Elodia Rossi

L’immenso dramma urbano

La città mondiale è lo specchio dell’inganno della sostenibilità (Rif. art. L’inganno della Sostenibilità). Come ho già detto, gli ambiti urbani consumano il 75% delle risorse del Pianeta, pur occupando una superficie inferiore al 5% di quella delle terre emerse (Rif. Articoli della serie Spasi e Luoghi dell’Architettura).

In valori assoluti, su circa 149.000 migliaia di km, estensione delle terre emerse, vivono oltre 7,516 miliardi di persone (valore in esponenziale crescita, visto che solo quest’anno – e finora – sono nati oltre 72 milioni di bambini e sono morti poco meni di 30 milioni di individui). La popolazione mondiale complessiva è distribuita sul 10% delle terre emerse, ossia su 14.900 migliaia di km. 4 miliardi di persone vivono nelle aree altamente urbanizzate, altri 2 miliardi circa vivono in quelle mediamente urbanizzate. Solo 1,5 miliardi di individui sono distribuiti nelle aree meno urbanizzate.

Appare ragionevole, intersecando i numerosi dati che ho riportato in vari articoli, asserire che:

  • meno dell’1% della superficie delle terre emerse (quota attribuibile alle aree altamente urbanizzate) accoglie 4 miliardi di individui, con una densità abitativa drammatica e oscillante in dipendenza della tipologia di area. Qui ha sede lo sviluppo delle baraccopoli che, come ho già detto (Rif. Art. 4 – Spazi e Luoghi dell’Architettura), ospitano 1 miliardo di persone,
  • circa il 4% della superficie delle terre emerse (quota attribuibile alle aree mediamente urbanizzate) accoglie altri 2 miliardi di persone,
  • sul restante 5% (aree poco urbanizzate) sono distribuiti 1,5 miliardi di individui.

Chiarisco che quando parlo di aree altamente urbanizzate non mi riferisco solo alle 21 maggiori megalopoli (fenomeno inquietante, che da solo accoglie il 20% della popolazione mondiale – Fonte ONU, ovvero 1,5 miliardi di persone), ma a tutti quegli ambiti che presentano un tasso di urbanizzazione molto alto. Quando parlo di aree mediamente urbanizzate, mi riferisco alle città medie città. Gli agglomerati minori – borghi, paesi, piccole città, eccetera – costituiscono l’ultima categoria.

Tokyo – Foto di David Mark
Fonte Pixabay

Le megalopoli, in vertiginoso aumento anche del numero (nel 2014 l’ONU stimava che sarebbero diventate 29 nel 2025, e invece già oggi se ne contano 37), hanno superato perfino il concetto che ne aveva dato Gottmann. La struttura polinucleare sembra non esistere più e le aree agricole – cuscinetti d’interconnessione – sono ormai sparite nella maggioranza dei casi.

Questi mostri – costantemente monitorati dal Global Urban Observatory Network (GUO Net) di UN Habitat – quasi mai offrono condizioni di vita accettabili. Al di là di casi in cui la razionalizzazione urbana, derivata da un’efficace pianificazione (come per New York), se non altro produce una forma di vivibilità più fluida, questi luoghi attraggono e generano insieme problemi di ogni natura.

Giusto per avere idea del fenomeno, benché approssimativa, le 21 maggiori megalopoli accolgono più di 350 milioni di individui e occupano una superficie totale di circa 120.000 kmq. Ne deriva una densità media di 2.916 ab/kmq. Valore molto vicino a quello di Roma, pur non essendo questa nel guinness dei primati. Ma qual è la vera distribuzione degli abitanti delle megalopoli? Come valutarne le concentrazioni in porzioni di territorio maggiormente compromesse? Può considerarsi accettabile, per esempio, che Mumbai possegga una densità superiore ai 30.000 ab/kmq e Lagos superi i 16.000? Un dato è certo: densità urbana e povertà sono fortemente relazionate.

Insomma, la città cresce a dismisura e i fabbisogni urbani – reali ed effimeri – seguono il passo. L’incapacità umana di contrarne la domanda genera il delirio di cui ho più volte detto e le ripercussioni sono rintracciabili nell’enorme danno ambientale, nell’invivibilità (che richiama insicurezza, abbandono, traffico, sovraccarico diffuso, criminalità, miseria, insopportabile amplificazione del divario ricchezza/povertà, eccetera), fino alla guerra e alla morte precoce.

Sempre più la città si sta trasformando da luogo del vivere in luogo del morire.

Lo scintillio delle luci notturne, la disponibilità di luoghi per lo svago, la diffusione di servizi di approvvigionamento e tutti gli altri apparenti benefici sono fuochi di paglia e, troppo spesso, sono essi stessi causa del grave disagio, perché richiedono un insostenibile impiego di risorse.

La città non è pronta al cambiamento che la società odierna ha velocemente imposto, definendo una traiettoria a dir poco devastante. Le architetture non sono adeguate e la presunzione politico/amministrativa di internazionalizzare ogni ambito urbano è un coltello nel fianco dell’equilibrio globale. Intanto la Cina si spinge ancora oltre e, derivazione d’un pensiero politico di stampo imperiale, avvia un piano per la costruzione della megalopoli più grande del mondo: Jing-Jin-Ji, pensata per accogliere oltre 130 milioni di abitanti. Un piano di dominazione del mondo.

Quale messaggio? Quale risposta? Quale futuro? Quali azioni intraprendere?

Procedo per passi. Ho promesso che avrei analizzato, uno a uno, i più importanti moventi del crollo delle città per poi, con prudenza, arrivare a definire le azioni che – dal mio punto di vista – potrebbero condurre a metodi di riqualificazione urbana. Inizierò col parlare di allevamenti intensivi e del derivato effetto serra. Perché è anche questo un problema urbano, visto che la domanda più ingente giunge da qui.

L’inganno della sostenibilità

È il 1987. La WCED (Commissione Mondiale Ambiente e Sviluppo) è coordinata da Gro Harlem Brundtland, una donna norvegese, capace, motivata e impegnata in battaglie ambientaliste. È lei a commissionare il Rapporto che prenderà il suo nome. E certamente le sue intenzioni sono oneste.

Ed è ancora lei, attraverso il medesimo Rapporto Brundtland, a consegnare un concetto di sostenibilità secondo cui:

lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri

“Un concetto” che presto diventa “il concetto”. Sedi del potere, Università, scuole di qualsiasi livello e grado, Associazioni, Fondazioni, Onlus, nicchie culturali, pensatori aperti, geografi, stampa, televisioni, eccetera eccetera, tutti convinti di avere tra le mani la soluzione per il comune futuro.

Da troppi professori (e dai presunti tali) ho sentito enunciare questo principio, trasferirlo agli studenti, obbligare gli studenti a farlo proprio come fosse un assioma matematico. Troppi testi di studio lo propongono in questa modalità. Slogan puro e spiegazioni poche. Ma chissà quanti hanno realmente letto il Rapporto Brundtland per intero. Pochi direi, altrimenti l’idea dell’assioma – perlomeno in una certa direzione – avrebbe perso significato.

Difatti all’interno del Rapporto questo concetto dimostra essere più vicino alla speranza, al monito, che alla certezza. E ciò, nonostante un certo grado di incomprensibile (almeno dal mio punto di vista) ottimismo, particolarmente relazionato al convincimento che la tecnologia avrebbe provocato un tale straordinario cambiamento, del tutto favorevole al sistema ambientale complessivo, conducendo verso un differente e più equo sviluppo economico. Non è così. Non è stato così e non sarà, purtroppo, così.

Ma qual è la realtà?

Nella serie Spazi e Luoghi dell’Architettura (voce del blog Architettura, sub-voce Quaderni) ho spesso affrontato il tema del disastro ambientale. Nell’articolo N. 7 della serie ho raccolto dati ufficiali su alcune delle più importanti cause di devastazione della Terra. In appena trentacinque giorni, dal 4 aprile al 9 maggio 2017, è accaduto questo:

Nel mondo, 1.830.834 ha di foreste sono state distrutte e 2.464.802 ha di terra coltivabile è stata erosa (Fonte: FAO). La desertificazione ha raggiuto la soglia di 4.224.589 ha (Fonte: UN). L’emissione di CO2 si attesta a 13,42 miliardi di tonnellate (Fonte: IEA). Le sostanze tossiche rilasciate nell’ambiente misurano 3.447.427 tonnellate (Fonte: UN).

Sono trascorsi solo trent’anni dalla data di emissione del Rapporto Brundtland. E dico solo perché mi è difficile credere che nel 1987 i redattori del Rapporto non avessero chiaro il problema – benché forse meno incisivo di oggi – di cosa stesse realmente avvenendo, di quale danno catastrofico si stesse macchiando l’umanità.

Il processo di cambiamento secondo cui lo sfruttamento delle risorse, l’orientamento degli investimenti, l’indirizzo dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con gli attuali, come immaginato dal Rapporto, non ha fondamenta. Basti riflettere sul tema dell’esauribilità di alcune risorse.

Foto di Kalman Kovats

Dal 1987 a oggi le fonti inquinanti sono aumentate vertiginosamente, si sono moltiplicati gli allevamenti intensivi (immorale attività e principale causa dell’effetto serra), le emissioni nell’aria di PM10 (e di altri infestanti) crescono a dismisura. E poi l’erosione delle terre, il prosciugamento delle falde acquifere, la desertificazione e la conseguente estinzione di specie animali (oltre al tema etico, che per me ha privilegio, dovremmo tenere presente che noi esistiamo perché esistono loro, nel rispetto delle regole naturali che si chiamano ecosistemi). E poi l’esponenziale crescita delle conurbazioni che, come ho detto in altri articoli, assorbono il 75% delle risorse planetarie. E poi l’iniqua ripartizione della ricchezza che, data la forbice ormai raggiunta, sembra mollare uno schiaffo allo stesso Rapporto Brundtland laddove asserisce che, adottando alcune misure, si può giungere a una più coerente distribuzione economica perfino ai livelli nazionali.

Tutti temi su cui ritornerò, uno ad uno, per dimostrare quali responsabilità abbia la città odierna, quali futilità collettive degli spazi urbani producano devastazione, morte e guerra.

Allora chiedo: a cosa è servito, quale impulso ha dato il Rapporto per procedere verso un migliore futuro? Come mai se ne continua a parlare, convinti (almeno apparentemente) del grande merito che ha avuto l’acclarato concetto di sostenibilità? Quanti interessi reali sono intravedibili oltre tutto questo fare convegni, pubblicazioni, manifestazioni, insegnamenti?

E chiedo ancora: non sarebbe più giusto iniziare a perseguire concetti di minore insostenibilità, osservando finalmente il mondo dal punto di vista complessivo e non soltanto relazionato all’interesse umano?

Insomma, Our common future: anche così è conosciuto il Rapporto Brundtland. Ma i disastri in cui è immerso il sistema Terra non consentono di intravedere neppure un futuro a lungo termine, figuriamoci quanto provocatorio e menzognero possa essere parlare di aspettativa comune.

A un punto del Rapporto va però dato merito. Quello di aver introdotto l’importanza della partecipazione di tutti ai processi di cambiamento. Proprio per questo, io credo, il vero propulsore alla mitigazione del danno complessivo è da ricercarsi nella generazione di una coscienza collettiva che non può che derivare da una corretta conoscenza.

Sto cercando di dare il mio contributo.

 

N. 3 – Spazi e Luoghi dell’Architettura

Eccomi al terzo articolo su Spazi e Luoghi dell’Architettura.

I nefasti dati riportati nell’articolo precedente – sui temi della deforestazione, del consumo del suolo agricolo e dell’inquinamento – lasciano facilmente capire quale situazione di disagio sta vivendo l’intero Pianeta. Una situazione che è diretta derivazione dal modo con cui l’abitare umano si sta sviluppando.

Il correlato tema dell’ingigantimento esponenziale delle aree più urbanizzate ne è sì la causa, ma soltanto in relazione al modo con cui questo fenomeno sta dilagando. I fabbisogni delle conurbazioni sono enormi e si stima che in esse venga eroso il 75% delle risorse del Pianeta.

Certamente, secondo un’ipotesi ormai non più percorribile, la distribuzione razionale e pressoché equa dei luoghi delle funzioni umane sulle terre emerse, sarebbe la soluzione migliore, capace di generare un privilegiato rapporto tra edificato e ambiente naturale, con derivazioni efficaci in termini di abbattimento dei tassi di inquinamento. Il verde, ricordiamolo, è il polmone dell’Universo.

Tuttavia, le megalopoli aumentano di dimensione e si moltiplicano. Qualsiasi città cresce velocemente, mentre si spopolano sempre più le campagne. Ma perché? Facile dirlo. Nel contesto di una società decisamente mutata (da quella agricola a quella dell’ICT, fino alla globalizzazione con le relative incidenze), la concentrazione delle funzioni vitali – sedi lavorative, sedi abitative, sedi ludiche, sedi commerciali, sedi sanitarie, eccetera – avrebbe dovuto permettere vantaggi in termini di riduzione dei tempi e miglioramento della vita. E questo, senza contare il contributo enorme che avrebbe dovuto giungere dalla rete. Dato l’orientamento della contemporaneità però, anche questa ambizione si contrae e subentrano elementi di frattura, come disservizi e disfunzioni, che determinano dilatazioni temporali inadeguate e insopportabili.

Insomma, se la vita nelle grandi città dovrebbe consentire perlomeno alcune facilitazioni, le effettive relazioni spazio/funzionali assumono complessità ingovernabili. L’enorme disparità tra risultati e aspettative, ha tradotto la città contemporanea in luogo dell’invivibilità.

Ciò che comunemente viene chiamato progresso, secondo logiche prevalentemente economiche che spesso e opportunisticamente non esaminano gli scompensi ambientali, ha dunque imposto mutazioni impattanti e, per certi versi, inattese. Come accennato, le necessità umane sono drasticamente cambiate nel corso di soli due Secoli di storia e la grande società contadina ha lasciato il passo prima alla società tecnologica, poi anche a quella dell’informazione avanzata. La speranza che, in tempi abbastanza recenti, si affidava alla diffusione via cavo (poi via etere), consistente nell’abbattimento delle distanze (il cosiddetto km 0), non ha dato i frutti attesi. E così, benché gli intervalli della comunicazione siano ormai inesistenti, ben altri fattori (soprattutto di consumistico mercato) hanno inciso negativamente sul complesso della gestione delle funzioni umane, imponendo comunque la necessità – per alcuni versi, l’aumento – degli spostamenti fisici.

L’architettura ne è risultata disorientata. Quest’alternanza di aspettative umane ha compromesso studi e ricerche nel campo del costruire globale. La risposta scientifico/architettonica non si è rivelata adeguata. Ora siamo al bivio, pur nell’incertezza del domani, di quali sviluppi ancora ci siano riservati, di quali cambiamenti dovremo ancora occuparci.

Ma siamo al bivio. O l’architettura sceglie la corretta strada, oppure non ci sarà ritorno.

L’architettura sta tentando rimedi, sbaglia e riprova ciclicamente, confusa dalle mille trasformazioni. Ma, forse, un punto fermo su cui lavorare c’è. Ovviamente riguarda la gestione formale dello spazio urbano e funzionale. Ci arriveremo e capiremo i vantaggi della verticalizzazione. Nulla potrà essere più incisivo dello studio di alcune importanti città mondiali.

 

NOTA: Suggerirei, per approfondimenti sul tema della crisi urbana, di leggere alcune pubblicazioni edite da Giannini Editore e curate dal prof. Corrado Beguinot (Presidente della Fondazione di Studi Urbanistici Aldo Della Rocca), cui ho anch’io partecipato, derivate da una ricerca pluridecennale e sottoposta al vaglio delle Nazioni Unite. Successivamente, in un articolo dedicato, ne illustrerò il percorso.

N. 2 – Spazi e Luoghi dell’Architettura

Sono al secondo articolo di una serie che sto numerando. Si tratta di una specie di sintetica rivista sul tema degli spazi e dei luoghi dell’architettura globale, con attenzione particolare all’Italia.

È mia intenzione individuare quali orientamenti dovrebbe avere l’architettura dell’oggi e del domani, in relazione alle tematiche spazio/ambientali.

Nell’articolo precedente (N. 1- Spazi e Luoghi dell’Architettura), dopo una sommaria ma – a mio parere – indicativa analisi dei dati su popolazione, territorio e densità abitativa, ho posto alcune domande. In questo articolo e in quelli che seguiranno proverò a darvi risposta.

I quesiti:

Quali sono le logiche con cui interpretare i dati emersi, apparentemente sorprendenti? Una densità abitativa alta è segno di degrado o di progresso? I dati decontestualizzati possono aver senso? Cosa ci aspetta domani?

Inizio.

Quando affermo che i dati emersi appaiono sorprendenti, mi riferisco alle oscillazioni che vengono determinate, rispetto al dato medio di densità abitativa mondiale, dalle aree urbanizzate. Difatti la media di 50 abitanti/kmq relativa alle terre emerse viene a ridursi considerevolmente nelle aree esterne alle grandi e medie città.

Più della metà delle persone del mondo vive in aree altamente urbanizzate (circa 4 miliardi), seguendo un andamento esponenziale. Secondo l’ONU, che dal 1988 elabora uno specifico rapporto annuale sul tema, la popolazione urbana mondiale dovrebbe aumentare all’84 per cento entro il 2050, raggiungendo i 6,3 miliardi di persone.

La superficie del globo occupata da insediamenti umani è pari a 1/10 della complessiva superficie delle terre emerse. Qui vive il 95% della popolazione mondiale.

Detto fatto. Sul 10% della superficie terrestre (pari a 14.900 migliaia di kmq) vivono oggi 7,125 miliardi di persone. Ciò significa che sul restante 90%, pari a 134.100 migliaia di kmq, ne vivono 0,375.

Passiamo alla densità abitativa media. Rispetto al dato complessivo (50 ab/kmq), sul 90% (aree non urbanizzate) la densità è pari a 2,8 ab/kmq, mentre sul 10% di aree urbanizzate (di qualsiasi specie) la densità abitativa sale a 478,19 ab/kmq. Quest’ultimo dato è ulteriormente scorporabile se si osserva quello medio relativo alle megalopoli, pari a circa 12-15.000 ab/kmq. E siamo nel terreno dei valori medi, dunque soggetti a variazioni – anche sostanziali – interne ad ogni conurbazione.

La quota di 1/20 della popolazione complessiva vive nelle 21 megalopoli (con almeno 10 milioni di abitanti) del mondo. L’ONU stimava che le megalopoli sarebbero salite a 29 nel 2025. Riporto il relativo schema geografico proiettivo. Valore che si è rivelato, in breve tempo, sottostimato.

Fonte: Nazioni Unite

Ma quali effettive relazioni esistono tra questi dati e il disturbo ambientale? Da una lettura superficiale potrebbe sembrare che l’attuale tendenza alla concentrazione in aree altamente urbanizzate sia vantaggiosa per gli ecosistemi naturali. Non è così. O meglio, non è esattamente così, visto che il ruolo chiave spetta all’architettura, al modo con cui viene concepito l’abitare. Ma ci arriveremo.

A questo punto entra in campo il diffuso consumo ambientale che deriva dai bisogni delle grandi urbanizzazioni. E tutto ciò va ben oltre il solo consumo di suolo che compete le stesse aree sovraffollate, all’interno delle quali i tassi di inquinamento e di alterazione degli ecosistemi hanno raggiunto soglie insopportabili (i cui parametri specifici d’inquinamento superano quelli che sto enunciando).

Si pensi, ad esempio, che nel mondo 1.333.351 ha di foreste sono state distrutte (Fonte: FAO – Global Forest Resources Assessment) solo nel corso di questo anno (ossia in tre mesi) e 1.795.065 ha di terra coltivabile è stata erosa (Fonte: FAO – Dimension of need: Restoring the land). La desertificazione, sempre in questi tre mesi, ha raggiunto la soglia di 3.076.707 ha (Fonte: United Nations Convention to Combat Desertification). Di conseguenza, cresce vertiginosamente l’emissione di CO2, attestandosi a poco meno di 10 miliardi di tonnellate (Fonte: IEA – International Energy Agency). Infine, le sostanze tossiche rilasciate nell’ambiente corrispondono a 2.510.793 tonnellate (Fonte: United Nations Environment Program). Dati rilevabili in tempo reale, che si riferiscono all’anno e all’istante in cui sto scrivendo: ore 15,00 del 4 aprile 2017. Tra qualche minuto saranno già aumentati.

Valori che fanno rabbrividire e che devono sollevare la coscienza collettiva. E devono richiamare l’analisi collaborativa di noi architetti, operatori privilegiati per il conseguimento di un domani migliore.

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