Elodia Rossi

Un progetto per la vita

La nostra vita, la vita di ogni essere, dipende dal sistema ambientale complessivo e dagli ecosistemi locali. Dunque la nostra vita, la vita di ogni essere è legata anche a quella di ogni altro individuo e di ogni specie, animale e vegetale. Questa consapevolezza generalmente sfugge a chi, per diverse ragioni e senza colpa, non si è mai trovato ad approfondire il grande tema delle relazioni che governano la vita sul pianeta terra.

Siamo acqua ed energia, prima di essere materia (basti considerare la composizione degli atomi). E questa energia, governata dalle leggi dell’attrazione polare e molecolare, ci rende una sola cosa, un insieme la cui alterazione del singolo causa danni a ognuno.

Per noi uomini, generatori di un sistema complessivo ormai profondamente alterato, fare pace con la terra diventa oggi fondamentale per la sopravvivenza del pianeta. Fare pace con la terra significa molte cose. Significa evitare gli sprechi, significa guardare il mondo con occhio diverso e più consapevole, significa mirare al giusto e non all’effimero, significa abbattere quel muro di diffidenza col la Natura, significa rispettare ogni specie e ogni individuo all’interno dell’affascinante diversità dell’Universo.

Da molti anni studio e analizzo queste relazioni, da molti anni cerco di circostanziare le cause di maggiore devastazione.

Parallelamente e umilmente, cerco di essere attiva su diversi fronti. Tra questi, inserito a pieno titolo nell’ambito della tutela ambientale, vi è il rispetto degli animali. E così – ecco il punto – mi sono trovata, tra l’altro, ad approfondire la situazione di vita di animali rinchiusi, innocenti prigionieri: nei circhi, nei canili, nei gattili, nelle voliere, e via dicendo fino al dramma planetario degli allevamenti intensivi.

Sono luoghi di sofferenza, di tormento, di alterazione delle relazioni naturali, di profonda violazione delle leggi che governano gli ecosistemi. Sono luoghi di trasformazione irrazionale degli equilibri energetici globali e il danno si ripercuote sull’intero sistema naturale, del quale noi uomini siamo parte attiva.

Da molti anni desidero fare qualcosa in più, oltre scrivere, cercare di informare (mi farebbe piacere se leggeste alcuni miei altri articoli sui temi ambientali, alla pagina Urbanistica), muovermi sui diversi fronti con la consapevolezza, purtroppo, di rappresentare niente di più che una delle – seppur tante, ma microscopiche – gocce ribelli all’interno di un oceano ormai in delirio.

Un vecchio contadino, col volto segnato dal tempo e dal sole, indicandomi una distesa di terra, amareggiato mi ha detto: vedi questo terreno? Vedi com’è ridotto? Quando io ero giovane, era pieno di conigli selvatici ed era bellissimo, pulito. Era un prato meraviglioso. Oggi i conigli liberi non si trovano più.

Una dolorosa realtà che mi ha portata a lunghe riflessioni.

E così, vorrei creare un microcosmo di felicità: un luogo dove raccogliere animali in difficoltà estrema e donarli a una vita migliore. Un microcosmo che rifletta il più possibile un’atmosfera di vita naturale, di pace con la terra, dove le energie complessive siano armoniche. Vorrei c he qui, la natura verde e quella animale trovassero quel punto d’incontro ormai smarrito a causa dell’incosciente azione umana. Vorrei che fosse un luogo di formazione alla vita, dove bambini, adolescenti, persone di varia natura (in particolare le disagiate), potessero trovare quegli stimoli utili a guardare il mondo con maggiore coscienza e consapevolezza.

Lo so. È un progetto non facile. E so anche che la sua realizzazione salverebbe un numero limitato di vite. Ma aspiro che diventi un prototipo, un piccolo esempio per tendere verso un mondo migliore. Un esempio a disposizione di tutti, da replicare, da copiare, da migliorare nel tempo.

Vorrei creare un’associazione indipendente di volontariato per la gestione del micro sistema ambientale. Ho già individuato le persone giuste. Gente consapevole, convinta. Avremo bisogno anche di gente necessaria e attiva nel volontariato: un veterinario, un agronomo, un esperto di comportamento animale, volontari che si applichino anche in eventuali pratiche di adozione. Desidererei che questo sistema potesse perfino, nel tempo, garantire lavoro a persone indigenti.

Il microcosmo a cui penso è un ambiente vario, dove la natura verde costituisca il luogo dell’ospitalità per esseri viventi sfortunati, selezionandoli tra i più bisognosi e recuperandoli da strutture dell’orrore (gli allevamenti intensivi, i canili, la strada). Un ambiente autonomo, anche dal punto di vista dell’approvvigionamento idrico (attraverso la creazione di un capiente pozzo). Non credo nelle modalità di captazione delle energie cosiddette alternative (Rif. Articolo: https://www.elodiarossi.it/architettura-e-ambiente-energie-rinnovabili/), quindi desidero ridurre al minimo il consumo energetico (per emergenze e limitate operazioni): il giorno sarà giorno, la notte sarà notte, come la natura insegna.

Gli spazi dovranno essere organizzati in modo da garantire una felice convivenza, senza prevaricazioni.

Sto elaborando gli aspetti architettonici, ormai a buon punto. Il sito c’è, è mio. Sto esaminando gli aspetti burocratici e quelli finanziari, per non trovarmi impreparata.

Insomma, ci sto provando.

E se mai ci riuscirò, attiverò una campagna pubblicitaria mirata soprattutto alle scuole, affinché bambini e adolescenti possano avere contatti con quella Natura e quell’armonia che il mondo contemporaneo ha sottratto alla loro conoscenza.

Perché la pace con la terra disegni la strada del futuro.

Architettura ed Estetica

Questa mattina, sulla pagina Ordine degli Architetti di Facebook, un collega – l’architetto Salvo Cimino – ha girato un post derivato dalla sua interessante pagina personale Cimino Design Studio. Consiglio di leggerne i contenuti.

Il post tratta dei concetti di bellezza, di proporzioni, di estetica e, in un certo senso, di etica. Il tema è affrontato relazionando tre volti femminili, due dei quali noti al mondo: quello di Julia Roberts e quello di Ingrid Bergman. Il terzo volto è rappresentativo delle proporzioni ideali. Eppure, ne esce perdente. Da tale acuto spunto, il collega Cimino passa ai temi dell’architettura e, con lucidità, affronta un concetto che, a mio parere, apre le porte al vero e attuale dibattito sull’estetica e l’etica delle forme architettoniche.

Ho commentato il post con una nozione, la cui paternità si deve al maestro Giorgio Albertazzi, secondo cui la bellezza è l’armonia delle imperfezioni.

Etica ed estetica, fonti privilegiate del pensiero filosofico d’ogni tempo, appartengono strettamente all’architettura. Ed è vero che l’estetica ha preso il sopravvento nell’animo dei maestri della contemporaneità, le cui esternazioni risultano spesso prive di personalizzazione. O meglio, la personalizzazione resta in capo all’autore, penalizzando il committente (colui che vivrà l’ambiente) della sua storia, del suo essere, della sua consuetudine di vita. Concetto che trova terreno fertile soprattutto nel campo dell’edilizia privata. È qui che ogni buon architetto deve individuare la giusta mediazione, esercitando la capacità di esaltazione dell’idea, senza disattenzione delle aspettative altrui.

Per gli ambiti monumentali e pubblici, il discorso possiede altre prerogative: i beni comuni, i bisogni collettivi, luoghi nei quali il rapporto forma/funzione si dilata.

Nel caso dell’edilizia privata, credo che bisogna osservare l’opera di alcuni maestri con una giusta dose di distacco, nell’intenzione di comprenderne gli elementi di innovazione, quali risultati di percorsi di ricerca formali. Un po’ come alcuni degli abiti di alta moda che vengono fatti transitare sulle passerelle, ma che nessuno indosserà mai.

Il concetto della relatività temporale della bellezza mi stimola molto. E coincide con quanto ho sostenuto e sostengo in questo blog. Non c’è architettura fin quando si emula il passato. La Roberts, con tutte le sue imperfezioni, è un’icona della bellezza di oggi. La Bergman, benché più armonica, è icona della bellezza di altri tempi.

Forse non sono spettacolari alcuni edifici rinascimentali? Lo sarebbero altrettanto se fossero edificati oggi? Passato e presente, ognuno col ruolo che vi si deve, per la costruzione del futuro (Rif. articolo Passato e Futuro).

I canoni della bellezza (dell’estetica architettonica) necessitano di riferimenti, sia assoluti che temporali. Al di là dei gusti del singolo, derivazioni di percorsi culturali personali, è necessario che siano individuati elementi superiori, in grado di orientare e caratterizzare la contemporaneità architettonica. Un bisogno, questo, percepito in ogni epoca, fin dall’intramontabile Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci. Più vicini nel tempo, tornano alla mente i cinque punti della nuova architettura di Le Corbusier, poi distorti da adattamenti infelici. Ritorna il tema della necessità di una formazione collettiva che deve affidarsi alla ricerca della buona architettura e alla relativa corretta divulgazione.

Architettura Violata

Ecco che ritorna il tema della violazione dell’architettura. E naturalmente il contesto di riferimento è l’Italia.

Da dove partire? Dall’affermazione, ormai nota, secondo cui Quella degli architetti è la categoria più infetta. Meglio l’Italia dei geometri? Francamente non so neppure se ne vale la pena. Ma è uno stimolo, in qualche misura, per affrontare temi molto interessanti.

In Italia, dal dopoguerra ad oggi, l’impeto di azioni edilizie sconsiderate è stato devastante. Si stima, per difetto, che la produzione dovuta ai geometri copra almeno l’ottanta/novanta per cento della complessiva. Ciò significa che le distruzioni dei paesaggi, cui si assiste in ogni luogo (specie nel Mezzogiorno), non è dovuta agli architetti. E questo è un dato di fatto.

Colpa dei geometri? Non credo. D’altro canto, ognuno produce ciò che gli deriva da capacità e formazione. La vera responsabilità è dovuta a un sistema legislativo e amministrativo incoerente, superficiale e corrotto. Un sistema che non tiene conto degli aspetti formativi, né di quelli relazionati alle capacità personali. Così, un geometra è titolato a fare ciò che, per competenza, spetterebbe agli architetti e agli ingegneri (ognuno per le proprie specifiche professionali). Tant’è che gli Ordini Professionali degli Architetti e degli Ingegneri, riuniti, hanno avanzato una causa nei confronti del potentissimo (dato il numero di iscritti) Collegio dei Geometri. Ed è stato necessario giungere in Cassazione. La Corte si è pronunciata sul tema nel 2009, chiarendo i limiti delle competenze dei geometri e sancendo il divieto di subordinazione dei tecnici laureati da quelli non laureati. Cosa che avrebbe dovuto tempestivamente produrre effetti amministrativi nelle PP.AA., come l’immediata sostituzione dei geometri negli Uffici Tecnici a vantaggio di tecnici laureati. Ovviamente ciò non è accaduto.

Ritengo che il mestiere di geometra sia lodevole, ma – come per ogni mestiere – limitatamente alla sfera di azione delle competenze specifiche. Ritengo che il mestiere dell’architetto conservi, per percorso formativo, delle prerogative che non possono essere scavalcate.

Chi ritiene che quella degli architetti sia la categoria più infetta, senza analizzare quale derivazione abbia lo scempio del paesaggio italiano, parla senza fondamento. E semmai l’affermazione fosse riferita al tentativo, purtroppo ancora timido, che l’Italia sta facendo nell’avvicinarsi all’innovazione architettonica contemporanea, beh, allora siamo di fronte a un’incapacità evidente di comprendere i processi evolutivi internazionali. È una chiusura nei confronti della ricerca appassionata, quel genere di ricerca che ha prodotto l’alternanza delle fasi storiche dell’architettura, che ha dato forma anche al lodevole passato, che ne ha consentito il progresso.

Ma l’Italia, che nei tempi andati è stata maestra, oggi subisce la sua magnificenza storica. Questione che ho già affrontato in altri articoli: Un problema di cultura, Architettura contraddetta, Uno stadio per Roma, eccetera. L’agonizzante senso di malinconia produce poca reazione e troppa emulazione. La visione del futuro è contratta e alterata, il passo è debole.

Disturba che voci così stonate giungano da chi ha un rapporto privilegiato con l’arte (perlomeno, con certe arti). Ma non importa. È evidente che si tratta di considerazioni fondate su elegiaci appigli ai tempi che furono. O, più semplicemente, di provocazioni a cui non bisogna prestare il fianco. Dispiace soltanto che l’eco possa ingigantirne il peso e rallentare ancor più i processi evolutivi dell’architettura italiana. Già – e più volte – abbiamo ascoltato pensieri preoccupanti, giunti tramite i media da esponenti elevati di diverse discipline. La responsabilità che ne deriva è grande e dovrebbe pesare come un macigno su chi si fa portavoce di certe affermazioni.

D’altro canto l’architettura non è per tutti, sebbene sia di ognuno. E certamente non può essere di coloro che non affidano alla sperimentazione formale, all’innovazione, il valore inestimabile della crescita culturale.

Passato e Futuro

Con l’articolo “Architettura Contraddetta” ho messo in evidenza alcune carenze dell’epoca attuale, denunciando l’assenza di una linea architettonica condivisa, di uno stile caratterizzante. Ricorderete che ho detto, tra l’altro:

…in altre epoche il passo era coerente, eccome. Le caratterizzazioni formali dei vari stili architettonici sono chiare a tutti: il gotico, il barocco, il rinascimentale, eccetera. E ne è chiara la cadenza temporale. Ma oggi? Quali sono i riferimenti? Quali le indicazioni per il nuovo “edificare”? Quanto ne sa la gente?

Bene. Vorrei precisare meglio il concetto, per evitare di essere fraintesa e per trasmettere un messaggio chiaro e inequivocabile.

Viviamo nell’epoca della grande confusione, dell’impennata delle scienze tecnologiche e informatiche, della prevaricazione dell’informazione (anche e soprattutto distorta) a qualsiasi livello e grado. In architettura – per circostanziare il concetto – i messaggi che ne derivano, soprattutto attraverso il web, giungono spesso da soggetti poco o niente affatto competenti.

Quest’epoca delirante paga a caro prezzo anche il grande dibattito sull’architettura che, non molto in là nel tempo, vedeva contrapposte le prerogative funzionali a quelle formali. Forma e funzione: quale privilegiare? L’ovvia risposta, incomprensibilmente giunta troppo tardi, è: perché non tutte e due? La dicotomia che ne era derivata, a mio parere, per lunghi anni ha trascinato in una strana forma di oblio la produzione architettonica d’autore. Intanto e di pari passo viaggiava il processo d’avanzamento della società dell’informazione. Il disastro è stato inevitabile.

Cara complessità! Perché mai non sei intesa come un bene prezioso?

In passato, le linee evolutive dei processi architettonici venivano divulgate quasi esclusivamente tramite l’opera dei grandi professionisti. Quell’opera che ancora adesso riempie i libri di testo e diviene evocativa per coloro che hanno la capacità di analisi, di discernimento, d’interpretazione corretta dell’evoluzione storica dei grandi e affascinanti processi architettonici.

Con questo spirito analitico e critico deve essere letto il passato. Fonte di grande ispirazione, ma giammai di emulazione. Eccome, se la storia dell’architettura insegna! Tuttavia, anche e soltanto l’idea di imitare forme e caratterizzazioni di qualsiasi epoca passata costituisce il più disastroso errore che un architetto possa fare.

L’architettura, lo ripeto, è arte. E, in quanto tale, è ricerca continua, appassionata. Dunque è innovazione.

Mi auguro di essere stata chiara. E avrò modo di ritornare più volte a parlare dell’importanza del passato nella costruzione del futuro.

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