Elodia Rossi

IL PROTOCOLLO DI KYOTO

Tanto per tornare sul tema di quella che io sospetto essere una distorsione collettiva e planetaria sul surriscaldamento globale, sintetizzo i contenuti del Protocollo di Kyoto.

Il Protocollo di Kyoto, ratificato dall’Italia nel 2002 con la Legge 120, è direttamente collegato alla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite ed è entrato in vigore il 16 febbraio del 2005 (novanta giorni dopo l’adesione della preordinata quota parte di Paesi).

I contenuti si riferiscono al controllo delle emissioni di sei gas a effetto serra, come dispone la Convenzione Quadro all’articolo 2 e con le modalità indicate nell’articolo 3. I gas serra segnalati per il controllo sono: il biossido di carbonio (CO2), il metano (CH4), il protossido di azoto (N2O), gli idrofluorocarburi (HFC), i perfluorocarburi (PFC), l’esafluoro di zolfo (SF6).

In sintesi estrema, il rispetto del Protocollo prevede che gli Stati firmatari si siano impegnati a ridurre le emissioni di gas a effetto serra di almeno il 5% rispetto ai livelli del 1990 nel periodo 2008-2012. Ulteriore impegno degli Stati membri dell’Unione è stato quello di ridurre collettivamente le loro emissioni dell’8% tra il 2008 e il 2012.

Per il periodo anteriore al 2008, poi, le parti si sono impegnate a compiere progressi e a fornirne le prove entro il 2005.

In successivi articoli vedremo se ciò è accaduto. E lo vedremo con metodo, utilizzando indicatori di risultato.

Proseguo con una sintetica carrellata dei contenuti rilevanti di ogni articolo.

L’articolo 1 del Protocollo di Kyoto riguarda le definizioni. Segnalo la n. 3 che definisce il Gruppo Intergovernativo di Esperti sul Cambiamento Climatico, facendolo coincidere con il Gruppo Intergovernativo di Esperti sul Cambiamento Climatico costituito congiuntamente dalla Organizzazione Meteorologica Mondiale ed il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, nel 1988.

Segnalo inoltre che la definizione numero 4 richiama il Protocollo di Montreal del 1987. A questo punto bisogna ricordare che Il 15 ottobre 2016 in Ruanda, in occasione della ventottesima Riunione delle Parti, i 197 Paesi firmatari del Protocollo di Montreal hanno approvato un emendamento mirato all’eliminazione progressiva della produzione e dell’utilizzo degli idrofluorocarburi (HFC). L’uso degli HFC era stato introdotto, a seguito dell’adozione del protocollo di Montréal nel 1987, in sostituzione dei clorofluorocarburi, principali responsabili della distruzione dello strato di ozono. Successivamente però si è giunti alla determinazione secondo cui gli HFC, pur non essendo sostanze ozono-lesive, sono potenti gas serra che incidono negativamente sull’ambiente, raggiungendo un danno migliaia di volte maggiore rispetto all’anidride carbonica. Non è questo inquietante? Perché si firma un Protocollo internazionale che fonda su basi evidentemente incerte?

L’articolo 2 elenca le misure e le politiche che ogni Paese (o gruppo di Paesi) dovrebbe applicare per mitigare l’effetto serra. Si ritrovano qui temi come le energie rinnovabili, l’agricoltura cosiddetta sostenibile, la gestione forestale, il rimboschimento, oltre ad aspetti riguardanti temi economici e gestione di servizi (rifiuti, trasporti, eccetera). Ciò, guarda caso, al fine di combattere i cambiamenti climatici. Naturalmente, nessun riferimento esplicito (direi neppure implicito) agli allevamenti intensivi.

L’articolo 3, con riferimento agli allegati A (contenente l’elenco dei gas e effetto serra) e B (contenente i limiti quantitativi non superabili derivati dagli impegni assunti da ogni Paese) del Protocollo, dispone, come precedentemente accennato, che gli Stati firmatari riducano le emissioni di almeno il 5% rispetto ai livelli del 1990 nel periodo 2008-2012 e gli Stati membri dell’Unione le riducano collettivamente dell’8% tra il 2008 e il 2012. Dispone inoltre il momento di verifica delle azioni al 2005. Seguono poi disposizioni di carattere economico-amministrativo-gestionale sulle quali sorvolo.

L’articolo 4 tratta il tema dell’adempienza dei Paesi, in dipendenza dei risultati da conseguire e regola alcuni degli accordi tra le parti.

L’articolo 5 dispone, tra l’altro, che ogni Parte … realizzerà, non più tardi di un anno prima dell’inizio del primo periodo di adempimento, un sistema nazionale per la stima delle emissioni antropiche dalle fonti e dall’assorbimento dei pozzi di tutti i gas a effetto serra non inclusi nel Protocollo di Montreal. La Conferenza delle Parti agente come riunione delle Parti del presente Protocollo deciderà, nella sua prima sessione, le linee guida di tali sistemi nazionali…

Indica inoltre le modalità con cui devono realizzarsi i sistemi di stima, fatta salva l’accettazione da parte del Gruppo Intergovernativo di Esperti sul Cambiamento Climatico.

L’articolo 6 e il 7 trattano delle modalità con cui adempiere agli impegni dettati dall’articolo 3, soprattutto in merito all’acquisizione e la cessione di unità di riduzione tra Paesi, oltre che del ruolo della Conferenza delle Parti.

L’articolo 8 tratta il sistema del controllo dell’operato dei Paesi, da effettuarsi tramite un gruppo di esperti coordinati dal Segretariato, soprattutto secondo un approccio gestionale-amministrativo: verifica della compilazione annuale degl’inventari, revisione delle comunicazioni nazionali, eccetera. Approfondisce inoltre il ruolo della Conferenza delle Parti, introducendo altri soggetti (Organo Sussidiario di Attuazione, Organo Sussidiario del Consiglio Scientifico e Tecnologico).

L’articolo 9 mette il punto sull’esame periodico del Protocollo alla luce delle migliori informazioni scientifiche disponibili e degli studi di valutazione sul cambiamento climatico ed il loro impatto come pure delle pertinenti informazioni tecniche, sociali ed economiche.

L’articolo 10 indica la necessità di formulare e aggiornare regolarmente i programmi nazionali che i Paesi sono chiamati a redigere. Sottolinea che tali programmi dovrebbero riguardare, tra l’altro, i settori energetico, dei trasporti e dell’industria come pure l’agricoltura, la silvicoltura e la gestione dei rifiuti. Introduce poi i temi delle tecnologie di adattamento e dei metodi di pianificazione territoriale, quali elementi in grado di produrre un più snello adattamento ai cambiamenti climatici. Sostiene l’idea della cooperazione tra Paesi per la diffusione di tecniche e tecnologie innovative, per l’avanzamento condiviso della ricerca scientifica (mirata, in modo particolare, alla promozione di sistemi di osservazione e alla costituzione di archivi di dati, oltre che per l’esecuzione di programmi educativi e formativi sia sul piano istituzionale che su quello generale).

L’articolo 11 dispone le modalità di attuazione riguardanti l’articolo 10 e il 4, facendo peraltro riferimento a l’entità o le entità incaricate di assicurare il meccanismo finanziario della Convenzione, i paesi sviluppati Parti della Convenzione e le altre Parti sviluppate incluse nell’Allegato II della Convenzione. Dipana poi alcune disposizioni in merito alle modalità d’azione di questa o queste entità e in merito a scambi di risorse economiche tra Paesi. Francamente fumoso appare il tema della o delle entità. Certamente introduce, di contro, un elemento che avrebbe portato, di lì a venire, alla costituzione di ulteriori comitati o similari.

L’articolo 12 istituisce quello che viene chiamato meccanismo per uno sviluppo pulito. Ovviamente si tratta di altro comitato (o similare). Al di là della terminologia piuttosto vaga, al meccanismo vengono dati compiti specifici, tra cui l’essere soggetto all’autorità e alle direttive della Conferenza delle Parti agente come riunione delle Parti del Protocollo e alla supervisione di un comitato esecutivo. Vengono poi introdotti altri enti operativi, sempre designati dalla Conferenza delle parti. Abbastanza contorto nell’articolazione dei compiti, ma chiaro nel definire ruoli di spessore.

Gli articoli 13, 16, 17 e 18 stabiliscono il ruolo della Conferenza delle Parti, quale organo supremo della Convenzione, le sue modalità d’azione, oltre il rapporto tra essa e gli osservatori, quali soggetti deputati dagli Stati ad essere rappresentati.

L’articolo 14 stabilisce il ruolo del Segretariato, in riferimento all’articolo 8, mentre l’articolo 19 ratifica il 14.

L’articolo 15, quello dell’Organo Sussidiario del Consiglio Scientifico e Tecnologico e dell’organo Sussidiario di Attuazione, in riferimento agli articoli 9 e 10.

L’articolo 20 si concentra sui ruoli e sui compiti delle Parti, introducendo il ruolo di una differente figura (o comitato): il Depositario.

L’articolo 21 consiste in disposizioni varie e di rito, sia riguardo gli Allegati al Protocollo, sia riguardo eventuali Emendamenti.

Gli articolo 22-28, conclusivi, concernono disposizioni varie: entrate in vigore, depostiti, tempistiche, eccetera.

E questo è quanto.

Già, parrebbe una considerazione finale piuttosto strana, ma non è tale se si relaziona questo articolo ai precedenti (e a quelli che verranno) contenuti nella stessa sezione (geografia/ambiente) di questo blog. Il mio obiettivo è ricercare elementi di aleatorietà dei grandi trattati sull’ambiente e, in particolare, sui cambiamenti climatici. Ritengo di averne trovati già molti, fin dall’inconsistenza (di cui ho più volte parlato) del fondamento scientifico che, come insegnano menti eccelse, scientifico non è.

(La foto riportata in alto è del 2014, da me scattata da una finestra della sede delle Nazioni Unite a New York)

L’altra faccia dell’Accordo di Parigi

Qualche giorno fa, per strada, un uomo mi ha proposto l’acquisto di una copia di un giornale d’impronta religioso-profetica. Mi ha detto: Trump non ha firmato l’Accordo di Parigi, dunque il mondo sta per finire. Gli ho risposto: Ha letto l’Accordo? Mi ha detto di sì, ma quando gli ho chiesto quali erano, a suo vedere, i punti fondamentali in grado di salvare il mondo, non ha saputo dirmi nulla.

Ecco.

Ho letto e riletto molte volte l’Accordo di Parigi (o Accordo sul clima). Con molta franchezza, al di là delle posizioni di Trump – la cui politica non rientra nelle mie capacità di valutazione, se fossi stata un decisore, non so se l’avrei siglato.

foto di Gerd Altmann (pixbay)

Senza girarci troppo intorno, lo trovo carente, incompleto, più mirato a generare (come al solito) spazi e posizioni d’onore nel contesto internazionale che a definire linee chiare di impegno concreto degli Stati rispetto al più grande e preoccupante tema della contemporaneità: la sopravvivenza del Pianeta.

Nato il 12 dicembre del 2015 a Parigi, segue il Protocollo di Kyoto del 1997 al quale, nonostante tutte le possibili critiche, bisogna riconoscere una dose di maggiore concretezza nel definire obiettivi, metodi e metodologie d’azione.

Si compone di una premessa (o preambolo) e 29 articoli, la gran parte dei quali mirati a stabilire un ordine di rapporto tra i Paesi aderenti, con priorità sostanzialmente di tipo istituzionale, di controllo, di programmazione degli incontri, eccetera (è il caso degli Articoli 1, 14 – 29 e, per alcuni versi, il 3 e il 13).

L’Accordo distingue tra Paesi più avanzati, generatori di maggiori problemi, e Paesi meno avanzati o in via di sviluppo, maggiormente minacciati. Tutto ciò evitando di dire che i Paesi in via di sviluppo non sono solo minacciati, ma sono spesso generatori di altrettanti problemi ambientali: al di là delle responsabilità indigene, basti considerare le recenti deforestazioni in Africa.

Nel preambolo riprende il concetto di equità tra generazioni in tema di sostenibilità. Concetto che ritengo menzognero e strumentale, come ho già disquisito nell’articolo L’inganno della Sostenibilità (https://www.elodiarossi.it/linganno-della-sostenibilita/).

L’Art. 2 sembra avere un accento tanto imperativo quanto superficiale nel sostenere la necessità di mantenimento della temperatura media globale al di sotto dei 2 gradi centigradi. Intanto bisognerebbe capire cosa s’intende per temperatura media, visto che possibili sostanziali variazioni tra luoghi avrebbero gravissime ripercussioni sul pianeta e, quindi, su quella che lo stesso Accordo definisce resilienza climatica.

L’Art. 4 cade nell’onirico: bisogna ridurre le emissioni nel più breve tempo possibile, così da raggiungere un equilibrio entro il 2050. Bene, e come? Ogni Stato deve sviluppare le proprie strategie, linee comuni argomentate non ve ne sono (incredibile) se non per pochi sommari cenni in successivi articoli. Ciò che si ritiene invece importante è la comunicazione istituzionale dei dati (quali?), la raccolta di essi da parte della cosiddetta COP (Conferenza delle Parti) alla quale è demandato anche il compito di fare il punto della situazione a partire dal 2023 e con cadenza quinquennale (art. 14 e seguenti). Mi preme fare riferimento, a questo punto, al mio articolo Città, effetto serra e allevamenti intensivi (https://www.elodiarossi.it/effetto-serra-allevamenti-intensivi-e-bisogni-effimeri-urbani/), tanto per non tornare sull’increscioso e preoccupante tema dei tempi ormai a disposizione.

L’Art. 5 incita gli Stati al potenziamento dei pozzi di carbonio e delle riserve di gas serra. Qui, finalmente, si tratta l’importanza della salvaguardia delle foreste, anche se incredibilmente si dispongono incentivi economici di risultato (come se si dovesse raggiungere un traguardo attraverso un premio monetario e non per necessità di sopravvivenza globale). Non un solo cenno alle cause della deforestazione: non un cenno al dramma degli allevamenti intensivi, non uno alla spasmodica conurbazione. Eppure sono queste le vere cause.

Ma è l’Art. 7 che stabilisce l’obiettivo globale dell’Accordo: incrementare la capacità adattativa e rafforzare le resilienza per ridurre la vulnerabilità al cambiamento climatico, richiamando ancora una volta il concetto di Sviluppo Sostenibile (ancora inganno) e quello della cooperazione tra Paesi. Confesso che questo obiettivo mi fa venire i brividi. Difatti parrebbe ribaltare il problema: non più sradicare le cause del disagio planetario, piuttosto rafforzare la capacità di adattamento. Mi rifiuto di commentare.

L’Art. 8 esorta i Paesi sviluppati a fornire risorse finanziarie a quelli meno sviluppati, ai fini dell’applicazione dell’accordo. La gestione, in brevi linee, delle risorse finanziarie è materia dell’’Art. 9.

Eccoci all’Art. 10, uno dei più sorprendenti. Qui viene incoraggiata fortemente la gestione dello sviluppo tecnologico, come fosse la soluzione per la riduzione dei gas inquinanti (senza alcun riferimento al come). Mi concedo il richiamo a un altro mio articolo Architettura e ambiente: energie rinnovabili (https://www.elodiarossi.it/architettura-e-ambiente-energie-rinnovabili/), tanto per approfondire il tema di alcuni disastri ambientali dovuti alle tecnologie. Perché non affrontare questo argomento chiarendo (concretamente e non astrattamente) quale contributo potrebbe giungere da una corretta applicazione dei traguardi della tecnologia, se scissi dai troppi interessi economici anche a livello statale?

Finalmente – e ripeto, finalmente – l’Art. 11 e il 12 annunciano la necessità dell’educazione, della formazione e della consapevolezza pubblica. L’annuncio è breve, però, visto che gli articoli si dilungano sulla costruzione di competenze organizzate (dunque specialisti). Eppure qui è il vero nodo della questione: sollevare le coscienza di tutti, attraverso la conoscenza, perché tutti possano contribuire – lontani dal consumismo sfrenato, lontani dalle menzogne di un mercato distruttivo, lontani dall’idea di prevaricazione sulle altre specie, lontani dal concetto di un mondo fondato sull’egemonia dell’economia monetaria – alla salvezza del Pianeta.

Nell’Art. 12 si fa cenno anche al tema dell’accesso pubblico alle informazioni. Non si indica però alcun metodo affinché questo miraggio si trasformi in realtà. Né a che genere di informazioni ci si riferisca. Anche questo argomento mi indigna. Per reperire informazioni sulle condizioni ambientali della Terra, personalmente ho dovuto fare lunghe e attente ricerche, ho dovuto impiegare molto tempo (e continuerò a farlo). Eppure si tratta di dati che provengono proprio da fonti istituzionali (in primo luogo le Nazioni Unite), da me utilizzati in molti articoli di questo blog. Perché le Istituzioni che sviluppano questi generi di dati senza attivare campagne di comunicazione e informazione diffusa, poi sottoscrivono un tale accordo? E perché, dopo la sottoscrizione, non si impegnano nella diffusione?

Mi chiedo quali siano le effettive volontà dei redattori. Mi chiedo come mai non vengano citati dati e argomenti che farebbero la differenza. Mi chiedo come mai non si parla dei veri grandi problemi (un esempio prioritario è quello degli allevamenti intensivi, un altro è la spasmodica crescita urbana: ma l’ho già detto) e non si diano indicazioni concrete, realistiche, convincenti, per fronteggiarli. Mi chiedo come mai non si ponga l’accento soprattutto e diffusamente (determinando le giuste strategie) sul primo strumento di salvezza che è la conoscenza, l’informazione di massa, il coinvolgimento massiccio delle popolazioni a qualsiasi livello d’istruzione: perché qui è il vero nodo. Mi chiedo infine quali interessi ci siano da salvaguardare.

Insomma, perché io cittadina dovrei sentirmi rincuorata da questo genere di Accordo?

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