Elodia Rossi

Il Reflecting Absence

Affezionata a questo articolo, lo ripropongo.

Non bastò un incendio (anno 1975), non l’esplosione di una potente bomba (anno 1993) a far crollare le Twin Towers. Ci volle l’efferato attentato terroristico dell’11 settembre 2001 per assistere all’amaro sgretolamento di due degli edifici più alti e affascinanti del mondo.

Orgoglio indiscusso del World Trade Center, con 110 piani e oltre 400 mt di altezza ognuna, a simboleggiare sì il luogo privilegiato della finanza mondiale, ma anche della potenza dell’architettura. Nel derivato Ground Zero si è respirato e si respira ancora aria di dolore.

Tuttavia in quel luogo oggi, più che mai, impera l’architettura che non dimentica, che evoca, che celebra, che si oppone con sdegno al terrore. E lo fa con un senso di pacatezza impalpabile, nobile contrasto al frastuono dei crolli.

In quel luogo oggi si distingue il ricordo, si percepisce il dolore nel momento stesso in cui si avverte l’affermazione della rivincita. È l’architettura che parla: superbo ponte che collega ciò che è stato con ciò che è e che sarà.

Daniel Libeskind è l’autore del progetto di ricostruzione dell’intero complesso, all’interno del quale s’erge la torre One World Trade Center (o Freedom Tower), alta 1776 piedi ad evocazione dell’anno della dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti.

Internamente – opera nell’opera – s’apre il Memorial Plaza, un giardino piantumato di querce bianche, progettato dagli architetti Peter Walker e Michael Arad. È qui dentro che sono contenute due enormi vasche in granito (il Reflecting Absence), scavate in profondità, a ricalcare esattamente i perimetri che contenevano le fondamenta delle Twin Towers.

Lungo i bordi sono incisi, scolpiti, tutti i nomi delle vittime dell’attentato, mentre sulle pareti interne scorrono cascate d’acqua silenziose. I liquidi si riversano sui fondi per poi scomparire all’interno di impluvium centrali di forma quadrata.

Il Reflecting Absence è un luogo in cui è esaltata la geometria pura, quale segno – a mio avviso – della compostezza che si deve a un memoriale. Avvolto in un silenzio magico, spinto verso la sacralità, lontano dal frastuono urbano, non infranto da alcun rumore dei visitatori che, rapiti dalla bellezza evocativa, osservano estasiati.

Aperto al pubblico esattamente 10 anni dopo l’attentato, nel settembre 2011, ha vantato una cerimonia d’inaugurazione senza precedenti. Il mondo ha tremato.

E pensare che una malconcia massa di newyorchesi ha protestato nel corso della costruzione, tra l’altro adducendo che le vasche avrebbero dovuto essere interamente fuori terra. Incomprensibile ambizione, per la verità. Ma la storia si ripete, sempre.

Come disse Ben Jonson agli albori del Seicento, l’arte ha un nemico chiamato ignoranza. E Johann Wolfgang Von Goethe nell’inoltrato Settecento, nulla è più terribile dell’ignoranza attiva. Bisogna non curarsene.

E difatti il Reflecting Absence è una delle opere più belle ed evocative del mondo. Meta di turismo d’ogni tipo, luogo di intima meditazione, di fascino, di sublimazione dell’essere e dell’essere stato. Omaggio esemplare e sentito ai morti e ai sopravvissuti – assenza e presenza – di quella tragedia.

Stando lì dentro, respirando quell’architettura, sembra di comprendere senza sforzo l’equazione del mondo.

Le foto sono state scattate da me nel 2014, ma nessuna immagine potrà mai trasmettere l’emozione, le sensazioni, le evocazioni che si provano visitando quel luogo.

N. 10 – SPAZI E LUOGHI DELL’ARCHITETTURA

New York, primo luogo al mondo alla scala dei tempi nuovi, dalle parole di Le Corbusier. È così.

Dopo la dolorosa illustrazione di qualche esempio di città mondiale che contiene spazi di vita disastrosa, come le favelas (Rif. Art. N. 4 – Spazi e Luoghi dell’Architettura), voglio parlare di quella che, a mio parere, è la città più interessante tra tutte: New York.

Se le favelas costituiscono un macroscopico esempio di vita urbana ben lontana dall’integrazione, New York fonda la sua vittoria anche sulla capacità di gestione del fenomeno immigratorio. Cerchiamo di capire.

Oggi New York è una città in equilibrio che ha conquistato questo genere di ambiziosa qualità con l’avvicendarsi di epoche ed esperienze non semplici, perfino drammatiche. Ciò che ha costituito l’elemento vincente, il fulcro della conquista di stabilità, è stata la capacità di avvalersi di una pianificazione intelligente (perfino inusuale nelle scelte), razionalmente fondata sul bene collettivo e non sull’interesse privato.

È il 1524 quando Giovanni da Verrazzano giunge sulla terra che oggi ospita New York, trovando un luogo popolato da tribù indiane. Un Secolo dopo, la Compagnia olandese delle Indie torna in esplorazione (con Hudson) e vi trasferisce alcune famiglie, insediandole nell’area battezzata New Amsterdam (l’attuale Manhattan). Gli Inglesi, poco dopo, conquistano questa terra, dedicandola nominativamente al duca di York. Poi la Guerra d’Indipendenza, poi la liberazione dagli inglesi, secondo percorsi scanditi da grandi inquietudini e conflitti intestini, mentre la città inizia la sua grande espansione e, nel ‘700, l’isola di Manhattan già conta oltre trentamila abitanti. In poco meno di un Secolo, diventano un milione. Siamo all’Ottocento, periodo di grandi cambiamenti e forti contrasti: l’immigrazione inizia la sua esponenziale scalata dal Vecchio Continente, quando la città non ha le giuste risorse per affrontarne la portata. E così, nonostante siano state realizzate importanti opere pubbliche (tra cui le ferrovie up e under ground, che danno immediatamente l’impulso alla costruzione di altri quartieri fuori Mahnattan, come Bronx e Uptown), epidemie di colera, scontri interni, insoddisfazioni, sfruttamento, violenza, corruzione, caratterizzano un luogo che sembra destinato alla sofferenza. New York trema e decide di avviare un Piano Urbanistico per Manhattan, affidandolo a Gouverneur Morris, S. De Witte e J. Rutherford. Il Piano viene approvato nel 1811 e costituisce il primo provvedimento unitario di efficace razionalizzazione urbana per una città esistente.

Questo strumento regolatore, nato con l’obiettivo di contenere l’espansione dell’isola fino alla fine dell’800, rendendola capace di ospitare due milioni e mezzo di persone, fonda su una concezione di articolazione urbanistica decisamente inusuale e rivoluzionaria (in termini anche fisici), disponendo quella maglia di strade che caratterizza oggi la città. 12 lunghe Avenues (di circa 20 km), che si estendono da nord a sud, e 155 Street (di circa 5 km) ortogonali alle prime. Un tracciato perfettamente regolare, a scacchiera, interrotto esclusivamente dalla più antica e diagonale Broadway, impossibile da smantellare perché già attrattore privilegiato di interessi urbani. Una sola enorme area non lottizzata corrisponde al luogo che oggi ospita il Central Park, inizialmente destinato a piazza d’armi.

New York inizia la sua vera e grande ascesa e quei lotti (posti tra le maglie ortogonali composte dalle strade) che erano stati pensati per ospitare l’abitato cominciano a sviluppare la città verticale, superando ogni aspettativa perfino della magistrale opera di pianificazione. D’altronde, oltre ogni buon piano c’è il governo del territorio, la capacità o meno della sua attuazione. Così alcune leggi, emanate immediatamente dopo il 1811, gestiscono le logiche costruttive interne ai lotti, evitandone la costruzione smodata e prevedendo la distribuzione di aree a verde. Nascono servizi pubblici e privati di ogni tipo, oltre quartieri residenziali d’eccellenza lungo la Fifth Avenue, nonostante il clima ancora complicato del periodo pre-bellico. Giunge il Novecento, la Grande Guerra e il crollo di Wall Street, con le conseguenze che tutti conosciamo. New York non si arrende e riconquista presto il suo dominio finanziario e perfino artistico. Nasce il World Trade Centre. Tuttavia folle di immigrati affluiscono in città. La gestione avviene quasi naturalmente, destinando porzioni di quartieri alle differenti etnie e limitando, in questo modo, gli scontri. Nasce Little Italy, poi Chinatown, eccetera. La solidità derivante dal riconoscimento, anche spaziale ed evocativo, delle differenti comunità, aiuta molto nella mescolanza della vita quotidiana oltre i luoghi del rifugio o delle radici.

Oggi – tra luci e colori, austerità e sobrietà –  la grande New York è il risultato di questo magistrale percorso che avrebbe potuto essere emulativo per tante realtà urbane, se non altro per quanto attiene i temi dell’immigrazione.

Little Italy è una piccola Nazione funzionale all’interno di una grande città. Ma non esclude. Le favelas, gli slum, sono luoghi di non integrazione, di separazione, di disordine e miseria.

La storia – che definisce la caratterizzazione di ogni popolo – dovrebbe condurre a scelte razionali. Ma la storia di alcune grandi città non ha aiutato o, meglio, non è stata interpretata dai governi nel giusto modo. La mescolanza di popoli con diversità enormi non può essere gestita senza garantire il dovuto richiamo a usi e costumi aborigeni.

E infatti, mentre Roma – che ha ben più storia di New York – si ostina a perseguire un tipo di integrazione fondata sulla mescolanza indiscriminata (la componente percentuale maggiore di immigrati occupa il I Municipio, ossia il Centro più antico della Capitale) uscendone sistematicamente perdente, New York ha vinto con la sua straordinaria politica dell’accoglienza nel rispetto delle radici di ogni popolo.

Vista dalla sede delle N.U.

Il 31 Ottobre 2014 ho partecipato, nell’aula dell’Assemblea delle Nazioni Unite a New York, al 1st World Cities Day, evento fondato sull’intensa attività di studio del gruppo di ricerca italiano (di cui faccio parte) afferente alla Fondazione Aldo Della Rocca e guidato del prof. Corrado Beguinot. L’evento è stato promosso dalle missioni permanenti italiana e cinese presso l’ONU, sostenuto da United Nation Alliance of Civilation, da United Nations Human Settlements Programme (UN-Habitat) e dall’Istituto Americano degli Architetti (AIA). In questa sede Mr. Brown, Presidente dell’AIA, sosteneva che New York fosse l’esempio migliore di coerenza e integrazione.

Per Lance Jay Brown, dunque, New York è una città all’avanguardia, attualmente la migliore città al mondo. Per le modalità con cui è stata pianificata facilita la sostenibilità, è predisposta a migliorarsi costantemente riguardo i suoi grandi sistemi interni. Aveva ragione.

 

(Tutte le foto di questo articolo sono state scattate da me tra ottobre e novembre 2014)

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