniche e dei materiali impiegati.

Il legno ha una capacità di assorbimento del suono decisamente più ampia dell’acciaio. L’acciaio, dal canto suo, possiede una capacità di riflessione del suono ben più alta del legno. Insomma, se si deve progettare una discoteca in ambito urbano, è bene utilizzare materiali che siano riflettenti, combinati a quelli fono assorbenti, evitando l’utilizzo di materiali rifrangenti e disperdenti.

Pensando agli spazi aperti destinati alla collettività, ma anche a quelli privati, è per esempio facile immaginare la differenza percettiva tra le giornate di calma e quelle ventose. Ci si addentra i questo modo, nell’ambito variegato e affascinate dei suoni della Natura. Non sarebbe forse diversa, ditemi, la percezione che oggi – in questo periodo di clausura per via della cosiddetta emergenza sanitaria – si potrebbe avere nel percorrere il tanto famigerato e acusticamente inquinato grande raccordo anulare? Si avrebbe di certo il modo e la voglia di osservare i grandi spazi che esso attraversa: dalla verdeggiante campagna romana, alla suggestione della sterminata apertura dell’urbanizzazione capitolina. E tutto questo, senza l’assordante rumore (suono) del traffico che distoglie e confonde.

Immaginiamo il suono dell’eco che riverbera all’interno degli edifici, sempre, ma non sempre in maniera percepibile per l’orecchio umano. E ciò avviene anche per gli spazi aperti. Dal punto di vista fisico, ma anche acustico, l’eco deriva dalla riflessione del suono (più esattamente, delle onde sonore, con richiamo agli hertz della frequenza) nell’incontrare un ostacolo (elemento riflettente), nel corso della sua propagazione. Il ritorno delle onde sonore viene percepito con un ritardo più o meno lungo (tuttavia mai inferiore a 1/10 di secondo) rispetto al suono diretto. Qui è ritrovabile una stretta relazione tra Suono (Sesta Dimensione) e Tempo (Quarta Dimensione) e spazio (edificio o luogo aperto che sia). La propagazione del suono produce, tra gli altri e come accennato, il fenomeno della riflessione. È l’elemento riflettente, l’ostacolo, che determina il tempo di ritorno del suono propagato o di parte di esso: ossia, dipende dalla capacità di assorbimento dell’ostacolo.

Interessante è il tema dell’ascolto del suono, della capacità umana di elaborarlo più o meno istantaneamente: questo è il punto su cui s’incentra il tema proprio della percezione dell’Architettura. D’altro canto, tale percezione avviene impiegando, separatamente o meno, quattro dei cinque sensi: la vista, il tatto, l’udito e l’odorato. Ovviamente, non il gusto fin quando non mangeremo mattoni. Tralasciando gli altri, è evidente che il suono richiama innanzi tutto l’udito. Sovrastante esso, ma anche gli altri tre sensi, vi è la capacità individuale di elaborazione. Tema lungo, interessante, affascinate. Ne parlerò. Per adesso, mi fermo qui.

IV – LE DIMENSIONI DELL’ARCHITETTURA

Sono in ritardo, forse. Oppure no, viste l’ampiezza e la delicatezza della riflessione su cui è imperniata questa serie di articoli. Certo, ne è passato del tempo dal giugno 2017, data dell’articolo III – Le Dimensioni Dell’Architettura. Sarei soddisfatta se il collega Salvo Cimino, che mi ha accompagnata sinora (nei precedenti tre articoli della serie), mi comunicasse il suo giudizio su quanto sto per dire.

la potenza della luce

L’ambito è quello della ricerca della N Dimensione dell’architettura.

Ecco. Già su questo punto crederei di aver sbagliato. Mi riferisco a quando, con una convinzione un tantino superba partita più da me che da Salvo, affermavo che la N Dimensione … non sarà superabile perché includerà l’insieme delle componenti che entrano in gioco nello spazio costruito e di vita. Credo che non sia così.

Ho riflettuto a lungo, molto a lungo, ma è servito.

Ho preso appunti, moltissimi.

E sono convinta di aver trovato quello che cercavo, tuttavia in valore raddoppiato. Difatti credo di aver individuato altre due componenti dell’architettura che possono, anzi devono, considerarsi Dimensioni essenziali della Regina delle arti. Se non mi sto sbagliando, la N Dimensione, che avrebbe dovuto coincidere con la Quinta, è già superata.

In questo periodo di astensione dalla pubblica riflessione, ho percorso spazi architettonici (ovviamente mi riferisco a oggetti di architettura e non a banalizzazioni e mortificazioni di cui è colmo il mondo) aperti e chiusi, con l’attenzione dell’esploratore. Ho esaminato, ragionato, valutato: dalla linearità alla bidimensionalità, alla tridimensionalità, contando i passi, gl’istanti, per poi ripercorrere e ripensare più volte, più volte e ancora di più, facendo della Dimensione Tempo – l’oramai consacrata Quarta Dimensione – lo stimolo alla mia ricerca.

Adesso vorrei mettere in ordine, sinteticamente, i principi individuati nei precedenti tre articoli di questa serie e da me tenuti in considerazione nel corso della mia lunga riflessione.

Principio 1. Le Quattro note dimensioni dell’Architettura: la lineare, la bidimensionale, la tridimensionale, il tempo (che oltrepassa i canoni della realtà e richiama, a pieno titolo, la memoria) non restituiscono la compiutezza di un’opera. – Rif. https://www.elodiarossi.it/i-le-dimensioni-dellarchitettura/

Principio 2. L’intuizione di Bruno Zevi secondo cui le quattro dimensioni non sono sufficienti a contenere lo spazio internodell’architettura, quello spazio che non può essere rappresentato compiutamente in nessuna forma, che non può essere appreso e vissuto se non per esperienza diretta. Rif. Rif. https://www.elodiarossi.it/ii-le-dimensioni-dellarchitettura/

Principio 3. L’oggetto architettonico è fatto per essere vissuto e, passando dall’esterno all’interno, i riferimenti percettivi si moltiplicano, cambiano, avvolgono, inglobano l’essere e restituiscono sensazioni proporzionali alla capacità sensoriale individuale. Rif. https://www.elodiarossi.it/ii-le-dimensioni-dellarchitettura/

Principio 4. Il dinamismo potrebbe essere un importante punto di partenza per la ricerca: spazio/tempo/velocità, accelerazione/gravitazione, mutazione/memoria. La nuova Dimensione deve fare i conti con l’insieme dei fattori fisici che possono determinare variazioni percettive all’oggetto di architettura. Rif. https://www.elodiarossi.it/iii-le-dimensioni-dellarchitettura/

Principio 5. La nuova Dimensione (potrei ora dire, le nuove Dimensioni) dell’architettura non può essere astratta. Deve potersi misurare, deve avere riferimenti concreti, come si conviene a una scienza che – sebbene esploda soltanto nei casi in cui la forma artistica si traduce in innovazione e singolarità – fonda le sue basi sulla metrica, sulla manipolazione spaziale, sull’articolazione volumetrica. L’approccio è nella scienza fisica. Rif. https://www.elodiarossi.it/iii-le-dimensioni-dellarchitettura/

Durante questa esplorazione, che più volte andava richiamando la mia memoria verso le percezioni avute nei riguardi di edifici e spazi conosciuti, già percorsi, mi sono imbattuta in uno spazio nuovo, trasformato – meglio, in trasformazione – da me stessa.

È qui – e ne parlerò attentamente in un futuro articolo – che ho avuto la prima delle intuizioni. È qui che ho capito quale potesse essere una nuova Dimensione, la Quinta. Da questa – come per deduzione – è derivata l’altra, la Sesta.

Non me ne capacitavo. Perché non pensarci prima? Eppure si tratta di elementi, rispondenti a tutti i principi prima elencati (individuati nel percorso di analisi descritto nei precedenti tre articoli), con cui gli architetti si confrontano ogni volta che affrontano un progetto e ogni volta che osservano e penetrano un’opera realizzata.

La LUCE: riferimento percettivo misurabile (il lux per la misura dell’illuminazione di un oggetto, il lumen per la misura di illuminazione, la candela per la misura dell’intensità luminosa), capace di restituire immagini differenti dell’oggetto architettonico nel corso delle diverse ore, delle differenti stagioni, dei molteplici luoghi. È la Quinta dimensione.

Il SUONO: riferimento percettivo misurabile (l’hertz –Hz per la misura della frequenza, il decibel per la misura dell’intensità), capace di offrire differenti percezioni dell’oggetto d‘architettura in relazione alla sensorialità del fruitore. È la Sesta dimensione.

Mi fermo qui. Il prossimo articolo sarà dedicato alla Quinta Dimensione: la LUCE. Il successivo, alla Sesta: Il SUONO.

A seguire spiegherò, in un diverso articolo, come sono giunta a queste determinazioni.

Il dolore delle Vele di Scampia

È un urlo di dolore quello che lanciano le Vele di Scampia. Un urlo che segue una lunga sofferenza, fatta di abbandono, tradimento, incomprensione, trascuratezza, incuranza. Oggi non hanno colore, sono giganti addolorati che piangono e chiedono aiuto. Eppure sono lì, ancora in piedi, nonostante tutto. Non tutte però, visto che ormai se ne contano soltanto quattro sulle sette iniziali. Tre sono state abbattute tra il 1997 e il 2003, già in condizione di forte degrado a soli vent’anni o poco più dalla loro solenne nascita.

Opere maestose, studiate abilmente per accogliere residenze sociali, diventate immediatamente un simbolo per gli architetti e per tutti coloro che hanno il senso dell’estetica. Francesco Di Salvo, il progettista, aveva saputo guardare ben oltre la produzione architettonica che aveva caratterizzato gli anni sessanta (momento in cui iniziò l’edificazione), offrendo un contributo straordinario di innovazione – perfino futuristica – al decennio successivo: gli anni settanta, quando le vele s’ersero in tutto il loro splendore. Di Salvo ebbe appena il tempo di vederle compiute (nel 1975), per donarle all’universo delle forme magistrali e poi morire nel 1977, poco più che sessantenne.

Mai avrebbe pensato che si sarebbero susseguiti anni di incuria amministrativa, lunghi periodi di trascuratezza, che sarebbe sopraggiunto l’impeto degli occupanti abusivi ai tempi del dopo terremoto, che l’incapacità dei deputati al governo urbano non avrebbe consentito di vedere oltre e riconoscere in quelle opere il grande merito di essere state progressiste, di aver largamente anticipato un orientamento architettonico che, destinato a durare, emana ancora la sua espressività.

Le vele di Scampia sono state emulate (talvolta perfino copiate, permettetemi il termine), nella loro essenza formale, da numerosi progettisti di lì a venire e non soltanto italiani. Ho in mente molti di questi casi e, senza voler manifestare apertamente quelli che considero usurpazioni evidenti, faccio timido cenno ad alcune manifestazioni recentissime di edifici-giardino, opere di grandi studi di architettura, i cui impianti sembrano ricalcare non poco quelli delle Vele.

Hanno ispirato film, libri e perfino poesie. Ora il Comune di Napoli ha deciso di procedere all’abbattimento di altre tre. Ne rimarrebbe una soltanto, da destinare a uso pubblico/sociale (centro di accoglienza).

Ventisette milioni di euro (così si dice) stanziati per l’abbattimento e via, dunque, a un programma di riqualificazione con mutazione della destinazione d’uso per la sola Vela che resterà in piedi. Perché?

Perché non consegnare i ventisette milioni all’avvio di un programma di riqualificazione complessiva delle Vele e del quartiere che le ospita? Saranno pur pochi, ma potrebbero bastare per la messa in sicurezza e per le prime operazioni di completamento. Potrebbero bastare, se si lavorasse con criterio, magari affidando appalti per settori (e non l’appalto complessivo) a ditte locali di modeste dimensioni, favorendo l’economia e salvando l’architettura. Perché è di architettura che si sta trattando: architettura lucida, esemplare, tronfia di criteri progettuali incontestabili.

Perché lo stesso Ente che non ha avuto la capacità di evitare il degrado, senza scrupolo oggi s’erge a giudice supremo che ne sentenzia la morte?

Dov’è il Ministero dei Beni Culturali? Come può consentire un tale scempio e non sostenere, al contrario, un programma intelligente di valorizzazione di un bene che, come pochi, ha positivamente influenzato gli anni a venire.

L’architetto Luigi De Falco ha lanciato una petizione attraverso Change.org: Salviamo le Vele di Scampia dalla demolizione. Io ho firmato. Salviamole.

III – LE DIMENSIONI DELL’ARCHITETTURA

Non è facile, né immediato, esporre disquisizioni sulla N Dimensione dell’Architettura. Ragione che ci porta a lunghe pause, nel tentativo di raccogliere le singole riflessioni (ricordiamo che siamo in due a ragionare e scrivere su questo argomento: Salvo Cimino ed Elodia Rossi), discuterle e, solo dopo, proporle alla lettura.

Sappiamo che da lungo tempo maestri e studiosi si sono trovati dinanzi alla constatazione secondo cui le già note Quattro Dimensioni non sono sufficienti a soddisfare l’approccio percettivo di un’arte (l’architettura, appunto) che possiede troppe variabili e molteplici sfacciature.  Umilmente e prudentemente, cerchiamo di offrire il nostro contributo.

Nel precedente articolo (N.1 – Le dimensioni dell’Architettura) abbiamo posto una condizione: la N Dimensione dell’architettura, a differenza di altre discipline e correnti di pensiero, non può essere astratta. Deve potersi misurare, deve avere riferimenti concreti, come si conviene a una scienza che – sebbene esploda soltanto nei casi in cui la forma artistica si traduce in innovazione e singolarità – fonda le sue basi sulla metrica, sulla manipolazione spaziale, sull’articolazione volumetrica. L’approccio è nella scienza fisica.

Forse è il caso di sancire un concetto: quando si parla di architettura (e quindi, del cercare la N Dimensione) non ci si riferisce all’edilizia generalizzata. L’architettura è arte e le riflessioni in corso riguardano esclusivamente essa. A titolo esemplificativo basti pensare che è consuetudine incorrere in chi trova godimento nell’abitare un edificio brutto; altrettanto vero è che differenti individui, più consapevoli nei confronti dell’arte, non percepiscono il medesimo stato di benessere. Una delle prerogative dell’architettura è, dunque, trasmettere emozione positiva al fruitore. Ciò accade per gli storici edifici eterni, ciò accade per le opere indiscusse e indiscutibili di alcuni maestri contemporanei.

Questa considerazione, noi crediamo, aiuta anche nella ricerca di quella Dimensione tanto attesa e ancora, al di là del sentore di alcuni studiosi, non consacrata.

Forse, proprio per evitare distorsioni di pensiero, è necessario riflettere su base concreta, ossia attraverso riferimenti reali, fruibili, percorribili. Ricordiamo che, già in precedenza, abbiamo attestato (anche motivato) che la N Dimensione è strettamente connessa alla fruizione (esclusività dell’arte architettonica) e alla percezione.

Ed è vero che la percezione è generalmente individuale, dipendendo dal bagaglio di conoscenza e dalla singolarità di ognuno. Ma è altrettanto vero che deve esistere un filo conduttore comune, una base di partenza che accomuna la specie umana quand’ella è scevra dei tanti impulsi negativi derivati dalla quotidianità. Bisogna dunque andare all’origine, ricercare quegli elementi percettivi che sono patrimonio fisiologico dell’individuo. Per quanto complesso sia, una metodologia efficace potrebbe individuarsi proprio nel confrontare le sensazioni percettive di differenti individui nel fruire l’oggetto di architettura. La conferma viene dalla constatazione secondo cui, penetrando un’opera architettonica vera, è pressoché impossibile trovare soggetti che la percepiscano estranea. Ritornano i temi del dinamismo e dell’appartenenza.

Pensiamo a due opere magistrali, non di tipo residenziale ma collettivo, frutto di diverse epoche: il passato e la contemporaneità.

Uno di noi (Salvo Cimino) propone la Cappella Palatina di Palermo, straordinario esempio d’arte sacra del XII Secolo, capolavoro colmo di simbolismi.

L’altra (Elodia Rossi) propone il nuovo Centro Congressi (opera di Fuksas) a Roma, recentissima espressione architettonica innovativa.

Ognuno di noi è pronto a sperimentare le emozioni di visitatori, anche intervistandoli, per trarne elementi condivisibili e utili alla ricerca. Siamo convinti che, nonostante le differenze epocali, i risultati in termini di suggestione percettiva siano gli stessi.

Un esercizio necessario, evidentemente non risolutivo, ma che potrà restituire approfondimenti rispetto a quanto da noi affermato fin dal primo articolo: L’oggetto architettonico è fatto per essere vissuto e, passando dall’esterno all’interno, i riferimenti percettivi si moltiplicano, …inglobano l’essere … La memoria possiede sì un ruolo decisivo, ma tanto più efficace quanto più esercitata alla contrazione dei ricordi in un susseguirsi di istanti. È velocità percettiva all’interno dello spazio architettonico, in gioco tra vuoti e pieni, perfino istantaneamente modificata dalla presenza umana.

È qui che va ricercata la N Dimensione, quella dimensione percettiva che moltiplica n volte la tridimensionalità e richiama non solo il tempo (superando la Quarta Dimensione), ma anche spazio e velocità. Vedremo.

Una curiosità: l’Università di Southampton, in Inghilterra, ha realizzato una memoria digitale di grande portata. È stata chiamata 5D. Interessante osservare che la memoria sia stata posta in relazione con la Quinta Dimensione. La velocità di trasformazione con cui viaggia la tecnologia lascia supporre che, più avanti, potrà esserci la memoria di una macchina 6D, poi ancora 7D e via dicendo.

Valga dunque una precisazione: noi non parliamo di Quinta Dimensione in architettura. Noi sosteniamo un percorso conoscitivo verso la N Dimensione, nella consapevolezza che essa non potrà più essere superata. Tuttavia uno stimolo interessante deve ricercarsi nell’approccio conoscitivo: per la macchina si traduce in algoritmi, dunque su base matematica, derivazione indiscutibile di elementi misurabili.

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