Elodia Rossi

Inquietudine

Tra narrativa e saggistica, un brano spero divertente, scritto come se parlasse un adulatore di Velàsquez.

(D’altro canto credo che Velàsquez sia stato uno dei più grandi geni dell’arte)

Ahi, Velàzquez non t’avessi mai incontrato! Con te non si torna una sola volta indietro.[1]

Poche sono le persone che hanno avuto la capacità di insidiarsi nel mio pensiero a tal punto da generare in me una specie di movimento interiore che assomiglia alla turbolenza. La gran parte di questo già sparuto numero di persone, per luogo comune viene fatta appartenere all’universo dei morti: individui che invece restano eternamente vivi. All’ombra di quei cipressi e dentro quelle urne, il conforto del pianto non sarebbe neppure percepibile se mai ancora vi fosse, poiché è lì che esplode una vitalità niente affatto esoterica, ma reale, concreta, profondamente colorata, fatta di chiaro-scuri e di giochi di forme, di immediatezza percettiva quanto di sublime scaltrezza che giunge, talvolta, perfino all’inquietudine.

Non è un caso che fra tanti, Velàzquez, io rivolga a te il mio trepidante pensiero, calcolata trasposizione del temperamento che trasuda dalle tue tele e mi pervade l’animo. A te che poni l’oggetto del dipinto all’interno di una cornice posta in secondo piano e fai esplodere sulla tela ben altri elementi e soggetti, tratti qua e là dal cosmo dell’esistenza. A te che non ti preoccupi di esiliare l’obiettivo, proprio perchè il tuo obiettivo non coincide con quello per cui sei stato chiamato a operare. A te che riservi dunque al primo piano la percezione che possiedi della vita e ti eserciti ripetutamente con l’intreccio degli infiniti aspetti dell’essere, più o meno rilevanti, confinando ognuno di essi al ruolo che più ti pare opportuno nell’articolato contesto della tua tela. Tela che trasformi in luogo di allenamento e ricerca, in continua metamorfosi intima. A te che nascondi crudelmente e raffinatamente, quasi escludendolo dalla rappresentazione pittorica, l’unico vero tema d’iniziale ispirazione, forse addirittura incurante del fatto che l’altrui percezione possa conseguire il vero obiettivo della comprensione del tuo intrigante lavoro.

Il tuo artificio è pittura per eletti. E’ arte che esclude la mediocrità. E’ raffinata e coinvolgente ricerca che assurge dall’intimo d’un astruso meccanismo non facilmente catalogabile, finanche attraverso possibili interpretazioni derivate da consapevoli e colte azioni di discernimento della più elevata dialettica di tutti i tempi. E se è vero, come Sgarbi ha abilmente capito e in qualche modo detto, che la tua pittura è una conferma del mondo delle idee di Platone, generando consapevolmente il dibattito tra conoscere e riconoscere nell’animo di colui che osserva, è pur vero che questa esplorazione è privilegio di chi ha già conosciuto e più volte riconosciuto (ancora d’accordo con Sgarbi e con i risultati di un ampio dibattito filosofico sui temi della conoscenza che trova il suo fulcro nel mito della caverna di Platone), di chi è esercitato a tale sublimazione del pensiero. Di me, per esempio.

E che siano Filippo IV e sua moglie, o che sia il Cristo con Marta e Maria, tu è me che guardi, traducendo l’osservatore in osservato. Sono io il tuo stimolo, la tua idea, il tuo primo e ultimo obiettivo. Talvolta il tuo sguardo stesso, come in Las Meninas, talvolta quello di qualcun altro, come per la donna del Cristo in casa di Marta e Maria, sono rivolti a me che ti osservo attraverso l’ambiguità della tua pittura, illusoria, ingegnosa e concreta allo stesso tempo. Nasce lo stimolo: tu mi guardi ma io sono già pronto. Ti guardo anch’io e la sfida è ha inizio. Tu mi parli e io rispondo. Tu mi osservi e io ti osservo. Tu mi provochi e io reagisco alla provocazione con un nuovo incitamento, e la competizione non ha mai fine. E’ la maestria dell’arte vera, quella che si può guardare ogni giorno diversamente, quella che sottende insidie e istigazioni, quella che non consente la compiutezza della penetrazione. E’ dialettica.

Inquietudine: la banalità concettuale che la confina a particolare condizione che pervade gli animi trepidanti e preoccupati, non conviene al mio pensiero. L’inquietudine vera è uno stile di vita, una condizione sublime a cui aspira il colto, l’intelligente. Perché manifesta insoddisfazione, necessità di conoscenza, sete di sapere. L’inquietudine è ricerca continua, estenuante, sofferta, consapevole solo per i più attenti, generalmente ignara perfino di sé stessa. L’inquietudine è giudiziosa perversione della mente che non si contenta dello scorrere inutile dei giorni e mira alla turbolenza elettiva dello spirito. Inquieta è la tua pittura, Velàzquez, come inquieta è la mia vita.

C’è inquietudine nello slancio assurdo dei tuoi cavalli, Velàzquez, in quegli atteggiamenti irreali che mostrano nel sollevarsi nervosi sulle zampe posteriori e che mai sarebbero potuti avvenire nella realtà. C’è inquietudine nell’immobilità degli occhi inesplorabili delle tue Meninas, poste a segnare il limite tra te, interno alla tela, e me, collocato fuori da essa pur essendone parte. C’è mesta inquietudine perfino nel volto scoraggiato di Ferdinando d’Austria in tenuta da caccia, il quale, allontanato dalla centralità dell’enorme dipinto, lascia spazio ad un’altrettanto inquieta natura di sfondo. Ogni tua espressione artistica sembra affermare che per la conquista della sublime condizione di saggezza acclamata da Socrate, c’è tempo, c’è ancora molto tempo.

Hai sempre manifestato la tua ricerca continua, assidua verso l’inquietudine, esulando magistralmente da ogni possibile limite di scuola e perfino di tempo. Forse perchè ne fosti privo nella tua storia di pittore di corte, riconosciuto e acclamato in vita come a pochi artisti è accaduto.

C’è un’ambiguità in tutto questo che trasporta la mia riflessione verso l’immensa opera e la dolorosa vita di un altro sublime artista: il Caravaggio. Per questi l’argomento si ribalta: si ribaltano le logiche, le azioni, le considerazioni. Quanto Michelangelo scelse la sua straziante inquietudine in vita e quanto scelse la sua straordinaria chiarezza rappresentativa in arte? Un uomo dalla breve e angosciosa vita, ben oltre i limiti della ragionevolezza, trovava forse rifugio e contrapposizione al suo tormento nella magistrale capacità di utilizzare i colori, nei suoi mai uguagliati chiaroscuri? Eppure le sue tele, chiare e inequivocabili, espressivamente perfette, trasudano di dolore.

Quanto l’inquietudine necessita di pacatezza e quanto la pacatezza cerca l’inquietudine?

Nell’esplorazione della propria vita, quando si fondano le basi su tesi, su convincimenti o semplicemente su fatti non sempre d’immediata comprensione, che però segnano l’orientamento dell’esistenza, emerge la necessità della presenza di elementi diversi, opposti: c’è bisogno di antitesi. Il non sconfessabile linguaggio matematico insegna: è l’antitesi che permette di confermare o di confutare la tesi. E’ l’antitesi che i grandi pensatori hanno utilizzato per dare compiutezza alle idee. E questo concetto è tanto più concreto quanto più è sofferta e radicata la tesi di partenza – avente o meno la fattezza d’un assioma; è tanto più concreto quanto più è intelligente il soggetto che elabora una tale condizione. E’ così che si apre la via all’inquietudine. Per un artista, la propria capacità espressiva può divenire l’antitesi dell’esistenza. Non è importante quanto questo meccanismo sia noto a chi l’adopera. Importante è quanto venga adoperato.

Ho avuto un dono fin dalla nascita. Una presenza interiore che mi pervade l’animo e mi porta a vivere ardentemente, appassionatamente, senza per questo subire le aggressioni agognanti tipiche di chi non sa gestire la propria trepidazione. L’inquietudine è come la complessità. La complessità, di per sé è cosa auspicabile, ambita, necessaria. Ma deve essere governata. L’incapacità di governare la complessità porta alla confusione, al degrado, alla disgregazione del buono. Il non governo dell’inquietudine soprintende l’annientamento della personalità. La mia naturale inquietudine, soave e governata, ha trovato la contrapposizione nell’osservazione dell’opera d’arte. Arte: antitesi alla mia esistenza e conferma incessante e necessaria della sua stessa utilità.

E’ sovente facile soggiacere all’osservazione, soprattutto quando ci si trova dinanzi all’opera d’arte vera. Il segreto è essere pronti all’analisi. Per questo, più che esercitare l’osservazione fine a sé stessa, bisogna attivare il dialogo. Esattamente come io faccio. Si tratta di una pratica che necessita di conoscenza e, ancor più, di sagacia. Sovrastante l’universo della conoscenza, difatti, c’è quello dell’intuizione. La conoscenza si acquisisce, l’intuizione si possiede da sempre. E’ un dono. Nell’osservazione dell’opera d’arte non avverto sudditanza, non attendo passivamente d’essere istruito. Sono attivo, discuto, mi confronto, esercito la mia concitazione. A essa, all’arte, il ruolo di temperare il mio spirito e condurmi alla pacatezza.

Talvolta, sebbene raramente, è l’opera d’arte stessa che mi riconduce all’inquietudine, arma per salvaguardarne la demolizione. E’ così che avviene quando osservo te, Velàzquez. Anche alla tua opera consegno il compito di lasciare che la mia vita continui a scorrere tra gli infiniti rivoli dell’esuberanza e della seducente piacevolezza.

Un vecchio zingaro ungherese, parlandomi di te giurò che c’eri prima di suo padre, prima del padre di suo padre, più in là nel tempo non andò[1].

[1] Dalla canzone “Velàzquez” di Roberto Vecchioni

Idea e Tecnica

Ho più volte sottolineato l’importanza dell’idea nella creazione architettonica. Faccio riferimento a molti dei miei precedenti articoli, in particolare a quelli destinati agli studenti di architettura.

Nel concepire l’idea giusta sta il successo dell’opera che si progetta. A questo punto subentra la tecnica, ossia la capacità di trasformare l’idea in progetto e, poi, in realizzazione. La dote necessaria, patrimonio di ogni bravo architetto, sta nella capacità d’immaginare anticipatamente l’opera compiuta. Il percorso progettuale suggerirà dettagli, affinamenti, particolari aggiuntivi.

Voglio dare uno sguardo alle arti in genere. La pittura, per esempio, o la scultura. Un bravo pittore sa che la sua idea troverà esplosione su una tela a lui affidata, quale trasposizione del suo immaginario attraverso i colori, le matite, le pennellate. E questa trasposizione dovrà essere autentica, caratterizzata nello stile, impattante. Bene, questa è tecnica. Laddove mancasse, l’autore dell’idea non sarà mai un bravo pittore.

La poesia e la musica hanno smarrito i canoni ritmici, senza aver trovato soluzioni alternative altrettanto valide. Dunque viene a mancare il terreno fertile su cui impiantare la tecnica e, a fronte di pochi che ricercano elementi di condivisibile artisticità, i tanti si incamminano su sentieri oscuri e destinati all’oblio.

La mediocrità non paga nel tempo e non appaga mai. Il superamento della tecnica (e dei principi su cui fondarla) mortifica finanche l’idea.

Altrettanto accade in architettura. L’idea regna, è essa stessa architettura, è il Principio, il Verbo. Ma la tecnica è lo strumento per la sua concretizzazione. E non si tratta banalmente di saper utilizzare strumenti di disegno, soprattutto se informatici. Piuttosto si tratta del saper seguire il percorso progettuale, affinarne gli elementi nel tempo, gestirne gli eventuali cambiamenti. Il rapporto tra architetto ed elaborato progettuale è intimo, sofferto, pensato e perfino soggetto a mutazioni.

La contemporaneità ha purtroppo imposto il sopravvento dell’individualismo, come ho già affermato in circostanze differenti. In arte e, naturalmente, in architettura questa imposizione – probabilmente scaturita dai media, dall’affermazione dell’immagine nelle sue forme più varie e contrastanti – ha generato danni enormi. Il superamento di ogni canone, l’assenza di ricerca tesa all’individuazione di norme comuni, il concetto di bellezza dato in pasto al gusto di una collettività ormai sovraccarica di superfetazioni (mi sia concesso il termine), l’uso (o abuso) personalizzato dell’etica, hanno generato il massacro. Un danno enorme, che ha forti ripercussioni non soltanto nell’elaborazione dell’idea, ma anche nella sua restituzione.

Così oggi, fatte salve le poche nicchie culturali ancora genuine, passano per essere artisti molti pittori e scultori, musicisti e poeti, fino agli architetti, che utilizzano più la stravaganza (talvolta perfino il cattivo gusto) che la tecnica.

L’architettura paga più di ogni altra arte. Perché l’architettura è paesaggio, è ambiente, è generalmente destinata a caratterizzare ogni luogo per tempi lunghi, a segnare le epoche, a scandirne i passaggi. L’architettura ha dunque un ruolo fondamentale nella formazione della collettività.

L’Italia, in particolare, soffre per essere ancora soggiogata al suo glorioso passato (Rif. Art. Un Problema di Cultura) e combatte il clima di disorientamento non con la dovuta ricerca d’innovazione – cosa che in altre Nazioni sta finalmente avvenendo – ma con quel deleterio e nostalgico ricordo che si trasforma in simulazione. Il peggiore dei mali.

All’interno di uno scenario collettivo estremamente confuso, artefatto dal consumismo sfrenato, l’arte vera, quella che trasmette emozione e che esclude la mediocrità, quella che discende da raffinata e intrigante ricerca, finanche tramite colte azioni dialettiche, sembra essere morta.

Non possiamo permetterlo.

Passato e Futuro

Con l’articolo “Architettura Contraddetta” ho messo in evidenza alcune carenze dell’epoca attuale, denunciando l’assenza di una linea architettonica condivisa, di uno stile caratterizzante. Ricorderete che ho detto, tra l’altro:

…in altre epoche il passo era coerente, eccome. Le caratterizzazioni formali dei vari stili architettonici sono chiare a tutti: il gotico, il barocco, il rinascimentale, eccetera. E ne è chiara la cadenza temporale. Ma oggi? Quali sono i riferimenti? Quali le indicazioni per il nuovo “edificare”? Quanto ne sa la gente?

Bene. Vorrei precisare meglio il concetto, per evitare di essere fraintesa e per trasmettere un messaggio chiaro e inequivocabile.

Viviamo nell’epoca della grande confusione, dell’impennata delle scienze tecnologiche e informatiche, della prevaricazione dell’informazione (anche e soprattutto distorta) a qualsiasi livello e grado. In architettura – per circostanziare il concetto – i messaggi che ne derivano, soprattutto attraverso il web, giungono spesso da soggetti poco o niente affatto competenti.

Quest’epoca delirante paga a caro prezzo anche il grande dibattito sull’architettura che, non molto in là nel tempo, vedeva contrapposte le prerogative funzionali a quelle formali. Forma e funzione: quale privilegiare? L’ovvia risposta, incomprensibilmente giunta troppo tardi, è: perché non tutte e due? La dicotomia che ne era derivata, a mio parere, per lunghi anni ha trascinato in una strana forma di oblio la produzione architettonica d’autore. Intanto e di pari passo viaggiava il processo d’avanzamento della società dell’informazione. Il disastro è stato inevitabile.

Cara complessità! Perché mai non sei intesa come un bene prezioso?

In passato, le linee evolutive dei processi architettonici venivano divulgate quasi esclusivamente tramite l’opera dei grandi professionisti. Quell’opera che ancora adesso riempie i libri di testo e diviene evocativa per coloro che hanno la capacità di analisi, di discernimento, d’interpretazione corretta dell’evoluzione storica dei grandi e affascinanti processi architettonici.

Con questo spirito analitico e critico deve essere letto il passato. Fonte di grande ispirazione, ma giammai di emulazione. Eccome, se la storia dell’architettura insegna! Tuttavia, anche e soltanto l’idea di imitare forme e caratterizzazioni di qualsiasi epoca passata costituisce il più disastroso errore che un architetto possa fare.

L’architettura, lo ripeto, è arte. E, in quanto tale, è ricerca continua, appassionata. Dunque è innovazione.

Mi auguro di essere stata chiara. E avrò modo di ritornare più volte a parlare dell’importanza del passato nella costruzione del futuro.

Architettura Contraddetta

Voglio riprendere un concetto che ho riportato nella sezione BIO di questo blog.

C’è un’enorme letteratura sul Colosseo, tanto da essere noto anche a chi non lo ha mai visto. Ma che senso avrebbe costruire un edificio, oggi, a immagine e somiglianza dell’Anfiteatro Flavio? Sarebbe come indossare un costume da gladiatore per andare in ufficio. Ma perché, se questo concetto è chiaro in abbigliamento, rimane oscuro in edilizia? Si continua a costruire come un tempo, a imitare forme di un tempo, con materiali di un tempo.

Ora voglio approfondire il tema per mettere in evidenza la contraddizione che vive oggi l’architettura.

Chi andrebbe in ufficio vestito da gladiatore? Nessuno, credo. Oppure solo qualcuno: un provocatore, un contraddittore, un folle.

Come sarebbe visto dagli altri? Risate, derisioni, finti compiacimenti.

Eppure, nell’antica Roma era un abito usuale. Come quello della cortigiana, quello del poeta, quello del Senatore. Ma lo vedreste uno dei nostri Senatori presentarsi a Palazzo Madama conciato come allora?

Concetti banali, vero? A nessuno verrebbe in mente di rifletterci sopra. Gli usi, i costumi sono andati avanti, sono progrediti, si sono più o meno evoluti. Qualche volta i grandi artisti della moda si ispirano a elementi del passato, ma in forma nuova, con approccio differente, con risultati decisamente diversi.

Adesso bisognerebbe pensare ad alcuni paesaggi, osservandone l’edilizia (naturalmente, spostandosi fuori dai nuclei storici, per i quali il discorso assume differenti forme di cui parlerò). A meno di realtà molto rare, sembrerà di vivere in altri tempi: ma solo ad un primo impatto! Case “in stile” più o meno azzeccato, trionfi di pietrame “finto antico” ad adornare le pareti, sontuose scalinate con ringhiere lavorate e smaltate emulando forme e tecniche trascorse, tegole cosiddette “antichizzate” ossia maldestramente pitturate come fossero ricoperte di una patina di muffe multicolore, legno lamellare malamente impiegato per ricalcare coperture montane anche in condizioni ambientali sfavorevoli, e via dicendo. Un delirio!

E non sia mai si visita l’interno di una di queste abitazioni! Niente di più facile è trovarvi qualche stucco “finto veneziano”, qualche pitturazione a spugna con trionfi di colore magari fluorescenti, finti parquet, finti marmi, finti rivestimenti. Insomma, “finto” è la parola d’ordine.

Ma perché?

Non c’è niente di più squallido della finzione.

Perché i maestri della moda hanno saputo reggere il passo e trasmettere il messaggio dell’innovazione, costantemente, risolutamente, correttamente? Perché i maestri dell’architettura non sono stati altrettanto capaci, ai tempi d’oggi?

Già, ai tempi d’oggi. Visto che è pur vero che in altre epoche il passo era coerente, eccome. Le caratterizzazioni formali dei vari stili architettonici sono chiare a tutti: il gotico, il barocco, il rinascimentale, eccetera. E ne è chiara la cadenza temporale. Ma oggi? Quali sono i riferimenti? Quali le indicazioni per il nuovo “edificare”? Quanto ne sa la gente?

Poco, direi, visto ciò che si “ammira”. Com’è dunque possibile che nell’epoca dell’innovazione, quella vera, la regina delle arti sia così drammaticamente mortificata? Com’è possibile che la grande produzione di nuovi materiali, spesso derivati da eccelse applicazioni della ricerca d’avanguardia (si pensi alle nanotecnologie), sia poi orientata all’emulazione delle forme e dei colori del passato?

Molti di questi nuovi materiali, così diversi in consistenza – mi piace dire, diversamente materici –  potrebbero essere utilizzati con sapienza, senza emulazione, consapevolmente e assecondandone ogni caratteristica (ne suggerirò molti e per interessanti usi, in altri articoli).

Esiste un mondo straordinario, un fermento che vive e si consuma nelle cantine dell’architettura, che invece dovrebbe venire allo scoperto e denunciare il sopruso. Una forza potente, prorompente, un movimento in grado di travalicare i beffardi limiti dell’odierna editoria (la letteratura non ha più una casa – Rif. articolo sezione BIO) e lanciare un messaggio diretto, incessante, convinto. Confido nei giovani.

Come per la derisione dell’abito del gladiatore, oggi si dovrebbe deridere ogni esternazione pseudo-architettonica fondata sulla tragica emulazione dei tempi trascorsi.

Architettura contraddetta. Oggi maledetta, dissacrata, violata. Dunque non più architettura.

Bisogna che la regina riprenda il suo posto, impugni lo scettro e imponga l’innovazione.

È necessaria la riaffermazione del predominio che le è dovuto, da sempre, nell’arte.

ARCHITETTURA VIOLATA

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