Elodia Rossi

N. 3 – Spazi e Luoghi dell’Architettura

Eccomi al terzo articolo su Spazi e Luoghi dell’Architettura.

I nefasti dati riportati nell’articolo precedente – sui temi della deforestazione, del consumo del suolo agricolo e dell’inquinamento – lasciano facilmente capire quale situazione di disagio sta vivendo l’intero Pianeta. Una situazione che è diretta derivazione dal modo con cui l’abitare umano si sta sviluppando.

Il correlato tema dell’ingigantimento esponenziale delle aree più urbanizzate ne è sì la causa, ma soltanto in relazione al modo con cui questo fenomeno sta dilagando. I fabbisogni delle conurbazioni sono enormi e si stima che in esse venga eroso il 75% delle risorse del Pianeta.

Certamente, secondo un’ipotesi ormai non più percorribile, la distribuzione razionale e pressoché equa dei luoghi delle funzioni umane sulle terre emerse, sarebbe la soluzione migliore, capace di generare un privilegiato rapporto tra edificato e ambiente naturale, con derivazioni efficaci in termini di abbattimento dei tassi di inquinamento. Il verde, ricordiamolo, è il polmone dell’Universo.

Tuttavia, le megalopoli aumentano di dimensione e si moltiplicano. Qualsiasi città cresce velocemente, mentre si spopolano sempre più le campagne. Ma perché? Facile dirlo. Nel contesto di una società decisamente mutata (da quella agricola a quella dell’ICT, fino alla globalizzazione con le relative incidenze), la concentrazione delle funzioni vitali – sedi lavorative, sedi abitative, sedi ludiche, sedi commerciali, sedi sanitarie, eccetera – avrebbe dovuto permettere vantaggi in termini di riduzione dei tempi e miglioramento della vita. E questo, senza contare il contributo enorme che avrebbe dovuto giungere dalla rete. Dato l’orientamento della contemporaneità però, anche questa ambizione si contrae e subentrano elementi di frattura, come disservizi e disfunzioni, che determinano dilatazioni temporali inadeguate e insopportabili.

Insomma, se la vita nelle grandi città dovrebbe consentire perlomeno alcune facilitazioni, le effettive relazioni spazio/funzionali assumono complessità ingovernabili. L’enorme disparità tra risultati e aspettative, ha tradotto la città contemporanea in luogo dell’invivibilità.

Ciò che comunemente viene chiamato progresso, secondo logiche prevalentemente economiche che spesso e opportunisticamente non esaminano gli scompensi ambientali, ha dunque imposto mutazioni impattanti e, per certi versi, inattese. Come accennato, le necessità umane sono drasticamente cambiate nel corso di soli due Secoli di storia e la grande società contadina ha lasciato il passo prima alla società tecnologica, poi anche a quella dell’informazione avanzata. La speranza che, in tempi abbastanza recenti, si affidava alla diffusione via cavo (poi via etere), consistente nell’abbattimento delle distanze (il cosiddetto km 0), non ha dato i frutti attesi. E così, benché gli intervalli della comunicazione siano ormai inesistenti, ben altri fattori (soprattutto di consumistico mercato) hanno inciso negativamente sul complesso della gestione delle funzioni umane, imponendo comunque la necessità – per alcuni versi, l’aumento – degli spostamenti fisici.

L’architettura ne è risultata disorientata. Quest’alternanza di aspettative umane ha compromesso studi e ricerche nel campo del costruire globale. La risposta scientifico/architettonica non si è rivelata adeguata. Ora siamo al bivio, pur nell’incertezza del domani, di quali sviluppi ancora ci siano riservati, di quali cambiamenti dovremo ancora occuparci.

Ma siamo al bivio. O l’architettura sceglie la corretta strada, oppure non ci sarà ritorno.

L’architettura sta tentando rimedi, sbaglia e riprova ciclicamente, confusa dalle mille trasformazioni. Ma, forse, un punto fermo su cui lavorare c’è. Ovviamente riguarda la gestione formale dello spazio urbano e funzionale. Ci arriveremo e capiremo i vantaggi della verticalizzazione. Nulla potrà essere più incisivo dello studio di alcune importanti città mondiali.

 

NOTA: Suggerirei, per approfondimenti sul tema della crisi urbana, di leggere alcune pubblicazioni edite da Giannini Editore e curate dal prof. Corrado Beguinot (Presidente della Fondazione di Studi Urbanistici Aldo Della Rocca), cui ho anch’io partecipato, derivate da una ricerca pluridecennale e sottoposta al vaglio delle Nazioni Unite. Successivamente, in un articolo dedicato, ne illustrerò il percorso.

Architettura ed Estetica

Questa mattina, sulla pagina Ordine degli Architetti di Facebook, un collega – l’architetto Salvo Cimino – ha girato un post derivato dalla sua interessante pagina personale Cimino Design Studio. Consiglio di leggerne i contenuti.

Il post tratta dei concetti di bellezza, di proporzioni, di estetica e, in un certo senso, di etica. Il tema è affrontato relazionando tre volti femminili, due dei quali noti al mondo: quello di Julia Roberts e quello di Ingrid Bergman. Il terzo volto è rappresentativo delle proporzioni ideali. Eppure, ne esce perdente. Da tale acuto spunto, il collega Cimino passa ai temi dell’architettura e, con lucidità, affronta un concetto che, a mio parere, apre le porte al vero e attuale dibattito sull’estetica e l’etica delle forme architettoniche.

Ho commentato il post con una nozione, la cui paternità si deve al maestro Giorgio Albertazzi, secondo cui la bellezza è l’armonia delle imperfezioni.

Etica ed estetica, fonti privilegiate del pensiero filosofico d’ogni tempo, appartengono strettamente all’architettura. Ed è vero che l’estetica ha preso il sopravvento nell’animo dei maestri della contemporaneità, le cui esternazioni risultano spesso prive di personalizzazione. O meglio, la personalizzazione resta in capo all’autore, penalizzando il committente (colui che vivrà l’ambiente) della sua storia, del suo essere, della sua consuetudine di vita. Concetto che trova terreno fertile soprattutto nel campo dell’edilizia privata. È qui che ogni buon architetto deve individuare la giusta mediazione, esercitando la capacità di esaltazione dell’idea, senza disattenzione delle aspettative altrui.

Per gli ambiti monumentali e pubblici, il discorso possiede altre prerogative: i beni comuni, i bisogni collettivi, luoghi nei quali il rapporto forma/funzione si dilata.

Nel caso dell’edilizia privata, credo che bisogna osservare l’opera di alcuni maestri con una giusta dose di distacco, nell’intenzione di comprenderne gli elementi di innovazione, quali risultati di percorsi di ricerca formali. Un po’ come alcuni degli abiti di alta moda che vengono fatti transitare sulle passerelle, ma che nessuno indosserà mai.

Il concetto della relatività temporale della bellezza mi stimola molto. E coincide con quanto ho sostenuto e sostengo in questo blog. Non c’è architettura fin quando si emula il passato. La Roberts, con tutte le sue imperfezioni, è un’icona della bellezza di oggi. La Bergman, benché più armonica, è icona della bellezza di altri tempi.

Forse non sono spettacolari alcuni edifici rinascimentali? Lo sarebbero altrettanto se fossero edificati oggi? Passato e presente, ognuno col ruolo che vi si deve, per la costruzione del futuro (Rif. articolo Passato e Futuro).

I canoni della bellezza (dell’estetica architettonica) necessitano di riferimenti, sia assoluti che temporali. Al di là dei gusti del singolo, derivazioni di percorsi culturali personali, è necessario che siano individuati elementi superiori, in grado di orientare e caratterizzare la contemporaneità architettonica. Un bisogno, questo, percepito in ogni epoca, fin dall’intramontabile Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci. Più vicini nel tempo, tornano alla mente i cinque punti della nuova architettura di Le Corbusier, poi distorti da adattamenti infelici. Ritorna il tema della necessità di una formazione collettiva che deve affidarsi alla ricerca della buona architettura e alla relativa corretta divulgazione.

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