Elodia Rossi

Corrado Beguinot, il mio maestro

Qualche giorno fa, il 6 gennaio 2018, il professore Corrado Beguinot si è spento.

Lascia un’eredità enorme di saperi e pensieri dedicati al suo principale obiettivo di vita lavorativa: dare un contributo deciso, forte, consapevole, al governo dello sviluppo urbano.

Il professore Beguinot non è stato soltanto un grande architetto e urbanista. E’ stato un innovatore, un anticipatore, con una tale capacità d’intuizione che è patrimonio solo delle menti eccelse.

Lucido pensatore, affrontava i temi della città cablata quando ancora nessuno ne aveva percepito il senso. Né mai i decisori, a cui erano destinati tanti e tali studi tradotti in pubblicazioni, hanno avuto la capacità di comprenderne il significato vero, quel significato che avrebbe di certo contribuito a frenare l’impeto delle spasmodiche e irrazionali conurbazioni.

Ma il professore Beguinot non si è mai arreso. Consapevole della violenza disastrosa del processo di crescita urbana e dell’incapacità di governo ai differenti livelli, ancora prima che s’intuisse la problematica dei disordini interrazziali, lui già affrontava i temi della civile convivenza, affinché la pluralità etnica fosse vista come una risorsa e non come un problema. Non società multietniche, diceva, ma società inter-etniche.

Con questo spirito e obiettivo è arrivato nelle massime sedi del potere istituzionale, alle Nazioni Unite, mettendo in moto una macchina produttiva di grande spessore culturale e coinvolgendo menti interdisciplinari, allo scopo di affrontare il problema da ogni punto di vista.

Con lui sono stata alle Assemblee Generali dell’ONU (e ai vari eventi promossi in collaborazione con le Agenzie delle Nazioni Unite) perché la voce della Delegazione Italiana – da lui, Presidente della Fondazione di Studi Urbanistici Aldo Della Rocca, capeggiata – fosse ascoltata; con lui ho scritto volumi sul tema, con lui ho lavorato a lungo, fino alla fine.

Questa è una foto recente, che feci a casa sua nel corso di una sosta lavorativa. La trovo piacevole, lui ride. E’ un bel ricordo.

Ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare intensamente il professore, il mio professore, per oltre trent’anni. Ho lavorato con lui fin da quando, alla fine degli anni Ottanta, era Presidente del Consorzio MIXER (I.R.I.). Potrei dunque parlare delle sue qualità professionali scrivendo pagine su pagine e senza stancarmi. Ma ho letto tanti articoli pubblicati in questi giorni: il web è pieno, pieni ne sono i giornali.

C’è però un aspetto della sua vita che non tutti hanno avuto il privilegio di conoscere: la sua infinita disponibilità umana. E io sento il dovere, oggi più che mai, di sottolineare quanto questo aspetto sia stato importante nella mia storia professionale e quotidiana.

Il professore Corrado Beguinot è stato (ed è) per me un padre, un consigliere, un grande e insostituibile amico. Mi lascia molti impagabili insegnamenti: un metodo di lavoro che mi ha sempre aiutata, un modo di scrivere senza compromessi, la consapevolezza di affrontare l’obiettivo – qualunque esso sia – con grande determinazione, la responsabilità di una meta comune. Ma non di meno l’esortazione di tendere all’umiltà, non professionale ma di animo.

E ora purtroppo mi lascia anche una forte malinconia.

PROFESSORI E DOTTORI NELL’ITALIA DELL’ABUSO

Qualche anno fa visitai l’Accademia di Architettura della Svizzera Italiana (a Mendrisio), alla cui biblioteca donai alcune mie pubblicazioni. Visita che si tradusse in un’interessante esperienza, visto che ebbi modo di constatare come la formazione degli studenti venisse affidata a intense attività di laboratorio, cosa che dovrebbe accadere in ogni Facoltà di Architettura. Progettare, progettare, innanzi tutto progettare.

In quell’Accademia, gli insegnanti di progettazione e pianificazione vengono tutti dal mondo professionale, ossia sono attivi – alcuni ad altissimi livelli – nel campo di battaglia dell’esercizio lavorativo. Questa non banale componente garantisce gli studenti nell’apprendimento reale della professione. Diversamente, in Italia la squadra di docenti di progettazione e pianificazione non sempre proviene dal quotidiano scontro con l’esercizio professionale, con la mutazione delle leggi (che qui è disastrosa), con le sconcertanti interlocuzioni con gli inadeguati Uffici Tecnici, eccetera. E troppo spesso i docenti non trasmettono ai discenti le dovute competenze (quelle competenze che non possono apprendersi solo attraverso i libri). Senza contare le inesperienze delle schiere di collaboratori, impropriamente chiamati assistenti, la gran parte dei quali altro non è che personale senza stipendio e appena laureato (talvolta addirittura in corso di laurea) o, bene che vada, in attesa di conseguire il dottorato.

Eppure, questi individui – a qualsiasi livello – sono chiamati (e si fanno chiamare) professori.

Mettiamo un po’ d’ordine. Il mondo accademico posiziona gli insegnati, vincitori di concorso, su tre livelli: i ricercatori, gli associati e i professori. Tralascio l’analisi della differenza tra professore ordinario e professore straordinario, sulla qual cosa pure ci sarebbe da dire. E tralascio i contrattualizzati, altro ampio tema.

Ritornando ai vincitori di concorso per i tre gradi dell’insegnamento universitario, il professore, quello vero, è titolare di cattedra. Non è dunque corretto attribuire la stessa qualifica a ricercatori e associati. Chi – tra questi ultimi – non riesce a reprimere tale inquieto desiderio, dovrebbe perlomeno avere il buonsenso di attribuirsi il grado di professore-associato professore di seconda fascia. Ciò non avviene. Lo spasmodico anelito a gloriarsi del massimo ruolo universitario non risparmia quasi nessuno e, nello specifico caso, tacere parte del titolo è un buon metodo per fuggire il problema. E non risparmia neppure le Istituzioni Universitarie: basti consultarne i siti.

Quando andai in Svizzera, entrando nell’Accademia, mi imbattei in una gentile signora che occupava un ruolo di rilievo all’interno dell’Istituzione. Mi rivolsi a lei chiamandola dottoressa. Molto cortesemente e coscienziosamente, mi rispose non sono dottoressa, sono architetto. Non posseggo un dottorato di ricerca. Eccoci dinanzi a un altro grande equivoco, tutto italiano.

Il conseguimento del titolo di dottore di ricerca appartiene all’alta formazione post universitaria. Sarebbe giusto, dunque, attribuire la qualifica di dottore architetto, dottore ingegnere, e via dicendo, solo a chi effettivamente lo è. E invece, quante volte capita il contrario? Quale responsabilità hanno le nostre associazioni di settore? Mi chiedo: ma non si ritiene sufficiente essere architetti?

Insomma, confusioni di ruoli, attribuzioni illecite, egocentrismi e insoddisfazioni: è questo il nostro Paese?

Già, d’altro canto non è forse l’Italia dei “geometri architetti” e dei “geometri ingegneri”? Una volta, un tizio si rivolse a me per una progettazione. Mi chiamava geometra. Chiarii che ero un architetto. Lui, sorpreso e perfino indignato, mi rispose: ma come, lei non è geometra?

Tant’è.

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