Elodia Rossi

CONVENZIONE DELLE N.U. SUI CAMBIAMENTI CLIMATICI

LA CONVENZIONE QUADRO DELLE N.U. SUI CAMBIAMENTI CLIMATICI E LE INCERTEZZE DELLE PREVISIONI SUL CLIMA

Convenzione siglata a New York, alla data del 9 maggio 1992 (anno in cui la CEE emanava la Normativa Habitat che mi piace citare perché, a mio avviso, più equa e concreta riguardo gli ecosistemi).

A mio giudizio, fra tutte le Convenzioni, questa possiede un grado di approfondimento maggiore sulle tematiche ambientali. Tuttavia – e credo sia già chiaro il mio punto di vista – ritengo che manchi del fondamento scientifico sul quale sono imperniate le programmazioni (ossia, criteri e indicatori per la misurabilità della componente dei cambiamenti climatici derivati dall’azione antropica), oltre l’essere permeata di una forma di <antropomorfismo> che poco giova agli equilibri naturali, di cui l’uomo è parte paritaria alle altre. Inoltre, c’è da domandarsi ancora una volta: è possibile, secondo quanto emerge dagli studi degli scienziati, esercitare azioni di controllo sul clima? Interrogativo che ho trattato, tra l’altro, nell’Articolo La voce della Scienza (https://www.elodiarossi.it/la-voce-della-scienza/), riportando le opinioni di alcuni grandi studiosi.

Qui mi limito ad esporre, seppur brevemente, i principi su cui è fondata la Convenzione e il suo obiettivo generale, al solo scopo di fornire un quadro di riferimento efficace allo sviluppo dei miei studi (da cui derivano le mie posizioni) raccolti in diversi articoli di questo blog. Non tratterò quindi le metodologie, le determinazioni, né alcun altro contenuto, mancando – a mio avviso e come già detto – il fondamento scientifico di supporto all’intero documento.

Il Preambolo della Convenzione è ricco di spunti e di moniti. Particolarmente interessante è la disposizione secondo cui gli Stati devono adottare un’efficace normativa ambientale e (…) le norme ambientali, gli obiettivi e le priorità di gestione devono riflettere lo stato dell’ambiente e dello sviluppo al quale si applicano, e (…) le norme applicate da alcuni Paesi possono essere inadeguate e possono comportare ingiustificati costi economici e sociali nel caso di altri Paesi, in particolare nei Paesi in sviluppo. Disposizione questa che risulta adeguata se scissa dal contesto generale della Convenzione: l’adozione di una corretta politica ambientale è un dovere di ogni Stato, indipendentemente dal tema – complesso e ancora confuso – del governo climatico.

Altrettanto interessante, forse proprio perché pone implicitamente l’accento sull’inadeguatezza conoscitiva, è il punto in cui si riconosce che le iniziative necessarie per comprendere e fronteggiare i cambiamenti climatici sono più efficaci sul piano ambientale, economico e sociale, se sono basate su pertinenti considerazioni scientifiche, tecniche ed economiche e se sono costantemente riesaminate alla luce dei nuovi risultati raggiunti in questi campi. Eppure è proprio questa incertezza conoscitiva (se vi fossero certezze, perché perseguire nuovi risultati?) che poi guida l’intera Convenzione, traducendosi sorprendentemente in assioma nel proseguo della trattazione. Come si può governare ciò che non si conosce o si conosce solo in parte?

Il punto su cui, all’interno di questa breve esamina, voglio soffermarmi maggiormente è quello che espone l’obiettivo della Convenzione (Art. 2 Obiettivo). Ecco il testo:

L’obiettivo ultimo della presente Convenzione e di tutti i relativi strumenti giuridici che la Conferenza delle Parti può adottare è di stabilizzare, in conformità delle pertinenti disposizioni della Convenzione, le concentrazioni di gas ad effetto serra nell’atmosfera a un livello tale che sia esclusa qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sul sistema climatico. Tale livello deve essere raggiunto entro un periodo di tempo sufficiente per permettere agli ecosistemi di adattarsi naturalmente a cambiamenti di clima e per garantire che la produzione alimentare non sia minacciata e lo sviluppo economico possa continuare ad un ritmo sostenibile.

Dunque stabilizzare (…) le concentrazioni di gas ad effetto serra nell’atmosfera… E fin qui, nulla da opinare, visto che si tratterebbe di un ottimo proposito, anche se avrei preferito la sostituzione del verbo stabilizzare con la locuzione ridurre al massimo. Purtroppo c’è il seguito della frase, secondo cui la stabilizzazione delle concentrazioni di gas a effetto serra deve giungere …a un livello tale che sia esclusa qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sul sistema climatico. Qui si entra nel mistero, perché se è vero quanto affermato da alcuni studiosi e scienziati (Rif. Art. La voce della Scienza) che la climatologia possiede una componente enorme di imprevedibilità finanche a breve termine, ne deriverebbe l’impossibilità di misurazione delle interferenze tra clima e attività umane. Resta valido il proposito ma, forse, avrebbe avuto più consistenza se fosse stato enunciato in maniera differente. Ad esempio e a mio avviso, una possibile enunciazione avrebbe potuto essere questa: ridurre al massimo le concentrazioni di gas ad effetto serra nell’atmosfera, in maniera da contrarre qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sull’equilibrio degli ecosistemi. Personalmente dunque, avrei puntato il dito più sulle interferenze tra attività umane e inquinamento (da cui discendono alcuni dei disequilibri degli ecosistemi), che non invece tra attività umane e cambiamenti climatici (campo, lo ripeto fino alla noia, ancora molto discusso e, per ampi versi, ignoto).

Andando avanti, l’obiettivo cita …Tale livello deve essere raggiunto entro un periodo di tempo sufficiente per permettere agli ecosistemi di adattarsi naturalmente a cambiamenti di clima e per garantire che la produzione alimentare non sia minacciata e lo sviluppo economico possa continuare ad un ritmo sostenibile. L’adattamento degli ecosistemi ai cambiamenti climatici, al di là dell’interferenza umana, rappresenta un evento naturale, anche quando la composizione stessa degli ecosistemi viene a modificarsi. Le mutazioni intervenute nei Secoli ne sono una valida conferma. Ragion per cui parrebbe una forzatura – peraltro di indubbia misurazione – quella di relazionare l’adattamento degli ecosistemi alla riduzione delle concentrazioni di gas serra derivate dalle attività umane. Mancherebbero indicatori fondamentali di misurazione. Quanto le modificazioni di un ecosistema possono attribuirsi all’evoluzione naturale e quanto invece alle interferenze umane? In che misura la produzione di gas serra deriva dal cambiamento climatico (nella componente che riguarda l’evoluzione naturale del sistema Terra) e in che misura invece è imputabile all’azione umana?

Vengo al punto più dolente, a mio giudizio: perché orientare l’obiettivo ai temi del garantire la produzione alimentare e lo sviluppo economico? Non potrebbe risultare più coerente, equo e rispettoso dell’ambiente complessivo (di cui l’uomo è parte) il garantire al massimo la contrazione dei danni umani sul sistema Terra? Ne sono più che convinta, ritenendo che uno dei maggiori problemi ambientali – e, di conseguenza, legati alla distruzione degli ecosistemi – sia relazionato proprio ad un tipo di sistema alimentare umano (Rif. Articolo Città, effetto serra e allevamenti intensivi – https://www.elodiarossi.it/effetto-serra-allevamenti-intensivi-e-bisogni-effimeri-urbani/) in stretta connessione con l’economia che produce (economia sporca, perché settoriale, mai adeguatamente relazionata al derivato danno ambientale che, esso stesso, genera diseconomia). Bisognerebbe invece valutare il grave danno economico che origina questo genere di pratica; bisognerebbe comprendere e divulgare scientemente il significato di economia ambientale (con tutti gli indicatori di misurazione e di risultato disponibili) e i valori che ne sono di corollario, per capire quale entità di danno provoca la pratica degli allevamenti intensivi e, a seguire, quella di altre tecniche produttive alimentari.

Infine, l’enunciazione dell’obiettivo della Convenzione richiama il tema dello sviluppo sostenibile (poi ribadito nel corso della trattazione, come nel caso dell’Art.3, comma 2). Qui ritorna l’infondatezza del concetto di sostenibilità, come argomentato nell’Articolo L’inganno della sostenibilità (https://www.elodiarossi.it/linganno-della-sostenibilita/).

Facendo un seppur breve passo indietro, desidero richiamare due commi dell’Art. 1 della Convenzione. È l’articolo che tratta delle definizioni, sancendo la terminologia utilizzata nel corso dell’esposizione. Ecco il testo dei due commi e, a seguire ognuno, il mio commento/parere:

  1. «effetti negativi dei cambiamenti climatici»: i cambiamenti dell’ambiente fisico o della vita animale e vegetale dovuti a cambiamenti climatici, che hanno rilevanti effetti deleteri per la composizione, la capacità di recupero o la produttività di ecosistemi naturali e gestiti per il funzionamento dei sistemi socioeconomici oppure per la sanità e il benessere del genere umano;

Qui non mi dilungo molto, avendo già detto riguardo le relazioni (non misurabili scientificamente) tra cambiamenti climatici e mutazioni degli ecosistemi. Dunque varrebbe indagare con quali strumenti e criteri dovrebbero essere valutati gli effetti negativi dei cambiamenti climatici. In più, non posso non ribadire, con incrementale disappunto, l’esistenza di un’imprudente relazione indotta tra salute degli ecosistemi e il benessere dei sistemi (socio-)economici. Perché è altamente pericolosa, per la sopravvivenza del Pianeta, la strumentalizzazione degli ecosistemi a fini esclusivamente umani. Ed è pericolosa finanche per l’uomo, essendo questo parte degli ecosistemi naturali.

  1. «cambiamenti climatici»: qualsiasi cambiamento di clima attribuito direttamente o indirettamente ad attività umane, il quale altera la composizione dell’atmosfera mondiale e si aggiunge alla variabilità naturale del clima osservata in periodi di tempo comparabili;

Mi limito a far notare che parrebbe perlomeno superficiale identificare i cambiamenti climatici con qualsiasi cambiamento di clima attribuito direttamente o indirettamente ad attività umane (…) che si aggiunge alla variabilità naturale del clima. Scusandomi per la ripetizione dell’interrogativo, chiedo: con quali criteri e indicatori si può stabilire la componente di cambiamento attribuibile alle attività antropiche? Io non l’ho ancora capito.

Erosione del Suolo: cause e rimedi

Due anni fa, alla fine del 2015, l’Inghilterra (per voce dell’Università di Sheffield) sagacemente sottopone uno studio al Congresso sul clima di Parigi. Si tratta del Congresso che dà vita all’Accordo sul clima (rif. Articolo L’altra faccia dell’Accordo di Parigi).

È uno studio importante, serio nelle premesse (a mio giudizio, incompleto nell’individuazione delle cause e dei rimedi), circostanziato sulla problematica dell’erosione del suolo. Dopo tanto, mi chiedo come mai anche questo tema non sia stato neppure citato all’interno dell’Accordo, visto che si tratta di una tragedia planetaria e non soltanto britannica.

Ecco il dato riportato nello studio: in quarant’anni l’erosione ha distrutto un terzo dei terreni coltivabili e il fenomeno è in aumento.

Ecco le cause individuate: ripetute arature con continui movimenti del suolo (causa della dispersione delle sostanze organiche nell’atmosfera e conseguente indebolimento del terreno, con l’abbassamento della capacità di trattenere le acque e la conseguente riduzione delle crescite di piante), inquinamento, uso eccessivo della quantità di terra arata.

Ecco le soluzioni proposte nello studio: uso di fertilizzanti naturali, impiego di piante con minore bisogno di fertilizzanti, rotazione delle colture e conseguente riduzione delle arature (soluzione piuttosto complessa, visto che la produzione agricola è destinata ad aumentare del 50% in breve tempo, dato il previsto aumento vertiginoso della popolazione mondiale), parziale conversione dei terreni a pascolo (pari al 30% di quelli coltivabili).

Per quanto la proposta inglese sia stata sagace nell’incitare ad affrontare temi concreti, chiedo un attimo di riflessione. Perché basta un attimo per capire che manca la relazione con la più grande delle cause e, di conseguenza, manca la più concreta delle soluzioni.

Quali?

La principale causa, a mio giudizio (tratta dall’intersecazione dei dati ufficiali): gli allevamenti intensivi.

La principale soluzione, a mio giudizio: l’annientamento degli allevamenti intensivi, ovviamente, oltre la derivata contrazione dei bisogni effimeri urbani.

Perché affermo questo?

Chi ha letto il mio articolo Città, danno ambietale e allevamenti intensivi probabilmente già avrà capito a cosa mi riferisco.

Riprendo alcuni concetti: il 25% della superficie terrestre è occupata da allevamenti intensivi (dato in vertiginosa crescita); un terzo delle risorse idriche planetarie viene impiegato per gli allevamenti intensivi e il 70% dei cereali prodotti è destinato a questo drammatico e dannoso meccanismo alimentare. Esorto alla lettura del Meet Atlas redatto dalla Fondazione tedesca Heinrich Boll, per capire quali dimensioni abbia raggiunto il consumo di carne nel mondo e quali conseguenze si stanno subendo (devo dire, giustamente).

Nel solo anno 2016 sono stati prodotti 2.569 milioni di tonnellate di cereali (Fonte: FAO), di cui ben 1.798,3 sono stati riservati agli allevamenti intensivi. La coltivazione dei cereali richiede l’impiego del 46% (circa 750 milioni di ettari) di tutta la terra coltivabile. Ciò significa che il 32,2% della terra coltivata è asservita ai bisogni degli allevamenti intensivi. E significa che ben 525 milioni di ettari hanno la medesima destinazione.

In termini differenti, senza gli allevamenti intensivi la disponibilità di suolo agricolo aumenterebbe della componente pari al 25% delle terre emerse (quota dovuta all’occupazione degli stabilimenti) + 32,2% della terra coltivata (componente dovuta alle produzioni di cereali destinate agli allevamenti). Vale a dire che avremmo 37.250 + 5.250 = 42.500 migliaia di chilometri (circa il 30% della superficie terrestre) in più per vivere secondo Natura, abbattendo anche massicciamente l’inquinamento delle falde idriche.

Senza contare l’incidenza del consumo di acqua. L’ho detto: un solo chilo di carne bovina necessita dell’impiego di 15.000 litri. Vado oltre: la produzione annuale di carne ha superato i 300 milioni di tonnellate. Vale a dire che il relativo consumo di acqua si aggira intorno ai 4,5 miliardi di litri annui. Ne vogliamo parlare ancora? Non basta?

Abbiamo vissuto un’estate con una carenza d’acqua enorme, dalle grandi città ai piccoli paesi. Ed è ancora così. La capacità della terra, già compromessa, di trattenerne l’acqua piovana è poca o quasi nulla.

Fatto sta che la carenza d’acqua è diventato uno dei temi scottanti della contemporaneità.

Perché? Perché ai livelli di governo nessuno interseca dati reali e trae somme concrete? Nessuno trasferisce massicciamente le amare verità su quello che è il più grande dramma planetario, la cui risoluzione condurrebbe alla salvezza della terra.

Mi chiedo se i potenti si soffermino mai sulla vita dei loro stessi figli. Possibile che gli interessi economici siano più importanti?

Noi uomini, e solo noi, siamo macchine di distruzione di massa.

Infine, una curiosità: il rapporto inglese afferma che si sta procedendo verso la produzione di suolo adatto solo a edificare. Dovremmo essere contenti, noi architetti? Non scherziamo.

L’altra faccia dell’Accordo di Parigi

Qualche giorno fa, per strada, un uomo mi ha proposto l’acquisto di una copia di un giornale d’impronta religioso-profetica. Mi ha detto: Trump non ha firmato l’Accordo di Parigi, dunque il mondo sta per finire. Gli ho risposto: Ha letto l’Accordo? Mi ha detto di sì, ma quando gli ho chiesto quali erano, a suo vedere, i punti fondamentali in grado di salvare il mondo, non ha saputo dirmi nulla.

Ecco.

Ho letto e riletto molte volte l’Accordo di Parigi (o Accordo sul clima). Con molta franchezza, al di là delle posizioni di Trump – la cui politica non rientra nelle mie capacità di valutazione, se fossi stata un decisore, non so se l’avrei siglato.

foto di Gerd Altmann (pixbay)

Senza girarci troppo intorno, lo trovo carente, incompleto, più mirato a generare (come al solito) spazi e posizioni d’onore nel contesto internazionale che a definire linee chiare di impegno concreto degli Stati rispetto al più grande e preoccupante tema della contemporaneità: la sopravvivenza del Pianeta.

Nato il 12 dicembre del 2015 a Parigi, segue il Protocollo di Kyoto del 1997 al quale, nonostante tutte le possibili critiche, bisogna riconoscere una dose di maggiore concretezza nel definire obiettivi, metodi e metodologie d’azione.

Si compone di una premessa (o preambolo) e 29 articoli, la gran parte dei quali mirati a stabilire un ordine di rapporto tra i Paesi aderenti, con priorità sostanzialmente di tipo istituzionale, di controllo, di programmazione degli incontri, eccetera (è il caso degli Articoli 1, 14 – 29 e, per alcuni versi, il 3 e il 13).

L’Accordo distingue tra Paesi più avanzati, generatori di maggiori problemi, e Paesi meno avanzati o in via di sviluppo, maggiormente minacciati. Tutto ciò evitando di dire che i Paesi in via di sviluppo non sono solo minacciati, ma sono spesso generatori di altrettanti problemi ambientali: al di là delle responsabilità indigene, basti considerare le recenti deforestazioni in Africa.

Nel preambolo riprende il concetto di equità tra generazioni in tema di sostenibilità. Concetto che ritengo menzognero e strumentale, come ho già disquisito nell’articolo L’inganno della Sostenibilità (https://www.elodiarossi.it/linganno-della-sostenibilita/).

L’Art. 2 sembra avere un accento tanto imperativo quanto superficiale nel sostenere la necessità di mantenimento della temperatura media globale al di sotto dei 2 gradi centigradi. Intanto bisognerebbe capire cosa s’intende per temperatura media, visto che possibili sostanziali variazioni tra luoghi avrebbero gravissime ripercussioni sul pianeta e, quindi, su quella che lo stesso Accordo definisce resilienza climatica.

L’Art. 4 cade nell’onirico: bisogna ridurre le emissioni nel più breve tempo possibile, così da raggiungere un equilibrio entro il 2050. Bene, e come? Ogni Stato deve sviluppare le proprie strategie, linee comuni argomentate non ve ne sono (incredibile) se non per pochi sommari cenni in successivi articoli. Ciò che si ritiene invece importante è la comunicazione istituzionale dei dati (quali?), la raccolta di essi da parte della cosiddetta COP (Conferenza delle Parti) alla quale è demandato anche il compito di fare il punto della situazione a partire dal 2023 e con cadenza quinquennale (art. 14 e seguenti). Mi preme fare riferimento, a questo punto, al mio articolo Città, effetto serra e allevamenti intensivi (https://www.elodiarossi.it/effetto-serra-allevamenti-intensivi-e-bisogni-effimeri-urbani/), tanto per non tornare sull’increscioso e preoccupante tema dei tempi ormai a disposizione.

L’Art. 5 incita gli Stati al potenziamento dei pozzi di carbonio e delle riserve di gas serra. Qui, finalmente, si tratta l’importanza della salvaguardia delle foreste, anche se incredibilmente si dispongono incentivi economici di risultato (come se si dovesse raggiungere un traguardo attraverso un premio monetario e non per necessità di sopravvivenza globale). Non un solo cenno alle cause della deforestazione: non un cenno al dramma degli allevamenti intensivi, non uno alla spasmodica conurbazione. Eppure sono queste le vere cause.

Ma è l’Art. 7 che stabilisce l’obiettivo globale dell’Accordo: incrementare la capacità adattativa e rafforzare le resilienza per ridurre la vulnerabilità al cambiamento climatico, richiamando ancora una volta il concetto di Sviluppo Sostenibile (ancora inganno) e quello della cooperazione tra Paesi. Confesso che questo obiettivo mi fa venire i brividi. Difatti parrebbe ribaltare il problema: non più sradicare le cause del disagio planetario, piuttosto rafforzare la capacità di adattamento. Mi rifiuto di commentare.

L’Art. 8 esorta i Paesi sviluppati a fornire risorse finanziarie a quelli meno sviluppati, ai fini dell’applicazione dell’accordo. La gestione, in brevi linee, delle risorse finanziarie è materia dell’’Art. 9.

Eccoci all’Art. 10, uno dei più sorprendenti. Qui viene incoraggiata fortemente la gestione dello sviluppo tecnologico, come fosse la soluzione per la riduzione dei gas inquinanti (senza alcun riferimento al come). Mi concedo il richiamo a un altro mio articolo Architettura e ambiente: energie rinnovabili (https://www.elodiarossi.it/architettura-e-ambiente-energie-rinnovabili/), tanto per approfondire il tema di alcuni disastri ambientali dovuti alle tecnologie. Perché non affrontare questo argomento chiarendo (concretamente e non astrattamente) quale contributo potrebbe giungere da una corretta applicazione dei traguardi della tecnologia, se scissi dai troppi interessi economici anche a livello statale?

Finalmente – e ripeto, finalmente – l’Art. 11 e il 12 annunciano la necessità dell’educazione, della formazione e della consapevolezza pubblica. L’annuncio è breve, però, visto che gli articoli si dilungano sulla costruzione di competenze organizzate (dunque specialisti). Eppure qui è il vero nodo della questione: sollevare le coscienza di tutti, attraverso la conoscenza, perché tutti possano contribuire – lontani dal consumismo sfrenato, lontani dalle menzogne di un mercato distruttivo, lontani dall’idea di prevaricazione sulle altre specie, lontani dal concetto di un mondo fondato sull’egemonia dell’economia monetaria – alla salvezza del Pianeta.

Nell’Art. 12 si fa cenno anche al tema dell’accesso pubblico alle informazioni. Non si indica però alcun metodo affinché questo miraggio si trasformi in realtà. Né a che genere di informazioni ci si riferisca. Anche questo argomento mi indigna. Per reperire informazioni sulle condizioni ambientali della Terra, personalmente ho dovuto fare lunghe e attente ricerche, ho dovuto impiegare molto tempo (e continuerò a farlo). Eppure si tratta di dati che provengono proprio da fonti istituzionali (in primo luogo le Nazioni Unite), da me utilizzati in molti articoli di questo blog. Perché le Istituzioni che sviluppano questi generi di dati senza attivare campagne di comunicazione e informazione diffusa, poi sottoscrivono un tale accordo? E perché, dopo la sottoscrizione, non si impegnano nella diffusione?

Mi chiedo quali siano le effettive volontà dei redattori. Mi chiedo come mai non vengano citati dati e argomenti che farebbero la differenza. Mi chiedo come mai non si parla dei veri grandi problemi (un esempio prioritario è quello degli allevamenti intensivi, un altro è la spasmodica crescita urbana: ma l’ho già detto) e non si diano indicazioni concrete, realistiche, convincenti, per fronteggiarli. Mi chiedo come mai non si ponga l’accento soprattutto e diffusamente (determinando le giuste strategie) sul primo strumento di salvezza che è la conoscenza, l’informazione di massa, il coinvolgimento massiccio delle popolazioni a qualsiasi livello d’istruzione: perché qui è il vero nodo. Mi chiedo infine quali interessi ci siano da salvaguardare.

Insomma, perché io cittadina dovrei sentirmi rincuorata da questo genere di Accordo?

Città, danno ambientale e allevamenti intensivi

La città, l’ho detto e ripetuto, assorbe il 75% delle risorse planetarie (p.e. Rif. artt. L’inganno della Sostenibilità e L’immenso dramma urbano). Il mostro urbano, in inarrestabile crescita, sta traghettando verso un futuro doloroso. Ed è un dato inconfutabile che questo inquietante traguardo sia dovuto a una sola delle specie: l’uomo.

La città non è pronta al cambiamento che la società odierna ha velocemente imposto, definendo una traiettoria a dir poco devastante. La presunzione politico/amministrativa di internazionalizzare ogni ambito urbano è un coltello nel fianco dell’equilibrio globale. Intanto la Cina si spinge ancora oltre e, derivazione d’un pensiero politico di stampo imperiale, avvia un piano per la costruzione della megalopoli Jing-Jin-Ji, pensata per accogliere oltre 130 milioni di abitanti. Un piano di dominazione del mondo.

In questo momento, ore 16.51 del 19 luglio 2017, nel mondo ben 1.645.284.850 persone sono in forte sovrappeso, altre 628.797.889 sono obese (Fonte WHO – World Health Organization, programma Obesity and overweight), mentre 637.337.162 sono denutrite (Fonte FAO, programma The state of food insecurity in the world). I primi due dati sono in forte aumento, l’ultimo è in lieve decremento.

Sono fenomeni rintracciabili quasi esclusivamente in ambienti urbani, a differenza di aree meno urbanizzate dove la forbice tra miseria e opulenza va a ridursi.

Le esigenze largamente effimere delle aree urbane richiamano sprechi devastanti di risorse. Tra questi, il consumo smodato di carne che, secondo la FAO è destinato a crescere del 73% entro il 2050, nonostante i moniti dell’OMS sul pericolo derivato e sulle relazioni accertate tra consumo di carne e sviluppo del cancro. Di pari passo viaggia ovviamente l’incremento degli allevamenti intensivi che, già oggi, occupano il 25% della superficie terrestre. Dati allarmanti, questi. Come allarmante è la consapevolezza che l’uomo non si renda conto dell’insostenibilità della strada che percorre il proprio avanzare verso la distruzione.

Pressappoco alla stessa ora di oggi, ben 6.023.305.990 milioni di litri di acqua sono stati consumati dall’inizio dell’anno (Fonti: Global Water Outlook to 2025 – International Food Policy Research Institute – IFPRI e International Water Management Institute – IWMI), mentre 602.563.607 persone non hanno accesso all’acqua potabile (Fonte: World Health Organization – WHO, programma Water Sanitation and Health -WSH).

Per la produzione di un kg di carne bovina, negli allevamenti intensivi, sono necessari 15.000 litri di acqua (un kg di vegetali richiede l’impiego medio di 1.000 litri). Un terzo delle risorse idriche planetarie viene impiegato per gli allevamenti intensivi e il 70% dei cereali prodotti è destinato a questo drammatico e dannoso meccanismo alimentare, con ripercussioni enormi sui più deboli e poveri.

La FAO informa sulla produzione di ammoniaca delle deiezioni liquide derivate dagli allevamenti intensivi che inquinano le falde acquifere e dai vaccini, dagli ormoni e dagli antibiotici che, utilizzati massicciamente per garantire la seppur breve sopravvivenza agli animali in condizioni di stress insopportabile, si riversano nel ciclo ambientale, organico e dei rifiuti. Gas che provocano imprevedibili ripercussioni sugli ecosistemi naturali.

Quali conseguenze? Eccone alcune:  innalzamento del livello del mare, massiccia deforestazione per fini di pascolo (e di edilizia) con alterazione dei processi di fotosintesi, insano consumo del suolo, desertificazione di vaste aree (il 20% della superficie terrestre è desertificata in conseguenza degli allevamenti), dissesti ambientali, acidificazione degli oceani.

Il metano deriva dalla fermentazione dovuta ai processi digestivi degli animali (il numero di capi artificialmente prodotto, con pesante alterazione delle nascite naturali, e la concentrazione in alcuni ambienti, generalmente insani per l’impossibilità di mantenimenti di igiene adeguata) e dall’evaporazione delle deiezioni, la trasformazione degli escrementi produce protossido di azoto, la filiera della carne richiede combustioni altamente inquinanti. Gli allevamenti intensivi per la produzione di carne rappresentano la più pericolosa delle pratiche umane. E perché non considerare anche l’enorme e devastante contributo che questa pratica offre alla deforestazione per via della sua espansione?

Il Dossier Livestock’s long shadow (per dirla in italiano: l’ombra oscura degli allevamenti intensivi) della FAO, risalente addirittura al 2006 sostiene, tra l’altro, la necessità della drastica riduzione degli allevamenti intensivi e il consumo di prodotti di origine animale.

E tutto questo senza aver neppure sfiorato il tema della sofferenza di esseri sensienti, sulla qual cosa pure ci sarebbe da dire. Anzi, ci sarebbe da dire molto, molto di più.

Basterebbe un po’ di buon senso, una presa di coscienza verso la consapevolezza di cui ho spesso accennato: la vita sul Pianeta è regolata da leggi naturali che non possono essere trascurate. La città chiede troppo, l’effimero governa e il danno è incontenibile.

Mi sono sempre detta: qualcuno, qualche collega progetterà pure questi luoghi di distruzione e sofferenza. Varrebbe la pena rifletterci su’, evitando di contribuire al massacro.

L’inganno della sostenibilità

È il 1987. La WCED (Commissione Mondiale Ambiente e Sviluppo) è coordinata da Gro Harlem Brundtland, una donna norvegese, capace, motivata e impegnata in battaglie ambientaliste. È lei a commissionare il Rapporto che prenderà il suo nome. E certamente le sue intenzioni sono oneste.

Ed è ancora lei, attraverso il medesimo Rapporto Brundtland, a consegnare un concetto di sostenibilità secondo cui:

lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri

“Un concetto” che presto diventa “il concetto”. Sedi del potere, Università, scuole di qualsiasi livello e grado, Associazioni, Fondazioni, Onlus, nicchie culturali, pensatori aperti, geografi, stampa, televisioni, eccetera eccetera, tutti convinti di avere tra le mani la soluzione per il comune futuro.

Da troppi professori (e dai presunti tali) ho sentito enunciare questo principio, trasferirlo agli studenti, obbligare gli studenti a farlo proprio come fosse un assioma matematico. Troppi testi di studio lo propongono in questa modalità. Slogan puro e spiegazioni poche. Ma chissà quanti hanno realmente letto il Rapporto Brundtland per intero. Pochi direi, altrimenti l’idea dell’assioma – perlomeno in una certa direzione – avrebbe perso significato.

Difatti all’interno del Rapporto questo concetto dimostra essere più vicino alla speranza, al monito, che alla certezza. E ciò, nonostante un certo grado di incomprensibile (almeno dal mio punto di vista) ottimismo, particolarmente relazionato al convincimento che la tecnologia avrebbe provocato un tale straordinario cambiamento, del tutto favorevole al sistema ambientale complessivo, conducendo verso un differente e più equo sviluppo economico. Non è così. Non è stato così e non sarà, purtroppo, così.

Ma qual è la realtà?

Nella serie Spazi e Luoghi dell’Architettura (voce del blog Architettura, sub-voce Quaderni) ho spesso affrontato il tema del disastro ambientale. Nell’articolo N. 7 della serie ho raccolto dati ufficiali su alcune delle più importanti cause di devastazione della Terra. In appena trentacinque giorni, dal 4 aprile al 9 maggio 2017, è accaduto questo:

Nel mondo, 1.830.834 ha di foreste sono state distrutte e 2.464.802 ha di terra coltivabile è stata erosa (Fonte: FAO). La desertificazione ha raggiuto la soglia di 4.224.589 ha (Fonte: UN). L’emissione di CO2 si attesta a 13,42 miliardi di tonnellate (Fonte: IEA). Le sostanze tossiche rilasciate nell’ambiente misurano 3.447.427 tonnellate (Fonte: UN).

Sono trascorsi solo trent’anni dalla data di emissione del Rapporto Brundtland. E dico solo perché mi è difficile credere che nel 1987 i redattori del Rapporto non avessero chiaro il problema – benché forse meno incisivo di oggi – di cosa stesse realmente avvenendo, di quale danno catastrofico si stesse macchiando l’umanità.

Il processo di cambiamento secondo cui lo sfruttamento delle risorse, l’orientamento degli investimenti, l’indirizzo dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con gli attuali, come immaginato dal Rapporto, non ha fondamenta. Basti riflettere sul tema dell’esauribilità di alcune risorse.

Foto di Kalman Kovats

Dal 1987 a oggi le fonti inquinanti sono aumentate vertiginosamente, si sono moltiplicati gli allevamenti intensivi (immorale attività e principale causa dell’effetto serra), le emissioni nell’aria di PM10 (e di altri infestanti) crescono a dismisura. E poi l’erosione delle terre, il prosciugamento delle falde acquifere, la desertificazione e la conseguente estinzione di specie animali (oltre al tema etico, che per me ha privilegio, dovremmo tenere presente che noi esistiamo perché esistono loro, nel rispetto delle regole naturali che si chiamano ecosistemi). E poi l’esponenziale crescita delle conurbazioni che, come ho detto in altri articoli, assorbono il 75% delle risorse planetarie. E poi l’iniqua ripartizione della ricchezza che, data la forbice ormai raggiunta, sembra mollare uno schiaffo allo stesso Rapporto Brundtland laddove asserisce che, adottando alcune misure, si può giungere a una più coerente distribuzione economica perfino ai livelli nazionali.

Tutti temi su cui ritornerò, uno ad uno, per dimostrare quali responsabilità abbia la città odierna, quali futilità collettive degli spazi urbani producano devastazione, morte e guerra.

Allora chiedo: a cosa è servito, quale impulso ha dato il Rapporto per procedere verso un migliore futuro? Come mai se ne continua a parlare, convinti (almeno apparentemente) del grande merito che ha avuto l’acclarato concetto di sostenibilità? Quanti interessi reali sono intravedibili oltre tutto questo fare convegni, pubblicazioni, manifestazioni, insegnamenti?

E chiedo ancora: non sarebbe più giusto iniziare a perseguire concetti di minore insostenibilità, osservando finalmente il mondo dal punto di vista complessivo e non soltanto relazionato all’interesse umano?

Insomma, Our common future: anche così è conosciuto il Rapporto Brundtland. Ma i disastri in cui è immerso il sistema Terra non consentono di intravedere neppure un futuro a lungo termine, figuriamoci quanto provocatorio e menzognero possa essere parlare di aspettativa comune.

A un punto del Rapporto va però dato merito. Quello di aver introdotto l’importanza della partecipazione di tutti ai processi di cambiamento. Proprio per questo, io credo, il vero propulsore alla mitigazione del danno complessivo è da ricercarsi nella generazione di una coscienza collettiva che non può che derivare da una corretta conoscenza.

Sto cercando di dare il mio contributo.

 

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