Contributo al sapere
Dialoghi sul clima
Già il titolo di questo volume ne chiarisce qual è l’obiettivo: proporre adeguati confronti sul tema climatico, nella consapevolezza che non possa esserci conoscenza senza dialogo.
Edito da Rubettino
Con il contributo scientifico del CERI – Centro di prevenzione e controllo dei rischi geologici ambientali, Università La Sapienza, Roma
A cura di: Alberto Prestininzi.
Presentazioni di: Gabriele Scarascia Mugnozza, Guus Berkhout, Enzo Siviero
Introduzione di: Alberto Prestininzi
Contributi di: Mario Giaccio, Nicola Scafetta, Uberto Crescenti, Franco Battaglia, Augusta Vittoria Cerutti, Teresa Nanni, Franco Prodi, Ernesto Pedrocchi, Piergiorgio Rosso, Gianluca Alimonti, Renato Angelo Ricci, Luigi Mariani, Giuliano Ceradelli. Giovanni Brussato, Enrico Mariutti, Elodia Rossi.
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In un momento storico caratterizzato diffusi opinionismi su argomenti che invece necessitano di fondamenta conoscitive solide, il volume consegna al lettore molteplici spunti per stimolare quell’obiettività che è alla base del sapere.
Consiglio questa lettura e consiglio di approcciarvi con mente libera, pronta ad analizzare, a riflettere, a valutare. Sarei soddisfatta, come tutti gli autori, se ne derivasse un dialogo intenso e civile.
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Quelli che s’innamoran di pratica sanza scienzia son come ‘l nocchier ch’entra in navilio senza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada.
E veramente accade che sempre dove manca la ragione suppliscono le grida.
(Leonardo Da Vinci, Codice Urbinate, 29)
Inquietudine
Tra narrativa e saggistica, un brano spero divertente, scritto come se parlasse un adulatore di Velàsquez.
(D’altro canto credo che Velàsquez sia stato uno dei più grandi geni dell’arte)
Ahi, Velàzquez non t’avessi mai incontrato! Con te non si torna una sola volta indietro.[1]
Poche sono le persone che hanno avuto la capacità di insidiarsi nel mio pensiero a tal punto da generare in me una specie di movimento interiore che assomiglia alla turbolenza. La gran parte di questo già sparuto numero di persone, per luogo comune viene fatta appartenere all’universo dei morti: individui che invece restano eternamente vivi. All’ombra di quei cipressi e dentro quelle urne, il conforto del pianto non sarebbe neppure percepibile se mai ancora vi fosse, poiché è lì che esplode una vitalità niente affatto esoterica, ma reale, concreta, profondamente colorata, fatta di chiaro-scuri e di giochi di forme, di immediatezza percettiva quanto di sublime scaltrezza che giunge, talvolta, perfino all’inquietudine.
Non è un caso che fra tanti, Velàzquez, io rivolga a te il mio trepidante pensiero, calcolata trasposizione del temperamento che trasuda dalle tue tele e mi pervade l’animo. A te che poni l’oggetto del dipinto all’interno di una cornice posta in secondo piano e fai esplodere sulla tela ben altri elementi e soggetti, tratti qua e là dal cosmo dell’esistenza. A te che non ti preoccupi di esiliare l’obiettivo, proprio perchè il tuo obiettivo non coincide con quello per cui sei stato chiamato a operare. A te che riservi dunque al primo piano la percezione che possiedi della vita e ti eserciti ripetutamente con l’intreccio degli infiniti aspetti dell’essere, più o meno rilevanti, confinando ognuno di essi al ruolo che più ti pare opportuno nell’articolato contesto della tua tela. Tela che trasformi in luogo di allenamento e ricerca, in continua metamorfosi intima. A te che nascondi crudelmente e raffinatamente, quasi escludendolo dalla rappresentazione pittorica, l’unico vero tema d’iniziale ispirazione, forse addirittura incurante del fatto che l’altrui percezione possa conseguire il vero obiettivo della comprensione del tuo intrigante lavoro.
Il tuo artificio è pittura per eletti. E’ arte che esclude la mediocrità. E’ raffinata e coinvolgente ricerca che assurge dall’intimo d’un astruso meccanismo non facilmente catalogabile, finanche attraverso possibili interpretazioni derivate da consapevoli e colte azioni di discernimento della più elevata dialettica di tutti i tempi. E se è vero, come Sgarbi ha abilmente capito e in qualche modo detto, che la tua pittura è una conferma del mondo delle idee di Platone, generando consapevolmente il dibattito tra conoscere e riconoscere nell’animo di colui che osserva, è pur vero che questa esplorazione è privilegio di chi ha già conosciuto e più volte riconosciuto (ancora d’accordo con Sgarbi e con i risultati di un ampio dibattito filosofico sui temi della conoscenza che trova il suo fulcro nel mito della caverna di Platone), di chi è esercitato a tale sublimazione del pensiero. Di me, per esempio.
E che siano Filippo IV e sua moglie, o che sia il Cristo con Marta e Maria, tu è me che guardi, traducendo l’osservatore in osservato. Sono io il tuo stimolo, la tua idea, il tuo primo e ultimo obiettivo. Talvolta il tuo sguardo stesso, come in Las Meninas, talvolta quello di qualcun altro, come per la donna del Cristo in casa di Marta e Maria, sono rivolti a me che ti osservo attraverso l’ambiguità della tua pittura, illusoria, ingegnosa e concreta allo stesso tempo. Nasce lo stimolo: tu mi guardi ma io sono già pronto. Ti guardo anch’io e la sfida è ha inizio. Tu mi parli e io rispondo. Tu mi osservi e io ti osservo. Tu mi provochi e io reagisco alla provocazione con un nuovo incitamento, e la competizione non ha mai fine. E’ la maestria dell’arte vera, quella che si può guardare ogni giorno diversamente, quella che sottende insidie e istigazioni, quella che non consente la compiutezza della penetrazione. E’ dialettica.
Inquietudine: la banalità concettuale che la confina a particolare condizione che pervade gli animi trepidanti e preoccupati, non conviene al mio pensiero. L’inquietudine vera è uno stile di vita, una condizione sublime a cui aspira il colto, l’intelligente. Perché manifesta insoddisfazione, necessità di conoscenza, sete di sapere. L’inquietudine è ricerca continua, estenuante, sofferta, consapevole solo per i più attenti, generalmente ignara perfino di sé stessa. L’inquietudine è giudiziosa perversione della mente che non si contenta dello scorrere inutile dei giorni e mira alla turbolenza elettiva dello spirito. Inquieta è la tua pittura, Velàzquez, come inquieta è la mia vita.
C’è inquietudine nello slancio assurdo dei tuoi cavalli, Velàzquez, in quegli atteggiamenti irreali che mostrano nel sollevarsi nervosi sulle zampe posteriori e che mai sarebbero potuti avvenire nella realtà. C’è inquietudine nell’immobilità degli occhi inesplorabili delle tue Meninas, poste a segnare il limite tra te, interno alla tela, e me, collocato fuori da essa pur essendone parte. C’è mesta inquietudine perfino nel volto scoraggiato di Ferdinando d’Austria in tenuta da caccia, il quale, allontanato dalla centralità dell’enorme dipinto, lascia spazio ad un’altrettanto inquieta natura di sfondo. Ogni tua espressione artistica sembra affermare che per la conquista della sublime condizione di saggezza acclamata da Socrate, c’è tempo, c’è ancora molto tempo.
Hai sempre manifestato la tua ricerca continua, assidua verso l’inquietudine, esulando magistralmente da ogni possibile limite di scuola e perfino di tempo. Forse perchè ne fosti privo nella tua storia di pittore di corte, riconosciuto e acclamato in vita come a pochi artisti è accaduto.
C’è un’ambiguità in tutto questo che trasporta la mia riflessione verso l’immensa opera e la dolorosa vita di un altro sublime artista: il Caravaggio. Per questi l’argomento si ribalta: si ribaltano le logiche, le azioni, le considerazioni. Quanto Michelangelo scelse la sua straziante inquietudine in vita e quanto scelse la sua straordinaria chiarezza rappresentativa in arte? Un uomo dalla breve e angosciosa vita, ben oltre i limiti della ragionevolezza, trovava forse rifugio e contrapposizione al suo tormento nella magistrale capacità di utilizzare i colori, nei suoi mai uguagliati chiaroscuri? Eppure le sue tele, chiare e inequivocabili, espressivamente perfette, trasudano di dolore.
Quanto l’inquietudine necessita di pacatezza e quanto la pacatezza cerca l’inquietudine?
Nell’esplorazione della propria vita, quando si fondano le basi su tesi, su convincimenti o semplicemente su fatti non sempre d’immediata comprensione, che però segnano l’orientamento dell’esistenza, emerge la necessità della presenza di elementi diversi, opposti: c’è bisogno di antitesi. Il non sconfessabile linguaggio matematico insegna: è l’antitesi che permette di confermare o di confutare la tesi. E’ l’antitesi che i grandi pensatori hanno utilizzato per dare compiutezza alle idee. E questo concetto è tanto più concreto quanto più è sofferta e radicata la tesi di partenza – avente o meno la fattezza d’un assioma; è tanto più concreto quanto più è intelligente il soggetto che elabora una tale condizione. E’ così che si apre la via all’inquietudine. Per un artista, la propria capacità espressiva può divenire l’antitesi dell’esistenza. Non è importante quanto questo meccanismo sia noto a chi l’adopera. Importante è quanto venga adoperato.
Ho avuto un dono fin dalla nascita. Una presenza interiore che mi pervade l’animo e mi porta a vivere ardentemente, appassionatamente, senza per questo subire le aggressioni agognanti tipiche di chi non sa gestire la propria trepidazione. L’inquietudine è come la complessità. La complessità, di per sé è cosa auspicabile, ambita, necessaria. Ma deve essere governata. L’incapacità di governare la complessità porta alla confusione, al degrado, alla disgregazione del buono. Il non governo dell’inquietudine soprintende l’annientamento della personalità. La mia naturale inquietudine, soave e governata, ha trovato la contrapposizione nell’osservazione dell’opera d’arte. Arte: antitesi alla mia esistenza e conferma incessante e necessaria della sua stessa utilità.
E’ sovente facile soggiacere all’osservazione, soprattutto quando ci si trova dinanzi all’opera d’arte vera. Il segreto è essere pronti all’analisi. Per questo, più che esercitare l’osservazione fine a sé stessa, bisogna attivare il dialogo. Esattamente come io faccio. Si tratta di una pratica che necessita di conoscenza e, ancor più, di sagacia. Sovrastante l’universo della conoscenza, difatti, c’è quello dell’intuizione. La conoscenza si acquisisce, l’intuizione si possiede da sempre. E’ un dono. Nell’osservazione dell’opera d’arte non avverto sudditanza, non attendo passivamente d’essere istruito. Sono attivo, discuto, mi confronto, esercito la mia concitazione. A essa, all’arte, il ruolo di temperare il mio spirito e condurmi alla pacatezza.
Talvolta, sebbene raramente, è l’opera d’arte stessa che mi riconduce all’inquietudine, arma per salvaguardarne la demolizione. E’ così che avviene quando osservo te, Velàzquez. Anche alla tua opera consegno il compito di lasciare che la mia vita continui a scorrere tra gli infiniti rivoli dell’esuberanza e della seducente piacevolezza.
Un vecchio zingaro ungherese, parlandomi di te giurò che c’eri prima di suo padre, prima del padre di suo padre, più in là nel tempo non andò[1].
[1] Dalla canzone “Velàzquez” di Roberto Vecchioni
Rinascimento
Cina, 41.375° N – 88.325° E: uno dei luoghi devastati dai test nucleari. Immerso nel silenzio tombale, poetico nella conformazione morfologica, lontano dalla vita e dagli occhi di tutti, inaccessibile per pericolo radioattivo, dimenticato, meriterebbe una rinascita.
Il mio omaggio: un’idea progettuale che annienta il doloroso ricordo, richiamando l’intimo significato del rinascimento.
Un percorso di silenziosa e personale ricerca guidata dall’uomo vitruviano, un labirinto. Una meridiana che indica la meta. Il passaggio scandito dalle coordinate geografiche di tutti i siti mondiali mortificati dai test nucleari.
La conquista della serenità, verso il divenire. Verso la vita.
Ponte Real Ferdinando
Le forme dell’architettura monumentale di tutti i tempi hanno relazioni inscindibili con i processi storico-culturali che le hanno generate. E la concreta comprensione di un manufatto si avvera soltanto quando è viva la consapevolezza degli avvenimenti che esso rappresenta.
Il basso Lazio ha avuto un ruolo importantissimo nell’evoluzione della storia italiana, sia dal punto di vista ambientale che monumentale che politico. Anche da una superficiale analisi è facile comprenderne la portata. Si pensi, ad esempio e con ampio respiro, all’incidenza secolare per la definizione amministrativa dell’attuale Repubblica. Si pensi, più circostanziatamente, alla Roccaforte di Gaeta, dove Re Francesco II di Borbone nel 1860, lasciando Napoli e attraversando il ponte sospeso di Minturnae, installò l’ultima base operativa per la difesa del Regno dalle truppe di Vittorio Emanuele II di Savoia. Del massacro che ne è derivato – infame affronto privo finanche di dichiarazione di guerra – sono state rinvenute testimonianze inequivocabili, perfino recentemente.
Dedicato al Re di Napoli Ferdinando II di Borbone, il Real Ponte è stato edificato nella prima metà dell’Ottocento e terminato nell’anno 1832. Collega la sponda laziale con quella campana del fiume Garigliano. Affascinante struttura a catenaria ferrea, s’erse a privilegiato esempio di architettura industriale nel corso del Regno delle Due Sicilie.
Nato su idea del geologo Carminantonio Lippi, compiuto su progetto dell’ingegnere Luigi Giura (a seguito di incarico diretto di Francesco I di Borbone), è stato il primo ponte sospeso mai realizzato in Italia. Al tempo, qualche esempio era presente in Austria, in Inghilterra e in Francia. Quando iniziarono i lavori di edificazione, nel 1828, la stampa inglese non mancò di esprimere perplessità sulla capacità dei napoletani di realizzazione di un’opera così complessa (in particolare, in riferimento alla gestione delle oscillazioni dovute all’impiego della lega ferrosa). Invece e proprio nel 1828 – quasi come una punizione – i ponti inglese, austriaco e francese ebbero problemi (il parigino, addirittura, crollò) e vennero chiusi. Il Real Ferdinando, al contrario, rivelò una perfezione tecnica e tecnologica al tempo ineguagliabile e ancora oggi sorprendente. L’ingegnere Giura, per aumentare la robustezza del ferro destinato all’opera, fece addirittura produrre appositamente una lega al nichel. Ideò peraltro un irrigidimento meccanico delle travi tramite trafilamento, consegnando al manufatto un’inaspettata resistenza alla corrosione. I materiali giungevano tutti, rigorosamente, dal Regno delle Due Sicilie.
Grande testimonianza in cui ingegneria e architettura si fondono magistralmente. Le forme del Real Ponte sono spettacolari: marmorei e artistici piloni (le quattro torri di sostegno), quattro blocchi parallelepipedi (gli ammarri, due in partenza e due in arrivo) a cui sono ancorate le grandi catenarie di bilanciamento e sovrastati ognuno da una sfinge in pietra grigia.
Spinta innovazione ingegneristica e architettonica del tempo. Ma Giura, prima di iniziare la progettazione del Ponte, aveva affrontato un viaggio per vedere da vicino le opere similari già edificate. E probabilmente fu proprio quel viaggio, in particolare nella Francia ancora fortemente intrisa dell’Impero di Napoleone, a orientarlo nelle forme.
D’altro canto, il neoclassicismo dello stile imperiale aveva già preso piede in molti Paesi e non poco si sentiva l’impulso formale che lo stesso Napoleone aveva consegnato dopo la campagna d’Egitto.
L’armonico mescolamento di configurazioni e materiali antichi e nuovi, l’integrazione tra questi, oltre la stupefacente scelta ingegneristica, fanno del Real Ferdinando un’opera di grande fascino e superba riuscita.
Le torri marmoree sono alte 7 metri e hanno un diametro di base di 2,5 metri. Al pari delle sfingi, anche i capitelli delle torri evocano le architetture egizie. Le doppie catene, passanti all’interno delle torri, misurano 129,50 metri ognuna, l’impalcato sospeso è largo 5,50 e lungo 80,40 metri.
Con orgoglio si può dire che il Real Ferdinando, pur non essendo stato il primo esempio in Europa di ponte sospeso, di certo è stato il primo ad aver funzionato senza cedimenti.
Praticamente inglobato nella Linea Gustav, purtroppo nel 1943 la campata unica è stata assoggettata a bombardamenti e minata in due differenti punti, dopo il transito dei tedeschi in fuga.
Ciononostante le torri e gli ammarri con sfingi ne uscirono quasi illesi. E ciononostante, la struttura ferrea diede manifestazione della sua potente qualità.
Dovettero passare molti anni e finalmente, nella seconda metà degli anni ’90, s’intervenne con un progetto di restauro archeologico industriale (su finanziamento comunitario). L’inaugurazione e l’apertura al pubblico avvenne nell’anno 2001.
È un’opera bellissima, unica, testimone privilegiato tanto dell’epoca borbonica quanto di quella bellica più recente.
Magistrale perfino l’integrazione della composizione architettonica nel contesto, l’espressività che la visuale dona dall’una all’altra sponda, attraverso l’alternarsi dei basolati di confine alle corpose assi lignee di passaggio interno.
Questo breve articolo vuole rappresentare un piccolo omaggio alla mia terra, bella e addormentata.
Il Reflecting Absence
Affezionata a questo articolo, lo ripropongo.
Non bastò un incendio (anno 1975), non l’esplosione di una potente bomba (anno 1993) a far crollare le Twin Towers. Ci volle l’efferato attentato terroristico dell’11 settembre 2001 per assistere all’amaro sgretolamento di due degli edifici più alti e affascinanti del mondo.
Orgoglio indiscusso del World Trade Center, con 110 piani e oltre 400 mt di altezza ognuna, a simboleggiare sì il luogo privilegiato della finanza mondiale, ma anche della potenza dell’architettura. Nel derivato Ground Zero si è respirato e si respira ancora aria di dolore.
Tuttavia in quel luogo oggi, più che mai, impera l’architettura che non dimentica, che evoca, che celebra, che si oppone con sdegno al terrore. E lo fa con un senso di pacatezza impalpabile, nobile contrasto al frastuono dei crolli.
In quel luogo oggi si distingue il ricordo, si percepisce il dolore nel momento stesso in cui si avverte l’affermazione della rivincita. È l’architettura che parla: superbo ponte che collega ciò che è stato con ciò che è e che sarà.
Daniel Libeskind è l’autore del progetto di ricostruzione dell’intero complesso, all’interno del quale s’erge la torre One World Trade Center (o Freedom Tower), alta 1776 piedi ad evocazione dell’anno della dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti.
Internamente – opera nell’opera – s’apre il Memorial Plaza, un giardino piantumato di querce bianche, progettato dagli architetti Peter Walker e Michael Arad. È qui dentro che sono contenute due enormi vasche in granito (il Reflecting Absence), scavate in profondità, a ricalcare esattamente i perimetri che contenevano le fondamenta delle Twin Towers.
Lungo i bordi sono incisi, scolpiti, tutti i nomi delle vittime dell’attentato, mentre sulle pareti interne scorrono cascate d’acqua silenziose. I liquidi si riversano sui fondi per poi scomparire all’interno di impluvium centrali di forma quadrata.
Il Reflecting Absence è un luogo in cui è esaltata la geometria pura, quale segno – a mio avviso – della compostezza che si deve a un memoriale. Avvolto in un silenzio magico, spinto verso la sacralità, lontano dal frastuono urbano, non infranto da alcun rumore dei visitatori che, rapiti dalla bellezza evocativa, osservano estasiati.
Aperto al pubblico esattamente 10 anni dopo l’attentato, nel settembre 2011, ha vantato una cerimonia d’inaugurazione senza precedenti. Il mondo ha tremato.
E pensare che una malconcia massa di newyorchesi ha protestato nel corso della costruzione, tra l’altro adducendo che le vasche avrebbero dovuto essere interamente fuori terra. Incomprensibile ambizione, per la verità. Ma la storia si ripete, sempre.
Come disse Ben Jonson agli albori del Seicento, l’arte ha un nemico chiamato ignoranza. E Johann Wolfgang Von Goethe nell’inoltrato Settecento, nulla è più terribile dell’ignoranza attiva. Bisogna non curarsene.
E difatti il Reflecting Absence è una delle opere più belle ed evocative del mondo. Meta di turismo d’ogni tipo, luogo di intima meditazione, di fascino, di sublimazione dell’essere e dell’essere stato. Omaggio esemplare e sentito ai morti e ai sopravvissuti – assenza e presenza – di quella tragedia.
Stando lì dentro, respirando quell’architettura, sembra di comprendere senza sforzo l’equazione del mondo.
Le foto sono state scattate da me nel 2014, ma nessuna immagine potrà mai trasmettere l’emozione, le sensazioni, le evocazioni che si provano visitando quel luogo.
PIAZZAFORTE DI GAETA
Dal punto di vista urbanistico/architettonico, l’antica Piazzaforte di Gaeta corrisponde al tronco urbano più interno che si prolunga suggestivamente sul mare. La Prima Porta è il varco di accesso principale. Più avanti si trova la Seconda Porta, altrimenti detta Porta di Carlo V o Porta della Cittadella, che per molto tempo ha costituito l’unico accesso alla città fortificata. È qui che esplodono le emergenze più importanti dello stratificato tessuto.
Credo che sia sbagliato parlare – come spesso mi capita di leggere – della Piazzaforte di Gaeta quale ambito territoriale semplicemente prossimo ad alcune emergenze che, nelle epoche belliche, hanno avuto ruoli difensivi primari (come il Castello e l’ex struttura carceraria): ruoli mai scissi da quelli esercitati dagli altri beni di attacco o di difesa. È mia convinzione invece che sia corretto considerare la Piazzaforte inclusiva di questi magnifici elementi storico-architettonici.
Perché la Piazzaforte non è soltanto fatta delle polveriere poste sul Monte Orando e dei resti di cadaveri e dei rinvenimenti minori che nel tempo sono emersi: L’intera Cittadella di Gaeta, col Castello e l’ex struttura carceraria e altro ancora, fanno parte di diritto dell’insieme della città fortificata. E perché – se sui Borboni voglio soffermarmi – ognuno di questi beni ha avuto ruoli determinanti fino alla tragica caduta del Regno di Napoli (o Regnum Siciliae citra Pharum).
Gaeta ha una storia densa e complessa che parte dall’VIII Secolo a.C. e il risultato che oggi si osserva (in termini di aspetto urbano) è decisamente eterogeneo. Dunque, inseriti in un contesto vario e ricco di testimonianze monumentali di differenti epoche, al di là dell’imponenza del Kastrum, i beni che narrano l’affascinante storia dei Borboni spesso appaiono nascosti, non facili da individuare.
Vado per ordine.
Già l’Impero d’Oriente aveva strutturato una prima fortificazione (600 d.C), ma il Medioevo aveva consegnato alla città una vera e propria fortezza: il Kastrum Gaetani, probabilmente risalente al 900. Questo diveniva poi un Castello compiuto nelle forme, per opera dell’Imperatore Federico II di Svevia che, nella prima metà del XIII Secolo, aveva intuito l’enorme valore strategico della città. Gaeta si trasformava così nella porta d’ingresso al Regno delle due Sicilie e Alfonso d’Aragona, nella metà del ‘400, dotava la città di un nuovo Castello. È stato poi Carl V, nel Secolo successivo, a collegare e inglobare i due Castelli in fortificazioni bastionate che divenivano quindi la vera prima Piazzaforte del Regno di Napoli e una delle più dotate d’Europa. Questo genere di impianto, non di certo consueto, peraltro trovava una maggiore consapevolezza artistico-formale proprio nel periodo borbonico, quando Federico II di Borbone faceva impiantare la Cappella Reale all’interno della cupola della Torre più alta del Castello (oggi detta Torre di Gaeta). Era il 1849.
Con i suoi 14.000 mq e oltre, imperante all’interno del Centro Storico e dell’antica città fortificata, il Castello è dunque oggi la fusione di due strutture difensive: angioina e aragonese, con perfezionamenti borbonici.
Ed era ancora la metà dell’800 quando veniva innalzato il ben noto Ex Carcere: inserito in un impianto viario ed edilizio d’impronta medievale, nato come Padiglione di Città, voluto da Ferdinando II di Borbone, è stato edificato negli anni appena precedenti all’assedio al fine di incrementare Gaeta della dotazione di strutture militari. Assolutamente in linea con lo scopo primario degli interventi borbonici avvenuti tra il 1850 e il 1853, tramite sventramenti interni al tessuto urbano pregresso, c’era quello di edificare un’imponente rampa per l’accesso dei cannoni nella città fortificata.
Esternamente il Padiglione di Città è oggi, come allora, un edificio di grandi dimensioni in muratura tufacea, a pianta rettangolare con fronte circolare. Conta due piani, possiede un ingresso a cui è anteposta una scalinata; a nord l’edificio si apre al termine di un forte pendio.
Non molto tempo dopo il nefasto evento dell’assedio di Gaeta, nella seconda metà dell’800, la struttura veniva trasformata in carcere. Tra il ’70 e l’80 dello scorso Secolo l’edificio è stato assoggettato a un imponente intervento di recupero prevalentemente strutturale, nel corso del quale alcuni elementi caratterizzanti la sua fattezza stilistica (come le pavimentazioni) sono stati mortificati e impropriamente sostituiti. Ne è stata nuovamente mutata la funzione in uffici comunali, per poi tradursi – attuale utilizzo – in alloggi per famiglie indigenti, nonostante sia soggetto alla legge di tutela 1089/39. Gli esterni sono a disposizione di chiunque voglia ammirarli. Per gli interni, niente da fare: bisogna spulciare le antiche mappe. Eppure, la conoscenza di questo monumento è fondamentale per la comprensione dell’intero nucleo difensivo di Gaeta.
Le emergenze borboniche raccontano, si sa, una storia forte e dolorosa che riguarda l’intero territorio italiano e la sua trasformazione fisico-amministrativa. L’assedio di Gaeta del 1861 (ultimo dei quattordici assedi della città, a partire dalla sconfitta del Ducato), promosso dai Piemontesi, oltre a mietere troppe vittime, trasformava un territorio abbattendo – a colpi di cannone a retrocarica (sperimentati per l’occasione) – monumenti e beni d’ogni natura. Era la fine del Regno dei Borboni e l’avvio del percorso di unificazione dell’Italia. Ciò che ha resistito tuttavia non è poco e l’attuale immagine dell’area che ha ospitato il sistema difensivo borbonico è ancora altamente suggestiva.
La storia qui si mescola con quella del Ponte Real Ferdinando. Da quest’ultimo – come ho raccontato (https://www.elodiarossi.it/ponte-real-ferdinando/) – salivano le già provate truppe del Regno, in fuga da Napoli, per giungere a Gaeta e impiantare la difesa nella città fortificata, fino alla vetta di Monte Orlando, luogo privilegiato di avvistamento.
Dunque, un ambito monumentale caratterizzato da espressioni di molti Secoli, tradotto in un processo di integrazione fisica lungo e sofferto che vede nel passaggio borbonico il momento che consacra – seppur dolorosamente – la sua compiutezza formale e risponde compatto a un’esigenza di difesa: è la Piazzaforte. Il passaggio borbonico è quindi un collante che trasforma, richiamando una specifica funzione, l’eterogeneità in insieme.
Le recenti trasformazioni nell’utilizzo dei numerosi beni monumentali della Piazzaforte hanno forse offuscato il ricordo, tradotto in percezione, del tragico ultimo assedio e la sensazione del passaggio borbonico non è immediata.
Spero di aver consegnato – seppur sinteticamente – un credito al tema funzionale, tramite questa mia breve lettura delle testimonianze fisiche che hanno attivamente partecipato all’ultima eroica azione di difesa dei Borboni.
Non Vivere sull’Albero, ma Vivere nell’Albero
La Quercia delle Streghe, a Lucca, possiede un tronco di diametro pari a mt 4,00, un’altezza complessiva di mt 25,00 e un’apertura che raggiunge mt 40,00.
L’Ulivo di Picasso, millenario e sito nelle campagne ostunensi, sebbene più rado nel fogliame, possiede enormi dimensioni del tronco.
Sono esempi estremi, che però lasciano capire la portata di queste essenze straordinarie e bellissime. E allora perché non viverci dentro, sospesi e leggiadri?
La tavola che riporto in calce rappresenta la mia idea di casa sull’albero.
Per visionarla bene bisogna ingrandirla, visto che contiene anche descrizioni testuali riguardanti il fondamento progettuale, l’ambientazione, il funzionamento, i materiali e il rapporto tra tutte le componenti e il rispetto ambientale.
A me piace molto. Altrimenti perché l’avrei immaginata così?
VI – Le dimensioni dell’architettura
La LUCE: riferimento percettivo misurabile (il lux per la misura dell’illuminazione di un oggetto, il lumen per la misura di illuminazione complessiva, la candela per la misura dell’intensità luminosa), capace di restituire immagini differenti dell’oggetto architettonico nel corso delle diverse ore, delle differenti stagioni, dei molteplici luoghi. È la Quinta Dimensione.
Finalmente, la luce. La luce è parte attiva dell’architettura perché solo attraverso essa l’oggetto formale può essere visto, capito, fruito. Che senso avrebbe l’architettura senza luce?
La posizione dell’edificio, la sua dimensione e la disposizione delle aperture per l’attrazione della luce solare, l’organizzazione delle fonti luminose artificiali, sono elementi che meritano la più elevata attenzione nella fase progettuale. È innanzitutto da essi che deriva la riuscita di un’opera.
Difatti esiste uno sdoppiamento di questa dimensione. La luce solare e quella artificiale. Ambedue concorrono a definire lo spazio di vita.
È con la luce che l’architetto vero cerca di esprimere sé stesso, di consegnare alla sua opera un valore che va oltre la forma, o meglio che la ingloba nell’articolarsi dei vuoti e dei pieni, in un gioco di intuizioni percettive che, se ben composto, restituisce la più elevata dignità. Come non fare riferimento a un’opera notissima, le cui prerogative s’individuano proprio nei giochi di luce, quale derivazione di uno studio accorto e magistrale? Parlo della Cappella Notre-Dame du Haut a Ronchamp, di Le Corbusier. Forse è l’esempio più idoneo a rappresentare quanto sia importante fare i conti con la luce, fin dai primi passi della composizione architettonica.
Struttura piuttosto compatta, seppur affidata a superfici rientranti e ricurve oltre che inclinate, con elementi architettonici suggestivi anche in copertura, la Cappella Notre-Dame affida le facciate a composizioni articolate di finestrature piccole, superando ogni idea di simmetria. Il brutalismo incalza e le aperture posseggono forme differenti anche tra interno ed esterno, sviluppando le diverse dimensioni nell’attraversamento delle murature. Il compito di orientare l’ingresso della luce solare nelle differenti ore è eseguito con grande maestria e la suggestione che l’edificio offre al suo interno è spettacolare. Il fascino percettivo viene esaltato dall’impiego di colori introdotti talvolta nei vetri attraverso cui transita la luce. Ma non è stato forse proprio Le Corbusier ad affermare che l’architettura è il gioco sapiente, corretto e magnifico dei volumi raggruppati sotto la luce?

Esterno e interno. Bellissima.
La luce, come il suono, è misurabile, l’ho detto (rif. https://www.elodiarossi.it/iv-le-dimensioni-dellarchitettura/). Anch’essa ha la capacità di modificare la percezione di un manufatto architettonico perfino istantaneamente, superando la prerogativa della IV Dimensione, il Tempo.
La luce segue le regole della propagazione, della riflessione, della diffusione, della diffrazione e dell’interferenza, secondo principi dipendenti dalla sua natura di onda elettromagnetica.
Interessante è il tema della luce solare che colpisce gli edifici e viene talvolta percepita come una fonte puntatore (mi concedo questo termine, a mio parere efficace). Ecco un’immagine esterna del Roma Convention Center, ovvero la Nuvola di Fuksas, in una particolare ora del giorno. Era tardo pomeriggio, quando la scattai. Il raggio puntatore (il tema meriterebbe approfondimenti complessi) colpisce la Lama (ossia l’edificio alberghiero, parte integrante del complesso architettonico) e ne offusca quasi il paesaggio circostante.

Ma è solo un esempio. La percezione esterna di un edificio muta considerevolmente nelle differenti ore del giorno, proprio in dipendenza dell’intensità (dovuta a condizioni meteo) e dell’orientamento dei raggi solari.
Insomma, la luce è indiscutibilmente la Quinta Dimensione dell’architettura. E non si pone al quinto posto ma, come le alte, ha un ruolo fondamentale e paritario nella percezione, collettiva e individuale, dello spazio edificato.
Sto scrivendo un libro su questo argomento.