Elodia Rossi

Il dolore delle Vele di Scampia

È un urlo di dolore quello che lanciano le Vele di Scampia. Un urlo che segue una lunga sofferenza, fatta di abbandono, tradimento, incomprensione, trascuratezza, incuranza. Oggi non hanno colore, sono giganti addolorati che piangono e chiedono aiuto. Eppure sono lì, ancora in piedi, nonostante tutto. Non tutte però, visto che ormai se ne contano soltanto quattro sulle sette iniziali. Tre sono state abbattute tra il 1997 e il 2003, già in condizione di forte degrado a soli vent’anni o poco più dalla loro solenne nascita.

Opere maestose, studiate abilmente per accogliere residenze sociali, diventate immediatamente un simbolo per gli architetti e per tutti coloro che hanno il senso dell’estetica. Francesco Di Salvo, il progettista, aveva saputo guardare ben oltre la produzione architettonica che aveva caratterizzato gli anni sessanta (momento in cui iniziò l’edificazione), offrendo un contributo straordinario di innovazione – perfino futuristica – al decennio successivo: gli anni settanta, quando le vele s’ersero in tutto il loro splendore. Di Salvo ebbe appena il tempo di vederle compiute (nel 1975), per donarle all’universo delle forme magistrali e poi morire nel 1977, poco più che sessantenne.

Mai avrebbe pensato che si sarebbero susseguiti anni di incuria amministrativa, lunghi periodi di trascuratezza, che sarebbe sopraggiunto l’impeto degli occupanti abusivi ai tempi del dopo terremoto, che l’incapacità dei deputati al governo urbano non avrebbe consentito di vedere oltre e riconoscere in quelle opere il grande merito di essere state progressiste, di aver largamente anticipato un orientamento architettonico che, destinato a durare, emana ancora la sua espressività.

Le vele di Scampia sono state emulate (talvolta perfino copiate, permettetemi il termine), nella loro essenza formale, da numerosi progettisti di lì a venire e non soltanto italiani. Ho in mente molti di questi casi e, senza voler manifestare apertamente quelli che considero usurpazioni evidenti, faccio timido cenno ad alcune manifestazioni recentissime di edifici-giardino, opere di grandi studi di architettura, i cui impianti sembrano ricalcare non poco quelli delle Vele.

Hanno ispirato film, libri e perfino poesie. Ora il Comune di Napoli ha deciso di procedere all’abbattimento di altre tre. Ne rimarrebbe una soltanto, da destinare a uso pubblico/sociale (centro di accoglienza).

Ventisette milioni di euro (così si dice) stanziati per l’abbattimento e via, dunque, a un programma di riqualificazione con mutazione della destinazione d’uso per la sola Vela che resterà in piedi. Perché?

Perché non consegnare i ventisette milioni all’avvio di un programma di riqualificazione complessiva delle Vele e del quartiere che le ospita? Saranno pur pochi, ma potrebbero bastare per la messa in sicurezza e per le prime operazioni di completamento. Potrebbero bastare, se si lavorasse con criterio, magari affidando appalti per settori (e non l’appalto complessivo) a ditte locali di modeste dimensioni, favorendo l’economia e salvando l’architettura. Perché è di architettura che si sta trattando: architettura lucida, esemplare, tronfia di criteri progettuali incontestabili.

Perché lo stesso Ente che non ha avuto la capacità di evitare il degrado, senza scrupolo oggi s’erge a giudice supremo che ne sentenzia la morte?

Dov’è il Ministero dei Beni Culturali? Come può consentire un tale scempio e non sostenere, al contrario, un programma intelligente di valorizzazione di un bene che, come pochi, ha positivamente influenzato gli anni a venire.

L’architetto Luigi De Falco ha lanciato una petizione attraverso Change.org: Salviamo le Vele di Scampia dalla demolizione. Io ho firmato. Salviamole.

N. 4 – Spazi e Luoghi dell’Architettura

Nei precedenti tre articoli ho spiegato, in sintesi, le ragioni che stanno determinando il veloce aumento dimensionale delle megalopoli. Ho accennato ad alcune ricadute del fenomeno, in termini di organizzazione (e disordine) delle aree urbane sovraffollate.

Ora voglio parlare di uno dei fenomeni che, a mio avviso, è espressione del più incisivo degrado fisico/funzionale di alcune delle megalopoli mondiali: le baraccopoli. Una ripercussione che rischia di dilagare in maniera abnorme, entrando a far parte – in breve tempo – della quasi totalità delle grandi urbanizzazioni planetarie.

Viviamo in un periodo storico caratterizzato da una crisi economica mondiale, forse la peggiore della storia, oltre che da dilaganti fenomeni di mal gestita immigrazione. Tutto questo fa i conti con le mutate esigenze delle società, in irrefrenabile e perdente corsa verso le continue innovazioni dell’ICT. La gestione controllata di questi ultimi elementi richiederebbe investimenti enormi, dal campo formativo a quello dell’adeguamento urbano, non certamente affrontabili con le scarse e spesso mal amministrate risorse disponibili.

La povertà aumenta vertiginosamente, il carico urbano altrettanto, gli spostamenti fisici – a dispetto delle aspettative – si moltiplicano a dismisura, mentre gli spazi di accoglienza vanno a contrarsi e le città esplodono.

La città, ormai immaginario luogo privilegiato della vita collettiva e lavorativa, ha costi di sopravvivenza ben superiori a quelli dei centri minori. La speranza di un futuro migliore, ambizione di ogni individuo, porta la gran parte della gente a spostarsi nelle aree urbane. Il divario economico tra possibilità personali e richieste derivanti dalla vita in città (in termini di mercato immobiliare, servizi, approvvigionamenti basilari alla sopravvivenza) è enorme. La gente meno fortunata è costretta ad abitare in aree degradate, dove gli spazi sono angusti, i servizi inesistenti, le dimore fatiscenti e illegali; dove la criminalità raggiunge livelli insopportabili, la vita civile è pressoché annientata, priva di regole e perfino di buonsenso. Arrangiarsi è la parola d’ordine. Queste sono le baraccopoli (o slum, o favelas, o bidonvilles, eccetera).

Inutile che mi dilunghi sulle modalità costruttive e formali di questi luoghi dell’indigenza. Basti dare un’occhiata alla foto riportata al link https://www.poverties.org/blog/urban-poverty-in-india. E non è tra le peggiori baraccopoli.

UN-Habitat le definisce aree densamente popolate e caratterizzate da abitazioni al di sotto degli standard minimi e da miseria. Sono luoghi del terrore che si stanno espandendo, si moltiplicano e – con un po’ di acume – possono individuarsi timidi ma pericolosi fenomeni anche nelle città finora apparentemente salve.

I dati di UN-Habitat (tratti da the challenge of slumsglobal report on human settlements del 2013) sono terrificanti: le baraccopoli sono 250.000 e ospitano 1 miliardo di persone. E se per i Paesi cosiddetti sviluppati l’incidenza della popolazione che le abita è del 6%, in quelli in via di sviluppo l’incidenza sale addirittura al 43%. Parrebbe esiguo il dato del 6%. Ma tale non è se si rapporta a precedenti valori, sempre derivati dagli studi dell’Agenzia ONU, sensibilmente minori. Il fenomeno è in aumento, il trend non mente e UN-Habitat lancia il grido dall’arme: in assenza di giuste misure, in soli trent’anni la popolazione delle baraccopoli potrebbe raddoppiare, raggiungendo più di un quarto della complessiva e un mezzo di quella urbana. Gli slum di Afghanistan, Etiopia, Ciad, Nepal ospitano circa il 90% della popolazione relativa. Mumbai, Dacca, Città del Messico, il Cairo, Lagos posseggono le baraccopoli più popolose al mondo.

Cosa può fare l’architettura? Molto direi, se supportata da un buon sistema politico e da una presa di coscienza collettiva.

L’idea della smobilitazione di questi luoghi, sperimentazione effettuata in alcune realtà con disastrose ripercussioni, non è la strada vincente. Garantire nuovi alloggi e condizioni di vita meno insostenibili agli abitanti è pressoché impossibile: costi e dimensioni sono i principali elementi ostacolanti. L’azione deve essere interna, partendo dal basso, riqualificando pian piano l’edificato, dotando questi luoghi – il più rapidamente possibile – di servizi essenziali (come il sistema fognario) destinati anche a contrarre lo sviluppo di smodati tassi di inquinamento. Bisogna mirare, con coscienziosa modestia, con prudenza e metodo, al conseguimento di soluzioni complessive formali e funzionali in grado di garantire condizioni di vita accettabili. E bisogna evitare, con adeguate politiche abitative, lo sviluppo ulteriore degli aggregati. Sarebbe già abbastanza.

Translate »