Elodia Rossi

III – LE DIMENSIONI DELL’ARCHITETTURA

Non è facile, né immediato, esporre disquisizioni sulla N Dimensione dell’Architettura. Ragione che ci porta a lunghe pause, nel tentativo di raccogliere le singole riflessioni (ricordiamo che siamo in due a ragionare e scrivere su questo argomento: Salvo Cimino ed Elodia Rossi), discuterle e, solo dopo, proporle alla lettura.

Sappiamo che da lungo tempo maestri e studiosi si sono trovati dinanzi alla constatazione secondo cui le già note Quattro Dimensioni non sono sufficienti a soddisfare l’approccio percettivo di un’arte (l’architettura, appunto) che possiede troppe variabili e molteplici sfacciature.  Umilmente e prudentemente, cerchiamo di offrire il nostro contributo.

Nel precedente articolo (N.1 – Le dimensioni dell’Architettura) abbiamo posto una condizione: la N Dimensione dell’architettura, a differenza di altre discipline e correnti di pensiero, non può essere astratta. Deve potersi misurare, deve avere riferimenti concreti, come si conviene a una scienza che – sebbene esploda soltanto nei casi in cui la forma artistica si traduce in innovazione e singolarità – fonda le sue basi sulla metrica, sulla manipolazione spaziale, sull’articolazione volumetrica. L’approccio è nella scienza fisica.

Forse è il caso di sancire un concetto: quando si parla di architettura (e quindi, del cercare la N Dimensione) non ci si riferisce all’edilizia generalizzata. L’architettura è arte e le riflessioni in corso riguardano esclusivamente essa. A titolo esemplificativo basti pensare che è consuetudine incorrere in chi trova godimento nell’abitare un edificio brutto; altrettanto vero è che differenti individui, più consapevoli nei confronti dell’arte, non percepiscono il medesimo stato di benessere. Una delle prerogative dell’architettura è, dunque, trasmettere emozione positiva al fruitore. Ciò accade per gli storici edifici eterni, ciò accade per le opere indiscusse e indiscutibili di alcuni maestri contemporanei.

Questa considerazione, noi crediamo, aiuta anche nella ricerca di quella Dimensione tanto attesa e ancora, al di là del sentore di alcuni studiosi, non consacrata.

Forse, proprio per evitare distorsioni di pensiero, è necessario riflettere su base concreta, ossia attraverso riferimenti reali, fruibili, percorribili. Ricordiamo che, già in precedenza, abbiamo attestato (anche motivato) che la N Dimensione è strettamente connessa alla fruizione (esclusività dell’arte architettonica) e alla percezione.

Ed è vero che la percezione è generalmente individuale, dipendendo dal bagaglio di conoscenza e dalla singolarità di ognuno. Ma è altrettanto vero che deve esistere un filo conduttore comune, una base di partenza che accomuna la specie umana quand’ella è scevra dei tanti impulsi negativi derivati dalla quotidianità. Bisogna dunque andare all’origine, ricercare quegli elementi percettivi che sono patrimonio fisiologico dell’individuo. Per quanto complesso sia, una metodologia efficace potrebbe individuarsi proprio nel confrontare le sensazioni percettive di differenti individui nel fruire l’oggetto di architettura. La conferma viene dalla constatazione secondo cui, penetrando un’opera architettonica vera, è pressoché impossibile trovare soggetti che la percepiscano estranea. Ritornano i temi del dinamismo e dell’appartenenza.

Pensiamo a due opere magistrali, non di tipo residenziale ma collettivo, frutto di diverse epoche: il passato e la contemporaneità.

Uno di noi (Salvo Cimino) propone la Cappella Palatina di Palermo, straordinario esempio d’arte sacra del XII Secolo, capolavoro colmo di simbolismi.

L’altra (Elodia Rossi) propone il nuovo Centro Congressi (opera di Fuksas) a Roma, recentissima espressione architettonica innovativa.

Ognuno di noi è pronto a sperimentare le emozioni di visitatori, anche intervistandoli, per trarne elementi condivisibili e utili alla ricerca. Siamo convinti che, nonostante le differenze epocali, i risultati in termini di suggestione percettiva siano gli stessi.

Un esercizio necessario, evidentemente non risolutivo, ma che potrà restituire approfondimenti rispetto a quanto da noi affermato fin dal primo articolo: L’oggetto architettonico è fatto per essere vissuto e, passando dall’esterno all’interno, i riferimenti percettivi si moltiplicano, …inglobano l’essere … La memoria possiede sì un ruolo decisivo, ma tanto più efficace quanto più esercitata alla contrazione dei ricordi in un susseguirsi di istanti. È velocità percettiva all’interno dello spazio architettonico, in gioco tra vuoti e pieni, perfino istantaneamente modificata dalla presenza umana.

È qui che va ricercata la N Dimensione, quella dimensione percettiva che moltiplica n volte la tridimensionalità e richiama non solo il tempo (superando la Quarta Dimensione), ma anche spazio e velocità. Vedremo.

Una curiosità: l’Università di Southampton, in Inghilterra, ha realizzato una memoria digitale di grande portata. È stata chiamata 5D. Interessante osservare che la memoria sia stata posta in relazione con la Quinta Dimensione. La velocità di trasformazione con cui viaggia la tecnologia lascia supporre che, più avanti, potrà esserci la memoria di una macchina 6D, poi ancora 7D e via dicendo.

Valga dunque una precisazione: noi non parliamo di Quinta Dimensione in architettura. Noi sosteniamo un percorso conoscitivo verso la N Dimensione, nella consapevolezza che essa non potrà più essere superata. Tuttavia uno stimolo interessante deve ricercarsi nell’approccio conoscitivo: per la macchina si traduce in algoritmi, dunque su base matematica, derivazione indiscutibile di elementi misurabili.

Idea e Tecnica

Ho più volte sottolineato l’importanza dell’idea nella creazione architettonica. Faccio riferimento a molti dei miei precedenti articoli, in particolare a quelli destinati agli studenti di architettura.

Nel concepire l’idea giusta sta il successo dell’opera che si progetta. A questo punto subentra la tecnica, ossia la capacità di trasformare l’idea in progetto e, poi, in realizzazione. La dote necessaria, patrimonio di ogni bravo architetto, sta nella capacità d’immaginare anticipatamente l’opera compiuta. Il percorso progettuale suggerirà dettagli, affinamenti, particolari aggiuntivi.

Voglio dare uno sguardo alle arti in genere. La pittura, per esempio, o la scultura. Un bravo pittore sa che la sua idea troverà esplosione su una tela a lui affidata, quale trasposizione del suo immaginario attraverso i colori, le matite, le pennellate. E questa trasposizione dovrà essere autentica, caratterizzata nello stile, impattante. Bene, questa è tecnica. Laddove mancasse, l’autore dell’idea non sarà mai un bravo pittore.

La poesia e la musica hanno smarrito i canoni ritmici, senza aver trovato soluzioni alternative altrettanto valide. Dunque viene a mancare il terreno fertile su cui impiantare la tecnica e, a fronte di pochi che ricercano elementi di condivisibile artisticità, i tanti si incamminano su sentieri oscuri e destinati all’oblio.

La mediocrità non paga nel tempo e non appaga mai. Il superamento della tecnica (e dei principi su cui fondarla) mortifica finanche l’idea.

Altrettanto accade in architettura. L’idea regna, è essa stessa architettura, è il Principio, il Verbo. Ma la tecnica è lo strumento per la sua concretizzazione. E non si tratta banalmente di saper utilizzare strumenti di disegno, soprattutto se informatici. Piuttosto si tratta del saper seguire il percorso progettuale, affinarne gli elementi nel tempo, gestirne gli eventuali cambiamenti. Il rapporto tra architetto ed elaborato progettuale è intimo, sofferto, pensato e perfino soggetto a mutazioni.

La contemporaneità ha purtroppo imposto il sopravvento dell’individualismo, come ho già affermato in circostanze differenti. In arte e, naturalmente, in architettura questa imposizione – probabilmente scaturita dai media, dall’affermazione dell’immagine nelle sue forme più varie e contrastanti – ha generato danni enormi. Il superamento di ogni canone, l’assenza di ricerca tesa all’individuazione di norme comuni, il concetto di bellezza dato in pasto al gusto di una collettività ormai sovraccarica di superfetazioni (mi sia concesso il termine), l’uso (o abuso) personalizzato dell’etica, hanno generato il massacro. Un danno enorme, che ha forti ripercussioni non soltanto nell’elaborazione dell’idea, ma anche nella sua restituzione.

Così oggi, fatte salve le poche nicchie culturali ancora genuine, passano per essere artisti molti pittori e scultori, musicisti e poeti, fino agli architetti, che utilizzano più la stravaganza (talvolta perfino il cattivo gusto) che la tecnica.

L’architettura paga più di ogni altra arte. Perché l’architettura è paesaggio, è ambiente, è generalmente destinata a caratterizzare ogni luogo per tempi lunghi, a segnare le epoche, a scandirne i passaggi. L’architettura ha dunque un ruolo fondamentale nella formazione della collettività.

L’Italia, in particolare, soffre per essere ancora soggiogata al suo glorioso passato (Rif. Art. Un Problema di Cultura) e combatte il clima di disorientamento non con la dovuta ricerca d’innovazione – cosa che in altre Nazioni sta finalmente avvenendo – ma con quel deleterio e nostalgico ricordo che si trasforma in simulazione. Il peggiore dei mali.

All’interno di uno scenario collettivo estremamente confuso, artefatto dal consumismo sfrenato, l’arte vera, quella che trasmette emozione e che esclude la mediocrità, quella che discende da raffinata e intrigante ricerca, finanche tramite colte azioni dialettiche, sembra essere morta.

Non possiamo permetterlo.

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