Elodia Rossi

V – LE DIMENSIONI DELL’ARCHITETTURA

V – LE DIMENSIONI DELL’ARCHITETTURA

Il SUONO: riferimento percettivo misurabile (l’hertz –Hz per la misura della frequenza, il decibel per la misura dell’intensità), capace di offrire differenti percezioni dell’oggetto d‘architettura in relazione alla sensorialità del fruitore. È la Sesta dimensione.

Parto col Suono. Parto con la Sesta Dimensione. Com’è mio solito, disubbidisco a me stessa. Inverto i tempi e tratterò della Quinta Dimensione, la Luce, nel prossimo articolo.

Si, parto col suono perché è esso che mi ha offerto il primo spunto di riflessione, quando pesavo e ripensavo (e penso ancora) ai comuni denominatori dell’Architettura. Architettura, ovviamente con la lettera maiuscola, così da distinguerla – come ho sempre detto – dalla consueta e diffusa operazione dell’edificare fine a sé stessa.

Avevo progettato e stavo dirigendo i lavori di riqualificazione di due spazi pubblici, pressoché contigui. È proprio nel corso di questa attività che ho avuto la prima delle intuizioni.

Uno dei due spazi, piuttosto ampio, possiede una complessa struttura pregressa, essendo impostato su un imponente impianto pilastrato. Di difficile approccio, ovviamente, ne derivavano alcune questioni. Tra queste, l’inserimento del verde, convinta che l’eventuale assenza avrebbe ricondotto a un’organizzazione meno efficace, piatta, meno suggestiva. Né avrei potuto ricalcare le scelte pregresse (e da me demolite) che vedevano un’aberrante distribuzione di grosse aiuole all’interno dello spazio, ostacolanti la fruizione e problematiche per la struttura di sostegno (che stava subendo grosse ripercussioni). E così decisi di utilizzare il verde posizionandolo lungo il limite interno della piazza, laddove la struttura è ancorata al grosso muro di sostegno della via limitrofa, oltre che in prossimità del margine inferiore, dove l’impianto pilastrato possiede un’altezza minore (e, di conseguenza, una maggiore resistenza). Il verde, si sa, offre una percezione di vita, interrompe la staticità visiva. Parlerò, presto o tardi, di quest’attività – corredando il tutto con foto del prima e del dopo – nella sezione Percorsi di questo blog.

Nel corso delle lavorazioni, ma ancor prima, durante la progettazione, riflettevo attentamente sul risultato finale. Lo visualizzavo nella mia mente, abituata – ovviamente – a tale esercizio del pensiero. Caspita: pur soddisfacendomi la scelta complessiva (pavimentazioni, organizzazione generale, posizionamento del verde, eccetera), percepivo l’assenza di qualcosa che potesse restituire all’insieme una maggiore suggestività. Pensai a lungo. Nel bel mezzo di una notte insonne, capii che avevo bisogno di acqua. Acqua corrente. Movimento, ecco. Movimento.

Fu così che introdussi un ampio muro d’acqua, posto in corrispondenza di quel margine inferiore di cui ho fatto cenno, avente maggiore stabilità. Di lì il passo fu breve. Edificato, strutturato nei dettagli anche riguardo il funzionamento (non acquistato dal primo rivenditore, ma studiato e realizzato in opera), la piazza restituiva finalmente quello che avevo desiderato. Nel silenzio del centro storico di un paese collinare, ecco che un pomeriggio mi soffermai sul delicato suono che quest’acqua corrente consegnava alla percezione dell’insieme. Fu allora che aprii le porte della mia mente agli inattesi scenari delle Dimensioni dell’Architettura.

Suono: parte integrante dell’Architettura, elemento sostanziale nella sensazione individuale e collettiva di un ambiente edificato o urbanizzato che sia.

Capii perfino perché, per esempio, non avevo mai apprezzato il MAXXI di Roma, opera del ben noto architetto Zaha Hadid. Al di là delle scelte formali – che non sono di mio gusto, pur riconoscendovi una non usuale genialità – non c’è acqua, neppure nell’ampio spazio esterno. Non c’è acqua. E il suono che ne deriva è ampiamente compromesso dal frastuono urbano. Ancor più ne avrebbe avuto bisogno.

Il quadro percettivo si ampliava nella mia mente. Si ampliavano gli orizzonti, le analisi e le restituzioni relative, riflettendo sul valore del suono nell’Architettura, ben oltre il risultato che deriva dal fruscio dolce dell’acqua.

Il suono può divenire rumore e consegnare non piacevolezza, ma fastidio. Tutto sta a come viene impiegato, alle variabili in gioco non sempre positive (come la posizione, per esempio) e alla capacità di mitigarle tramite altro suono, ma anche attraverso la composizione formale laddove si tratta di un edificio.

Il suono è misurabile, l’ho detto (rif. https://www.elodiarossi.it/iv-le-dimensioni-dellarchitettura/). Il suono ha la capacità di modificare la percezione di un manufatto architettonico perfino istantaneamente, superando una delle prerogative della IV Dimensione, il Tempo.

Mi vengono alla mente le parole del grande filosofo Aldo Masullo, di cui ho già accennato. E mi viene in mente l’esempio che egli faceva sulla differente percezione di una stazione ferroviaria tra le ore diurne, in cui irrompe frastuono della folla, e quelle notturne, caratterizzate invece da ampio silenzio. L’assenza di frastuono apre altri orizzonti e sollecita altri sensi.

Il suono possiede una relazione strettissima con l’opera architettonica, incidendo perfino sulle modalità costruttive. Quando si progetta una sala di registrazione musicale, bisogna contenere il suono dello spazio chiuso, assorbendo gli eccessi tramite precise tecniche e tecnologie. È l’insonorizzazione.

Perfino negli spazi aperti, a volte emerge la necessità di contenere il suono per garantire la riduzione della sua propagazione. Basti pensare alle barriere insonorizzanti poste ai margini di grandi arterie, quando queste sono prossime a edifici, soprattutto residenziali.

Il suono segue le regole della propagazione, della riflessione, della rifrazione e della diffrazione, secondo principi strettamente correlati ai decibel con cui viene diffuso. Ma anche in derivazione delle forme architettoniche e dei materiali impiegati.

Il legno ha una capacità di assorbimento del suono decisamente più ampia dell’acciaio. L’acciaio, dal canto suo, possiede una capacità di riflessione del suono ben più alta del legno. Insomma, se si deve progettare una discoteca in ambito urbano, è bene utilizzare materiali che siano riflettenti, combinati a quelli fono assorbenti, evitando l’utilizzo di materiali rifrangenti e disperdenti.

Pensando agli spazi aperti destinati alla collettività, ma anche a quelli privati, è per esempio facile immaginare la differenza percettiva tra le giornate di calma e quelle ventose. Ci si addentra i questo modo, nell’ambito variegato e affascinate dei suoni della Natura. Non sarebbe forse diversa, ditemi, la percezione che oggi – in questo periodo di clausura per via della cosiddetta emergenza sanitaria – si potrebbe avere nel percorrere il tanto famigerato e acusticamente inquinato grande raccordo anulare? Si avrebbe di certo il modo e la voglia di osservare i grandi spazi che esso attraversa: dalla verdeggiante campagna romana, alla suggestione della sterminata apertura dell’urbanizzazione capitolina. E tutto questo, senza l’assordante rumore (suono) del traffico che distoglie e confonde.

Immaginiamo il suono dell’eco che riverbera all’interno degli edifici, sempre, ma non sempre in maniera percepibile per l’orecchio umano. E ciò avviene anche per gli spazi aperti. Dal punto di vista fisico, ma anche acustico, l’eco deriva dalla riflessione del suono (più esattamente, delle onde sonore, con richiamo agli hertz della frequenza) nell’incontrare un ostacolo (elemento riflettente), nel corso della sua propagazione. Il ritorno delle onde sonore viene percepito con un ritardo più o meno lungo (tuttavia mai inferiore a 1/10 di secondo) rispetto al suono diretto. Qui è ritrovabile una stretta relazione tra Suono (Sesta Dimensione) e Tempo (Quarta Dimensione) e spazio (edificio o luogo aperto che sia). La propagazione del suono produce, tra gli altri e come accennato, il fenomeno della riflessione. È l’elemento riflettente, l’ostacolo, che determina il tempo di ritorno del suono propagato o di parte di esso: ossia, dipende dalla capacità di assorbimento dell’ostacolo.

Interessante è il tema dell’ascolto del suono, della capacità umana di elaborarlo più o meno istantaneamente: questo è il punto su cui s’incentra il tema proprio della percezione dell’Architettura. D’altro canto, tale percezione avviene impiegando, separatamente o meno, quattro dei cinque sensi: la vista, il tatto, l’udito e l’odorato. Ovviamente, non il gusto fin quando non mangeremo mattoni. Tralasciando gli altri, è evidente che il suono richiama innanzi tutto l’udito. Sovrastante esso, ma anche gli altri tre sensi, vi è la capacità individuale di elaborazione. Tema lungo, interessante, affascinate. Ne parlerò. Per adesso, mi fermo qui.

Architettura del mimo

C’è un’indissolubile relazione tra l’architettura e il movimento. Relazione che porta inevitabilmente all’esplorazione del campo percettivo.

La percezione di un oggetto di architettura ha mosso grandi studiosi a cercare di penetrare il soggettivo mondo sensoriale, con una visione certamente condivisibile, tanto da indurre alla ricerca di quella dimensione ancora ignota (la N dimensione) che appartiene alla relazione tra oggetto statico e movimento (interno o esterno che sia). Di questo argomento ho già più volte detto in altri articoli (es: Le Dimensioni dell’Architettura I, II, II, rintracciabili nella pagina Architettura di questo Blog e redatti in collaborazione col collega Salvo Cimino). E ancora dirò, visto che l’argomento è complesso e riguarda una ricerca non conclusa.

Nel testo Arte e Percezione Visiva di Rudolf Arnheim, la comprensione dell’architettura (in generale, dell’arte) non a caso è affidata al movimento corporeo. Un binomio inscindibile, direi, che supera di gran lunga il senso del muoversi tipico di ogni struttura e legato agli spostamenti infinitesimali.

Mi sono sempre chiesta: visto che l’architettura (la percezione di essa) richiama il movimento, quanto il movimento richiama l’architettura? Molto direi, quando il movimento si esercita all’interno o all’esterno di un oggetto architettonico: un’abitazione, un ufficio, un teatro.

Il tempo, coordinata fondamentale della Quarta Dimensione dell’architettura, ha un valore straordinario anche se relazionato al movimento: tempi lunghi o meno lunghi producono differenze percettive.

E non è un caso che spesso si senta parlare di architettura del movimento. Le forme, la struttura, le componenti del mondo intero sono affidate a giochi di forze che si contrastano tra esse nel tentativo, non sempre vincente, di generare equilibrio.

Recentemente ho conosciuto il maestro Michele Monetta, grande regista e attore teatrale. Grande mimo. Insieme abbiamo visitato l’area archeologica di Minturnae, avvolta in un silenzio pressoché statico. Il magnifico teatro romano era vuoto e la percezione che ne restituiva a noi visitatori era quasi ascetica. Le osservazioni del maestro Monetta, nel corso di quell’incontro, mi hanno portata a riflettere ancor più sul rapporto tra architettura e movimento.

D’altro canto, Michele Monetta è un profondo conoscitore dei giochi delle forze, dei pesi e dei contrappesi che inducono agli equilibri del corpo in movimento. Ed è un conoscitore della relazione tra gestualità e palcoscenico, tra posizione e ambiente, tra vitalità e spazio.

La sua arte mira, come lui stesso dice, a guardare al futuro (medesima ambizione di ogni vero architetto). Recentemente è stato pubblicato un libro dal titolo Mimo e Maschera (sottotitolo: Teoria, tecnica e pedagogia teatrale tra Mimo Corporeo e Commedia dell’Arte). Autori ne sono Michele Monetta e Giuseppe Rocca.

È un testo formativo sul mimo corporeo. Bisogna leggerlo per capire quante affinità esistono tra il mondo scientifico dell’arte mimica, l’universo dei movimenti e, lasciatemelo dire, le dimensioni dell’architettura.

I contrappesi corporei, soprattutto relazionati ai movimenti del tronco, pilastro fondamentale sul quale s’innestano gli arti e la testa (più protesi verso il descrittivo), sono esposti e illustrati con espressività addirittura appartenenti al mondo della scienza fisica e portano il lettore a riflessioni ampie, perfino riconducibili alla comprensione degli equilibri universali. E la maschera qui non è interpretata soltanto secondo gli schemi della Commedia dell’Arte, ma anche come capacità di gestione consapevole dell’io nella struttura fisica e in quella mentale.

Mimo e Maschera è dunque una guida preziosa alla comprensione delle relazioni tanto con l’io, quanto tra l’io e il contesto circostante. E il contesto circostante non è fatto anche di architettura?

II – LE DIMENSIONI DELL’ARCHITETTURA

La comune riflessione sui temi delle Dimensioni dell’Architettura è in evoluzione. L’architetto Salvo Cimino e io, tramite articoli in sequenza, vogliamo raccontarne i risultati.

 

Siamo alla ricerca, come annunciato nel precedente articolo, della N Dimensione dell’architettura. Meta ambita, non di facile conseguimento, tuttavia decisamente stimolante.

Per un certo verso siamo partiti dall’intuizione di Zevi, secondo cui le quattro dimensioni non sono sufficienti a contenere lo spazio interno. Per altri versi, la nostra stessa percezione di una mancanza nel poter comprendere esaustivamente l’architettura ci sta portando lontano, verso quel mondo tanto fisico quanto sensoriale che deve dare una risposta lucida e mirata alla più profonda interpretazione dello spazio architettonico.

Quasi istintivamente, nel precedente articolo (I – Le Dimensioni dell’Architettura) abbiamo pensato alla N Dimensione come al risultato della capacità percettiva che moltiplica n volte la tridimensionalità e richiama tempo, spazio e velocità. E abbiamo messo in gioco la capacità sensoriale individuale, perché da essa dipende la sintesi dell’azione di lettura interpretativa dell’architettura. D’altro canto la capacità sensoriale individuale (connessa anche alla memoria) entra pienamente in gioco già dalla Quarta Dimensione.

Qual è dunque il vero elemento che supera le Dimensioni ormai note e introduce in un nuovo Universo percettivo? A nostro parere bisogna pensare analiticamente al concetto di velocità e, con esso, a quelli di accelerazione (la spinta in avanti) e di gravitazione (la spinta di arresto). Complessivamente, per racchiudere le varie componenti in un insieme, bisognerebbe riferirsi al dinamismo. Parrebbe quindi che la N Dimensione debba fare i conti con l’insieme dei fattori fisici che possono determinare variazioni percettive all’oggetto di architettura.

È evidente che la percezione deriva dalla capacità individuale di conservare informazioni, ossia dalla memoria (sia a lungo termine, comprensiva del background cognitivo, che a breve termine). Non bisognerebbe stupirsi, quindi, se la N Dimensione producesse risultati interpretativi differenti. Ma non è forse così anche per la Quarta e, addirittura, per le prime tre?

È interessante fare riferimento anche alla memoria dell’oggetto architettonico: una memoria oggettiva che racchiude la storia originaria del manufatto, la sua evoluzione (trasformazione naturale), la sua eventuale trasformazione indotta. Ritorna in campo il fattore tempo. Ma c’è un dinamismo maggiore in tutto questo. E perfino una componente relazionale tra memoria dell’oggetto e memoria del soggetto (colui che lo fruisce).

Ci pare necessario precisare che la nostra ricerca riguarda l’architettura e solo essa. Alcune altre discipline o correnti di pensiero hanno cercato di individuare dimensioni superiori alla Quarta (l’esoterismo è arrivato alla Settima). Tuttavia il terreno di analisi è differente e differente ne è l’obiettivo. Qui non si tratta di una dimensione astratta, al di là delle individuali capacità percettive, ma di una dimensione concreta, all’interno della quale incontestabili componenti fisiche giocano il ruolo dominante. E difatti continueremo la nostra comune ricerca analizzando ognuna di esse, sia singolarmente che complessivamente. Sarà materia dei prossimi articoli.

Ci viene in mente che l’architettura, benché inconsapevolmente, si sta muovendo verso la ricerca della N Dimensione, quella che non sarà superabile perché includerà l’insieme delle componenti che entrano in gioco nello spazio costruito e di vita. Per esempio, il tanto discusso decostruttivismo non è forse il segno concreto della volontà di introdurre il tema del dinamismo nelle forme architettoniche? Linee oblique, linee alterate, volumi razionalmente scomposti per accelerare lo sguardo e produrre movimento.

Siamo dunque convinti che il punto di forza, il contenitore privilegiato dei fattori fisici da esaminare, sia il dinamismo. Su questo, noi crediamo, deve fondarsi la Nuova (o N) Dimensione dell’architettura. Su questo indagheremo fino a essere soddisfatti.

Bisogna riconoscere il grande contributo che ci viene dal Futurismo, dall’intelligenza con cui questa corrente di pensiero ha rivoluzionato il saper vedere e introdotto il movimento (addirittura, l’accelerazione) in arte. Ne parleremo. E bisogna riconoscere il contributo, indiscutibile e lucido, che giunge dal Razionalismo. Questa volta un merito tutto italiano.

I – LE DIMENSIONI DELL’ARCHITETTURA

Questo articolo è il risultato di una collaborazione tra l’architetto Salvo Cimino e me. Ringrazio molto il collega, a cui devo finanche l’idea su cui abbiamo lavorato, per aver mosso verso quel dibattito professionale da me tanto auspicato.

 

Arte e Percezione Visiva, direbbe Rudolf Arnheim. Saper vedere l’Architettura, direbbe Bruno Zevi.

Vorremmo provare ad andare oltre le straordinarie intuizioni che Arnheim e Zevi hanno avuto, ognuno con proprie prerogative, nel ragionare sulle dimensioni spaziali di alcune arti visive e di quelle plastiche. Vorremmo tentare una ricerca oltre la prospettiva, verso una nuova dimensione.

D’altro canto, i relazionati temi della percezione e delle dimensioni fisico/percettive sono talmente interessanti e straordinariamente complessi da aver sempre richiamato le interpretazioni di matematici, letterati, filosofi, paesaggisti, psicologi, artisti. Gli architetti, consapevolmente o meno, devono affrontarli ogni giorno.

La Prima Dimensione, quella lineare o puntuale, non appartiene all’arte in genere (a meno di alcune esternazioni recenti – un esempio in campo pittorico, con una dose di flessibilità, potrebbe essere dato dagli squarci di Fontana), mentre e per certi versi appartiene alla restituzione architettonica. Una semplice linea potrebbe significare molte cose.

La Seconda Dimensione appartiene alle arti pittoriche e decorative su base piana, ma anche alla restituzione architettonica, ossia al disegno tecnico. In ambedue i casi, benché l’immagine risulti bidimensionale, l’immaginario porta oltre, verso altre dimensioni.

La Terza Dimensione – lunghezza, larghezza e profondità – inizia a richiamare il concetto di punto di vista. La tridimensionalità appartiene all’arte scultorea, a quelle pittorica e fotografica solo se ci si riferisce alla percezione della rappresentazione (la quale resta bidimensionale) e, ovviamente, all’architettura. Un disegno assonometrico è una restituzione tridimensionale. Un edificio è un oggetto tridimensionale.

La Quarta Dimensione oltrepassa i canoni della realtà e richiama, a pieno titolo, la memoria. Superare lunghezza, larghezza e profondità, implica l’introduzione di una nuova coordinata. In geometria, tale coordinata è necessaria a individuare la posizione dei diversi punti di riferimento (la restituzione prospettica supera la tridimensionalità). Nell’arte in genere, come in filosofia, questa nuova coordinata è il tempo. I punti di vista si moltiplicano, vengono percepiti in momenti differenti e la memoria deve garantire il collegamento tra essi. La pittura e le arti grafiche si sono difese con il cubismo, unico appiglio alla simultanea restituzione di differenti punti di vista su un piano. L’architettura non ha avuto bisogno di mutare. Se ci si sposta intorno a un oggetto di architettura (ma anche di scultura), la percezione d’insieme, diluita in un tempo più o meno lungo, è affidata alla memoria.

E fin qui ci siamo, al di là delle articolazioni e degli approfondimenti che ogni ricercatore o pensatore ha voluto affrontare. Adesso proviamo a ragionare, stimolati dall’intuizione di Zevi, secondo cui le quattro dimensioni non sono sufficienti a contenere lo spazio interno (dell’architettura), quello spazio che non può essere rappresentato compiutamente in nessuna forma, che non può essere appreso e vissuto se non per esperienza diretta. Ma è pur vero – ci si conceda – che l’introduzione del tempo e della memoria, dunque della capacità sensoriale, già produce risultati percettivi individuali. Allora, perché non pensare a una nuova dimensione?

La N Dimensione – quella dimensione percettiva che moltiplica n volte la tridimensionalità e richiama non solo il tempo (superando la Quarta Dimensione), ma anche spazio e velocità – è solo dell’architettura. Capiamo: l’architettura è l’arte che si penetra, si percorre, si fruisce. L’oggetto architettonico è fatto per essere vissuto e, passando dall’esterno all’interno, i riferimenti percettivi si moltiplicano, cambiano, avvolgono, inglobano l’essere e restituiscono sensazioni proporzionali alla capacità sensoriale individuale. La memoria possiede sì un ruolo decisivo, ma tanto più efficace quanto più esercitata alla contrazione dei ricordi in un susseguirsi di istanti. È velocità percettiva all’interno dello spazio architettonico, in gioco tra vuoti e pieni, perfino istantaneamente modificata dalla presenza umana.

Vengono in aiuto le teorie di Aldo Masullo, grande filosofo contemporaneo, sui temi di spazio, tempo e velocità all’interno di edifici con differenti destinazioni. Il frenetico andirivieni di una stazione ferroviaria non è uguale al silente movimento di una sala di lettura. Il dinamismo altera (o modifica) la percezione spaziale e, per esempio, ci appare differente una stazione nelle ore di punta rispetto a quelle notturne.

Regina Architettura, governi ogni ambito della percezione ed eserciti la mente. Sei insuperabile.

Idea e Tecnica

Ho più volte sottolineato l’importanza dell’idea nella creazione architettonica. Faccio riferimento a molti dei miei precedenti articoli, in particolare a quelli destinati agli studenti di architettura.

Nel concepire l’idea giusta sta il successo dell’opera che si progetta. A questo punto subentra la tecnica, ossia la capacità di trasformare l’idea in progetto e, poi, in realizzazione. La dote necessaria, patrimonio di ogni bravo architetto, sta nella capacità d’immaginare anticipatamente l’opera compiuta. Il percorso progettuale suggerirà dettagli, affinamenti, particolari aggiuntivi.

Voglio dare uno sguardo alle arti in genere. La pittura, per esempio, o la scultura. Un bravo pittore sa che la sua idea troverà esplosione su una tela a lui affidata, quale trasposizione del suo immaginario attraverso i colori, le matite, le pennellate. E questa trasposizione dovrà essere autentica, caratterizzata nello stile, impattante. Bene, questa è tecnica. Laddove mancasse, l’autore dell’idea non sarà mai un bravo pittore.

La poesia e la musica hanno smarrito i canoni ritmici, senza aver trovato soluzioni alternative altrettanto valide. Dunque viene a mancare il terreno fertile su cui impiantare la tecnica e, a fronte di pochi che ricercano elementi di condivisibile artisticità, i tanti si incamminano su sentieri oscuri e destinati all’oblio.

La mediocrità non paga nel tempo e non appaga mai. Il superamento della tecnica (e dei principi su cui fondarla) mortifica finanche l’idea.

Altrettanto accade in architettura. L’idea regna, è essa stessa architettura, è il Principio, il Verbo. Ma la tecnica è lo strumento per la sua concretizzazione. E non si tratta banalmente di saper utilizzare strumenti di disegno, soprattutto se informatici. Piuttosto si tratta del saper seguire il percorso progettuale, affinarne gli elementi nel tempo, gestirne gli eventuali cambiamenti. Il rapporto tra architetto ed elaborato progettuale è intimo, sofferto, pensato e perfino soggetto a mutazioni.

La contemporaneità ha purtroppo imposto il sopravvento dell’individualismo, come ho già affermato in circostanze differenti. In arte e, naturalmente, in architettura questa imposizione – probabilmente scaturita dai media, dall’affermazione dell’immagine nelle sue forme più varie e contrastanti – ha generato danni enormi. Il superamento di ogni canone, l’assenza di ricerca tesa all’individuazione di norme comuni, il concetto di bellezza dato in pasto al gusto di una collettività ormai sovraccarica di superfetazioni (mi sia concesso il termine), l’uso (o abuso) personalizzato dell’etica, hanno generato il massacro. Un danno enorme, che ha forti ripercussioni non soltanto nell’elaborazione dell’idea, ma anche nella sua restituzione.

Così oggi, fatte salve le poche nicchie culturali ancora genuine, passano per essere artisti molti pittori e scultori, musicisti e poeti, fino agli architetti, che utilizzano più la stravaganza (talvolta perfino il cattivo gusto) che la tecnica.

L’architettura paga più di ogni altra arte. Perché l’architettura è paesaggio, è ambiente, è generalmente destinata a caratterizzare ogni luogo per tempi lunghi, a segnare le epoche, a scandirne i passaggi. L’architettura ha dunque un ruolo fondamentale nella formazione della collettività.

L’Italia, in particolare, soffre per essere ancora soggiogata al suo glorioso passato (Rif. Art. Un Problema di Cultura) e combatte il clima di disorientamento non con la dovuta ricerca d’innovazione – cosa che in altre Nazioni sta finalmente avvenendo – ma con quel deleterio e nostalgico ricordo che si trasforma in simulazione. Il peggiore dei mali.

All’interno di uno scenario collettivo estremamente confuso, artefatto dal consumismo sfrenato, l’arte vera, quella che trasmette emozione e che esclude la mediocrità, quella che discende da raffinata e intrigante ricerca, finanche tramite colte azioni dialettiche, sembra essere morta.

Non possiamo permetterlo.

Architettura ed Estetica

Questa mattina, sulla pagina Ordine degli Architetti di Facebook, un collega – l’architetto Salvo Cimino – ha girato un post derivato dalla sua interessante pagina personale Cimino Design Studio. Consiglio di leggerne i contenuti.

Il post tratta dei concetti di bellezza, di proporzioni, di estetica e, in un certo senso, di etica. Il tema è affrontato relazionando tre volti femminili, due dei quali noti al mondo: quello di Julia Roberts e quello di Ingrid Bergman. Il terzo volto è rappresentativo delle proporzioni ideali. Eppure, ne esce perdente. Da tale acuto spunto, il collega Cimino passa ai temi dell’architettura e, con lucidità, affronta un concetto che, a mio parere, apre le porte al vero e attuale dibattito sull’estetica e l’etica delle forme architettoniche.

Ho commentato il post con una nozione, la cui paternità si deve al maestro Giorgio Albertazzi, secondo cui la bellezza è l’armonia delle imperfezioni.

Etica ed estetica, fonti privilegiate del pensiero filosofico d’ogni tempo, appartengono strettamente all’architettura. Ed è vero che l’estetica ha preso il sopravvento nell’animo dei maestri della contemporaneità, le cui esternazioni risultano spesso prive di personalizzazione. O meglio, la personalizzazione resta in capo all’autore, penalizzando il committente (colui che vivrà l’ambiente) della sua storia, del suo essere, della sua consuetudine di vita. Concetto che trova terreno fertile soprattutto nel campo dell’edilizia privata. È qui che ogni buon architetto deve individuare la giusta mediazione, esercitando la capacità di esaltazione dell’idea, senza disattenzione delle aspettative altrui.

Per gli ambiti monumentali e pubblici, il discorso possiede altre prerogative: i beni comuni, i bisogni collettivi, luoghi nei quali il rapporto forma/funzione si dilata.

Nel caso dell’edilizia privata, credo che bisogna osservare l’opera di alcuni maestri con una giusta dose di distacco, nell’intenzione di comprenderne gli elementi di innovazione, quali risultati di percorsi di ricerca formali. Un po’ come alcuni degli abiti di alta moda che vengono fatti transitare sulle passerelle, ma che nessuno indosserà mai.

Il concetto della relatività temporale della bellezza mi stimola molto. E coincide con quanto ho sostenuto e sostengo in questo blog. Non c’è architettura fin quando si emula il passato. La Roberts, con tutte le sue imperfezioni, è un’icona della bellezza di oggi. La Bergman, benché più armonica, è icona della bellezza di altri tempi.

Forse non sono spettacolari alcuni edifici rinascimentali? Lo sarebbero altrettanto se fossero edificati oggi? Passato e presente, ognuno col ruolo che vi si deve, per la costruzione del futuro (Rif. articolo Passato e Futuro).

I canoni della bellezza (dell’estetica architettonica) necessitano di riferimenti, sia assoluti che temporali. Al di là dei gusti del singolo, derivazioni di percorsi culturali personali, è necessario che siano individuati elementi superiori, in grado di orientare e caratterizzare la contemporaneità architettonica. Un bisogno, questo, percepito in ogni epoca, fin dall’intramontabile Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci. Più vicini nel tempo, tornano alla mente i cinque punti della nuova architettura di Le Corbusier, poi distorti da adattamenti infelici. Ritorna il tema della necessità di una formazione collettiva che deve affidarsi alla ricerca della buona architettura e alla relativa corretta divulgazione.

Architettura e Ambiente: Riciclaggio dei Rifiuti

L’Architettura è ambiente, l’ho già detto. Ma quale relazione ha l’architettura con il tema del riciclaggio dei rifiuti?

A prescindere da considerazioni riguardanti la buona progettazione degli ambienti in cui si effettua la cernita dei materiali e il riciclaggio, sono convinta che la salvaguardia ambientale in senso lato sia di giovamento all’architettura. Ambienti puliti che accolgono i risultati delle buone pratiche progettuali.

Esiste un’altra componente da tener presente, ossia quella riguardante i derivati del riciclaggio: vetro, carta, alluminio, eccetera. Questi derivati sono materie prime anche per l’architettura e la buona conoscenza di essi, il relativo corretto impiego, determinano maggiore equilibrio tra edificazione e ambiente.

Tornando specificamente al riciclaggio dei rifiuti, solo per dovere di analisi, esamino alcune questioni di carattere generale.

Tutti sappiamo quanto enorme sia l’affare che sottostà il riciclaggio. E sappiamo quali interessi (e quali poteri) vi girano intorno. Siamo perfino consapevoli dell’amara verità secondo cui – a prescindere dalle strumentali campagne pubblicitarie – solo una parte dei rifiuti selezionati viene reimpiegata.

Nuovi e innovativi macchinari per la trasformazione si stanno facendo faticosamente strada in un mercato difficile da penetrare. E potrebbero essere una speranza, in ragione delle effettive potenzialità che posseggono. Ma quanto sono interessanti per chi presiede il settore? Potrebbero esserlo solo se transitassero attraverso il loro stesso governo.

Il punto che voglio trattare, il nodo vero di questa questione, è in una domanda che pongo alla discussione di tutti voi che mi leggete. Crediamo davvero che la soluzione al problema dei rifiuti sia esclusivamente dipendente da buoni sistemi di raccolta e di riciclaggio?

Quello che penso è che il primo e più importante elemento di buon governo risieda nella necessità di produrre meno rifiuti. La quantità di materiali di scarto – riciclabili o meno – che oggi produce l’umanità è sproporzionata. Se – dopo aver acquistato prodotti, ad esempio, in un supermercato – si suddivide la reale materia desiderata da tutto ciò che è confezionamento, ci si rende conto di aver pagato per portare a casa soprattutto immondizia. E riflettendoci un po’ sopra, ci si rende conto di quali affari miliardari vi girano intorno. Chiedo: c’è la volontà reale di risolvere un problema che sta devastando l’intero Pianeta?

Economia, economia verde, economia a sostegno dell’ambiente, oppure interessi, potenti gruppi capaci di influenzare l’attività del legislatore e le decisioni dei governi? Perché il legislatore non si preoccupa di contrarre la smodata commercializzazione di rifiuti?

Quale contributo potrebbe dare l’architettura a questo sistema malato? In maniera diretta, nessuno: è evidente. In via trasversale, certamente producendo edifici con capacità di gestione autonoma di alcuni dei materiali di rifiuto. Qualche buona pratica è facilmente rintracciabile nel web.

Architettura e Ambiente: Energie Rinnovabili

Architettura e Ambiente: sembrerebbe un binomio, caratterizzato da due distinte entità benché interagenti. Non è così perché l’architettura è, essa stessa, ambiente.

Ciò che oggi passa per Economia Verde (in anglosassone, Green Economy) include tutti quei provvedimenti destinati alla contrazione dell’impatto ambientale, tramite azioni a favore della sostenibilità. Si parla di energie rinnovabili, di riciclaggio dei rifiuti, di riduzione dei consumi.

Non mi soffermo sul concetto di sviluppo sostenibile, a mio parere avulso dalla realtà e da me criticato in alcuni studi e pubblicazioni, ritenendo più utile parlare di sviluppo meno insostenibile.

Desidero, invece, analizzare i tre capisaldi dell’Economia Verde, partendo – tramite questo articolo – con quello relativo alle energie rinnovabili.

Bisogna prima rimettere al loro posto i concetti. Le energie rinnovabili sono il sole, il vento, l’acqua. Pannelli solari, eolico, termodinamico, altro non sono che strumenti di cattura delle energie.

Emergono alcune contraddizioni tra la tutela dell’ambiente e l’impiego di alcuni di questi strumenti, che possono ricondursi a due grandi temi: l’estetica e la salvaguardia naturale.

Il tema estetico

I pannelli solari, ad esempio, sono antiestetici e l’impatto che generano sul paesaggio è davvero notevole. Un impatto negativo che si deve soprattutto all’usuale modalità di applicazione di questi strumenti: cineree distese pannellate su tetti e coperture d’ogni tipo, con frequente alterazione visiva della sagoma d’origine. Ne derivano paesaggi snaturati e stilisticamente squalificati (laddove è apprezzabile qualche stile). Qui dovrebbe correre in soccorso il buon architetto, ricercando modalità applicative in grado di annientare (o, perlomeno, contrarre) il danno estetico. Qualche studio interessante è emerso nel corso dei recenti anni, come quello della creazione di un finto albero portante le pannellature. Non male, ma bisognerebbe approfondire, migliorare e produrre nuove idee. Un buon aiuto viene soprattutto dall’introduzione di nuovi strumenti di cattura, come le tegole solari, il cui impatto visivo si riduce drasticamente, spesso fino all’annientamento.

Personalmente non trovo altrettanto antiestetiche le pale eoliche. Talvolta producono suggestioni piacevoli su alcuni paesaggi. Ma qui, problemi di altra natura sono davvero insostenibili.

Il tema della salvaguardia naturale

Oltre la questione estetica, già di grande rilevanza e parte attiva nella salvaguardia paesaggistica, mi permetto di porre qualche circostanziato dubbio sul tema della tutela naturale in senso ampio, vale a dire sull’effettiva capacità di contrazione dell’impatto ambientale funzionale. Mi sono sempre chiesta: quando il ciclo di vita dei pannelli solari si esaurisce (mediamente 15-25 anni), dove e come sono smaltiti questi strumenti, visto che si tratta di rifiuti assimilati agli elettronici? Né, come spesso strumentalmente affermano le aziende di settore, viene in soccorso il D.Leg. n. 49/2014, visto che il tanto richiamato art.40 pone l’accento più sui meccanismi di incentivazione che su altro. Senza contare che l’intero Capo II (Deposito preliminare alla raccolta, raccolta, trattamento adeguato e recupero) appare più orientato all’organizzazione degli smaltimenti e meno alle relative modalità. Qualche cenno si rinviene nell’art. 18, ma è poca cosa surrogata da molti rimandi a futuri Decreti, Accordi di Programma, e altro ancora. La verità è che la quantità potenziale di materiale da smaltire preoccupa e non poco. Bisognerà confidare sulle ricerche mirate alla rigenerazione dei pannelli. Ma converrà al mercato?

E tutto questo, senza aver fatto cenno alla più consistente delle contraddizioni: qualche esperto mi dice che la produzione di un pannello solare richiede più energia di quanta esso ne possa produrre lungo il suo ciclo di vita. Insopportabile.

Per le pale eoliche, il problema dello smaltimento è ancora più gravoso. Il ciclo di vita delle turbine si aggira intorno ai 25 anni e le pale raggiungono perfino dimensioni di 90 mt in lunghezza. Come smaltirle, visto che oggi – nonostante contengano elementi tossici – finiscono in discarica? E poi è stato accertato, tra le numerose componenti negative, che questi strumenti di cattura hanno il potere di deviare le rotte degli uccelli migratori (talvolta addirittura di sterminare intere popolazioni in migrazione), generando un danno enorme agli ecosistemi di cui l’uomo, non si dimentichi, è parte attiva. Qualche buon auspicio giunge dal settore, ancora acerbo, del micro-eolico. Speriamo bene.

La dolorosa verità è che siamo negli ambiti sfacciati dei grandi affari. Sono nate e nascono come funghi aziende di produzione di strumenti per la cattura delle energie rinnovabili e, di pari passo, aziende per i relativi smaltimenti. Piogge di incentivi pubblici, dunque, a sostegno di uno scenario che manca di efficaci normative e cozza contro alcuni principi della tutela ambientale. Se per economia verde s’intende anche il buon riciclaggio dei rifiuti, non è forse una contraddizione in termini?

Quali soluzioni? Ce ne potrebbero essere e ne parlerò.

Amici architetti, anche qui è necessario il nostro contributo e, prima ancora, la conoscenza e l’analisi dei fatti.

Architettura Violata

Ecco che ritorna il tema della violazione dell’architettura. E naturalmente il contesto di riferimento è l’Italia.

Da dove partire? Dall’affermazione, ormai nota, secondo cui Quella degli architetti è la categoria più infetta. Meglio l’Italia dei geometri? Francamente non so neppure se ne vale la pena. Ma è uno stimolo, in qualche misura, per affrontare temi molto interessanti.

In Italia, dal dopoguerra ad oggi, l’impeto di azioni edilizie sconsiderate è stato devastante. Si stima, per difetto, che la produzione dovuta ai geometri copra almeno l’ottanta/novanta per cento della complessiva. Ciò significa che le distruzioni dei paesaggi, cui si assiste in ogni luogo (specie nel Mezzogiorno), non è dovuta agli architetti. E questo è un dato di fatto.

Colpa dei geometri? Non credo. D’altro canto, ognuno produce ciò che gli deriva da capacità e formazione. La vera responsabilità è dovuta a un sistema legislativo e amministrativo incoerente, superficiale e corrotto. Un sistema che non tiene conto degli aspetti formativi, né di quelli relazionati alle capacità personali. Così, un geometra è titolato a fare ciò che, per competenza, spetterebbe agli architetti e agli ingegneri (ognuno per le proprie specifiche professionali). Tant’è che gli Ordini Professionali degli Architetti e degli Ingegneri, riuniti, hanno avanzato una causa nei confronti del potentissimo (dato il numero di iscritti) Collegio dei Geometri. Ed è stato necessario giungere in Cassazione. La Corte si è pronunciata sul tema nel 2009, chiarendo i limiti delle competenze dei geometri e sancendo il divieto di subordinazione dei tecnici laureati da quelli non laureati. Cosa che avrebbe dovuto tempestivamente produrre effetti amministrativi nelle PP.AA., come l’immediata sostituzione dei geometri negli Uffici Tecnici a vantaggio di tecnici laureati. Ovviamente ciò non è accaduto.

Ritengo che il mestiere di geometra sia lodevole, ma – come per ogni mestiere – limitatamente alla sfera di azione delle competenze specifiche. Ritengo che il mestiere dell’architetto conservi, per percorso formativo, delle prerogative che non possono essere scavalcate.

Chi ritiene che quella degli architetti sia la categoria più infetta, senza analizzare quale derivazione abbia lo scempio del paesaggio italiano, parla senza fondamento. E semmai l’affermazione fosse riferita al tentativo, purtroppo ancora timido, che l’Italia sta facendo nell’avvicinarsi all’innovazione architettonica contemporanea, beh, allora siamo di fronte a un’incapacità evidente di comprendere i processi evolutivi internazionali. È una chiusura nei confronti della ricerca appassionata, quel genere di ricerca che ha prodotto l’alternanza delle fasi storiche dell’architettura, che ha dato forma anche al lodevole passato, che ne ha consentito il progresso.

Ma l’Italia, che nei tempi andati è stata maestra, oggi subisce la sua magnificenza storica. Questione che ho già affrontato in altri articoli: Un problema di cultura, Architettura contraddetta, Uno stadio per Roma, eccetera. L’agonizzante senso di malinconia produce poca reazione e troppa emulazione. La visione del futuro è contratta e alterata, il passo è debole.

Disturba che voci così stonate giungano da chi ha un rapporto privilegiato con l’arte (perlomeno, con certe arti). Ma non importa. È evidente che si tratta di considerazioni fondate su elegiaci appigli ai tempi che furono. O, più semplicemente, di provocazioni a cui non bisogna prestare il fianco. Dispiace soltanto che l’eco possa ingigantirne il peso e rallentare ancor più i processi evolutivi dell’architettura italiana. Già – e più volte – abbiamo ascoltato pensieri preoccupanti, giunti tramite i media da esponenti elevati di diverse discipline. La responsabilità che ne deriva è grande e dovrebbe pesare come un macigno su chi si fa portavoce di certe affermazioni.

D’altro canto l’architettura non è per tutti, sebbene sia di ognuno. E certamente non può essere di coloro che non affidano alla sperimentazione formale, all’innovazione, il valore inestimabile della crescita culturale.

L’incubo del lamellare

Per sintesi ho titolato questo articolo L’incubo del lamellare, ma un titolo più corretto e coerente sarebbe L’incubo di come generalmente viene usato il legno lamellare in Italia.

Chiarisco. Il legno lamellare, materiale di nuova generazione, è un prodotto composito che viene realizzato attraverso l’incollaggio a pressione di tavolati lignei, dopo averli sottoposti a processi tecnologici che ne migliorano alcune qualità, come il rapporto tra resistenza meccanica/peso e la resistenza al fuoco. Però, al contrario di affermazioni che trovo errate, le qualità estetiche del materiale puro vengono alterate. I processi di invecchiamento, che donano al legno un fascino particolare, per il lamellare non producono i medesimi risultati, né l’aspetto estetico iniziale può paragonarsi in tutto a quello del materiale d’origine.

Ciò non significa che il lamellare non possa (o debba) avere uno spazio di riguardo nel panorama odierno dell’edilizia e dell’ingegneria. Anzi. Ma ciò che fa la differenza è proprio il modo con cui viene impiegato. Per le caratteristiche proprie di contemporaneità, il lamellare dovrebbe essere utilizzato in ambienti innovativi e con tecniche estetiche altrettanto innovative. Purtroppo, come spesso capita per gli usi impropri di altri materiali di nuova generazione, soprattutto in Italia, l’utilizzo del lamellare viene relegato alla creazione di capriate e sovrastanti coperture, più o meno articolate, in mera sostituzione delle travi lignee. O anche alla creazione di portici e porticati massicci e grossolani, con travi fuoruscenti  di sproporzionata sezione: inqualificabile ostentazione priva di idea formale ragionata. E ciò accade in ogni dove, perfino in ambienti vallivi o in quei rari luoghi ancora caratterizzati da architetture consapevoli, iniziandone così la devastazione. Si persevera nell’inquietante ambito della finzione. E piace talmente fingere che, come un virus dilagante, l’uso scorretto del lamellare si propaga senza tregua, definendo scenari ambientali di cattivo gusto e interni aberranti.

Ovviamente e proprio per via della simulazione, il risultato è perlomeno mediocre. Basti – ad esempio – confrontare una copertura con capriate naturali e una, analoga, con lamellare. L’evidenza è disarmante.

Invece, in altri luoghi del mondo, il lamellare sta riscuotendo il giusto successo attraverso utilizzi d’avanguardia e idee architettoniche vincenti. Personalmente, ho avuto modo di vedere a New York (e non solo) impieghi entusiasmanti: come per i casi di coperture ricurve di grande impatto estetico. D’altro canto una delle caratteristiche di questo materiale è la straordinaria possibilità di sagomatura. A titolo esemplificativo, l’involucro dell’ambiente australiano che si trova sul sito http://www.buildingecosystems.com non è forse affascinante e innovativo?

Poi, senza arrivare all’esame dello splendido progetto di uno stadio totalmente ligneo, opera di Zaha Hadid, dove il lamellare esplode nelle sue vere qualità e, date le forme architettoniche, anche nella sua esuberante essenza estetica, basterebbe dare uno sguardo ad altre felici applicazioni (e ce ne sono davvero molte) di grande ispirazione per l’architettura abitativa. È il caso, tra gli altri, del Live Oak Bank Headquarters in Wilmington, quartiere progettato dallo studio LS3P Associates, dove legno naturale e lamellare si uniscono per dar vita a unità abitative esteticamente caratterizzate da un interessante effetto cadenzato, rafforzato dalle ampie vetrate.

Impieghiamo quindi il lamellare nelle corrette modalità, evitando grossolane imitazioni e studiandone le potenzialità e la versatilità, anche ricercando forme innovative, così da perseguire veri risultati architettonici adeguati alla contemporaneità.

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